George Saunders, la compassione e la grazia
Esistono molti modi per raccontare una storia, diversi tipi di percorsi da fare, o se preferiamo strade, per arrivare al centro di qualcosa. Per uno scrittore quel centro è il tema, il tipo di mondo che ci vuole mostrare, i personaggi che devono mostrarcelo facendone parte. Di George Saunders e dei suoi libri di racconti hanno scritto in moltissimi, e in pochi critici sono riusciti, nel tempo, a trattenere l’entusiasmo, il consenso verso la sua scrittura è quasi unanime, non sarò io a dissentire, anzi. Proverò brevemente a spiegare come lo scrittore americano abbia sempre scritto cercando di raccontare l’umano (e il disumano) nel nostro tempo, utilizzando una specie di distorsore della realtà, qualcosa che la deformasse, che la declinasse nel grottesco, con i colori della farsa, che ne evidenziasse il ridicolo, trovandolo in ogni cosa, senza ricorrere mai al cinismo. Anche Chuck Palahniuk, per esempio, mostra la realtà attraverso un deformatore, ma Palahniuk (che come Saunders sa essere molto divertente) ha bisogno di eccedere, di andare oltre il sopportabile, quando trova il ridicolo ha bisogno di portarlo all’estremo. Il grottesco e l’assurdo di Palahniuk dimostrano che la disumanità ha vinto. Nessuno è salvo. George Saunders, invece, è uno che spera, che dà speranza e che crede al cuore delle persone, di quello narra e a quello vuole arrivare. Nel suo caso il deformatore farà in modo che il nostro pulsante della commozione venga premuto, dopo averci fatto ridere e scuotere la testa. Starà andando tutto a rotoli e poi comincerà a nevicare, saremo tornati bambini nell’arco di un paio di frasi. George Saunders è in grado di riportarci a quella purezza. Ingenui ma consapevoli.
“Un soffio di vento mandò giù dal cielo una raffica di vento vaporosa. Che spettacolo. Perché eravamo fatti così? Capaci di trovare la bellezza in tante cose che accadevano ogni giorno?” La frase è tratta da Dieci Dicembre, il racconto che chiude il libro dal titolo omonimo, il più recente scritto da George Saunders. Credo che con questo libro lo scrittore americano abbia sfiorato la perfezione, sia arrivato alla costruzione delle storie miscelando il talento e il coraggio, che ha sempre posseduto, a una straordinaria sicurezza. Il tema, il suo obiettivo, Saunders l’ha sempre raggiunto, anche con le precedenti raccolte di racconti: Pastoralia; Nel Paese della persuasione; Bengodi e altri racconti (tutti e quattro i libri sono editi in Italia da Minimum Fax e tradotti da Cristiana Mennella), ma ho avuto l’impressione che avesse bisogno di fare molta più strada per arrivare al punto, che alla sua fiction occorresse più finzione; per dire il grottesco anche il luogo doveva esserlo, anche i personaggi. Allora ho fatto un gioco e ho deciso che i libri di Saunders fossero come le tre circonvallazioni di Milano, ovvero che fossero scritti a tre distanze diverse dal centro.
Bengodi e altri racconti e Pastoralia sono partiti dalla circonvallazione esterna (quella della 90/91, per intenderci). Saunders ha ben chiaro dove si trovi il centro ma vuole andarci piano, ha bisogno di andarci piano, la sua lente deve deformare il più possibile, prima di andare in centro bisogna vedere cosa c’è nei palazzi di Viale Tibaldi, nel caso di Saunders un teatro dell’assurdo, come quello dei racconti di Bengodi e altri racconti, dove i protagonisti sono i difettosi, o i fabbricaonde, o posti dove a pagamento si rivivono gloriosi momenti del passato; o come in Pastoralia con uomini e donne che per lavoro fanno i cavernicoli, la spogliarellista alle prese con la zia che resuscita dall’altro mondo e impartisce lezioni di vita, o un moderno santone. Disadattati, in ogni caso, in luoghi che non esistono, ma che potenzialmente potrebbero esistere spostando il confine un po’ più in là. Nel paese della persuasione è la circonvallazione interna, Saunders comincia ad avvicinare la lente e subito dopo la stacca dagli occhi, le differenze sembrano di meno, occorre fare minor strada, siamo su Viale Sabotino, partiamo da un cortile di Viale Bligny, si può tentare di comprendere l’umano usando, almeno in parte, quello che c’è, più negozi e meno teatro, stessa quantità di ridicolo. Il primo racconto è una semplice e-mail: un addetto della ditta KidLove risponde a una donna che restituisce un prodotto, il PARLO ANCH’IO!®, strumento educativo, ironicamente rivoluzionario. Saunders sposta il suo occhio, va dentro le mura domestiche e da lì guarda le nostre paure, le nostre ridicole attese nei confronti di ciò che arriva dall’esterno, la nostra debolezza rispetto alle sollecitazioni del marketing. Nel secondo racconto un nonno cerca disperatamente di non deludere il nipotino, deve portarlo a uno spettacolo, ma incapperà in una serie di paradossali imprevisti. In un altro racconto un uomo gira in mutande in casa di una famiglia che non è la sua, la faccenda è assurda ma è presentata come una consuetudine, non è ma potrebbe essere, qui e adesso.
«Certe volte, dopo che ho scritto una poesia sulla bellezza del firmamento mi tocca fare il giro per cambiare le lenzuola. Secondo te risolleva lo spirito? Secondo te un’attività del genere infonde nutrimento alla tua natura sublime? Ma neanche lontanamente, fidati.»
Dieci Dicembre è già nella Cerchia dei Navigli, può andare a piedi dove gli pare. Saunders sa dove stanno le distorsioni, l’illogico è già qui, non c’è bisogno di scegliere un luogo, quasi mai vengono nominate città, non serve che due persone lavorino come finti cavernicoli o fingano di salvare i procioni, bastano lavori normali, case normali, famiglie più o meno normali. Il cuore dell’umano ci verrà raccontato. Saunders scrive in prima persona, poi in terza persona, poi in quel capolavoro che è Le ragazze Semplica ricorre alla sgrammaticatura, il narratore esterno, la voce fuori campo, il racconto brevissimo e fulminante come Croci, quell’altro in cui le persone vengono utilizzate per fare esperimenti, in una sorta di laboratorio permanente in cui vengono indotte le azioni e monitorate le reazioni, che è Fuga dall’aracnotesta (dedicato a David Foster Wallace).
In tutti i libri di Saunders non c’è mai un singolo protagonista, tutti sfumano in una specie di coro, tutti sono disorientati, anche quelli che non lo sembrano. Vivere è complicato e la gente fa quello che può, quasi sempre sbaglia, tutti vogliono una seconda possibilità, parecchi falliscono anche quella e anche le successive. Saunders non condanna, è compassionevole. Gli interessa il grottesco, è ironico ma tiene molto alla questione morale, non perde mai di vista una certa idea di bene. Il nostro tempo è folle, ma tutte le domande possono essere fatte in maniera divertente e tenera, l’amore non manca mai e, forse, in questo aspetto è sintetizzata l’idea di salvezza dello scrittore americano. Possiamo salvarci ora e qui, accorgendoci di chi ci sta vicino, facendo attenzione a dove mettiamo i piedi e a chi li pestiamo. Teniamoci d’occhio. Siamo tutti elefanti nella stessa cristalleria, muoviamoci piano. Piccole epifanie riveleranno quello che sta sotto la pelle dei personaggi e allevieranno di volta in volta il dolore, la malattia, l’abbandono, la solitudine. Thomas Pynchon ha scritto che George Saunders «è pieno di grazia, cupo, divertente». Ma come si riconosce la grazia? Leggiamo Saunders e tutto quello che fa ci sembra semplice, ogni parola inevitabile. La grazia è una visione delle cose che coniugata alla tecnica e al talento ci regala storie che vengono a toccare delle parti molto nascoste di noi, e non è solo empatia quella che proviamo, non è solo tenerezza, è il riconoscersi e il provare gratitudine verso lo scrittore. Saunders in fondo non fa altro che rappresentare il quotidiano, ma la vita di tutti i giorni è fatta di molte cose, le più importanti, spesso, nemmeno le vediamo; le scopriamo dalle conseguenze e ci perdiamo. Bisogna saperli costruire i racconti, parola per parola, la grazia è anche precisione, è accuratezza, è non avere fretta. Il racconto breve può richiedere tempi, di scrittura e revisione, lunghissimi, lo ha detto lo stesso Saunders riferendosi a Le ragazze Semplica, che ha avuto una gestazione di parecchi anni. Non è semplice fare quello che lui fa senza cadere nella retorica, senza ripetersi, senza diventare stucchevoli. La risata non deve sempre venire dal sarcasmo, la dolcezza non ha bisogno del miele, il miracolo avviene quando si legge una frase ben scritta e quando quella frase ci ricorda chi siamo dopo averci portati altrove, almeno per un po’. Una frase come questa:
«E poi siccome non gli aveva complicato la vita facendo la saputa erano rimasti lì sdraiati a fare progetti, tipo perché non vendiamo qui e ci trasferiamo in Arizona e compriamo un autolavaggio, perché ai bambini non gli compriamo il Sapientino, perché non piantiamo i pomodori, e poi si erano messi a fare la lotta e lui (chissà perché le era rimasto impresso) mentre la teneva stretta, era scoppiato in una risata/sbuffata di disperazione fra i suoi capelli, come uno starnuto, o come se gli venisse da piangere. L'aveva fatta sentire speciale, lasciandosi andare così.»
Il libro: George Saunders, Dieci Dicembre, traduzione italiana di Crisitiana Mennella, Minimum Fax 2013 pp. 222, € 15,00