Un'intervista con l'artista / Glitch: la verità nell'errore. Conversazione con Emilio Vavarella

Mauro Zanchi e Sara Benaglia: “Report a Problem” è il messaggio che compare in basso nella schermata di Google Street View, e permette di segnalare a Google gli eventuali problemi rilevati nella visualizzazione del luogo che si sta visitando virtualmente. Immaginiamo che si possa creare un sistema in grado di fotografare o rivelare immagini interiori, luoghi che vivono nell'immaginario. Tu hai viaggiato su Google Street View, fotografando sul monitor tutti i “paesaggi sbagliati” che hai incontrato, prima che altri utenti riportassero il problema; così hai indotto l’azienda ad aggiustare l’immagine sostituendo le foto errate. Come ti figuri i paesaggi interiori e una sorta di fantagoogle che sistema le immagini inconsce delle persone? Quale utilità potrebbe avere rendere visibili immagini inconsce?

 

Quando lo scorso gennaio mi avete chiesto di immaginare una fotografia capace di rivelare immagini interiori non avrei immaginato di rispondere partendo da un coronavirus. Ma mi piacerebbe partire proprio da qui, a dimostrazione di quanto sia rilevante comprendere il ruolo e la produzione delle immagini anche in un momento di profonda crisi come quella innescata dal COVID-19. Questo virus si è imposto, nostro malgrado, come un inaspettato inquilino dei nostri paesaggi interiori, tanto di quelli fisici quanto di quelli psicologici. E gran parte delle nostre energie si sono indirizzate verso la sua identificazione e comprensione. Dargli un nome, un codice, associarlo a delle statistiche che ne mappino il comportamento, significa costruire una precisa ontologia. Il virus diventa tale solo quando acquista una sua rappresentazione, tanto visiva quanto teorica. Ma come si riconosce un nemico invisibile? Fino a pochi anni fa per ritrattare un virus ci si sarebbe affidati a dei cartonisti, e questi, matita e libri alla mano, avrebbero dato forma a delle rappresentazioni più o meno suggestive del patogeno in questione. Oggi, invece, attraverso l’utilizzo di varie apparecchiature scientifiche, le rappresentazioni di un virus possono raggiungere un maggiore livello di oggettività. Queste rappresentazioni non sono semplicemente illustrative, ma sono indispensabili anche alla ricerca scientifica, dalla diagnostica alla terapeutica, e perfino rispetto allo sviluppo di un potenziale vaccino.

 

Alcune visualizzazioni del COVID-19 apparse nelle ultime settimane. Varie fonti.


Ma è anche importante capire che non esiste un’immagine ontologicamente fissa di qualcosa come il COVID-19. Del virus non si può dare una fotografia. Un microscopio ottico non può metterlo a fuoco, e non è tecnicamente possibile ricostruirne un’immagine univoca nemmeno usando un microscopio elettronico. Il microscopio elettronico raccoglie input, acquisisce dati, li modella matematicamente, e restituisce un’ipotesi. Questa può essere poi integrata con dati prodotti da altre tecnologie, come la micro-cristallografia a raggi-X, che utilizza altri modelli matematici per provare a risalire alla struttura atomica del virus. L’intero processo si basa sulla capacità computazionale di potenti calcolatori, ma anche sfruttando le tecniche più avanzate il risultato resta un rendering statistico. A queste immagini, frutto di laboriosi studi scientifici, si affiancano innumerevoli altre immagini, apparentemente molto simili, ma frutto di libere interpretazioni. Tutte queste rappresentazioni coabitano all’interno della nostra sfera mediatica, che a sua volta può essere immaginata come un’estensione della nostra psiche collettiva. Parallelamente all’avanzata del virus, le sue rappresentazioni viaggiano attraverso riviste scientifiche, sulla rete, sui nostri notiziari, invadendo anche lo spazio mediatico che non è fisicamente accessibile al virus stesso. La pervasività del virus, in questo senso, è totale. E la sfida al virus è una sfida all’invisibile e che stiamo combattendo anche attraverso l’estetica.  

 

Torniamo al sistema capace di fotografare paesaggi interiori che mi avete chiesto di immaginare. E se vi dicessi che non solo già esiste, ma è probabilmente già disponibile in tutte le maggiori città del pianeta? Innanzitutto, l’idea di utilizzare il medium fotografico per catturare immagini interiori ha accompagnato fin dall’inizio lo sviluppo della tecnologia fotografica. La storia dell’arte, tanto quanto la storia della scienza e della tecnologia, sono costellate di tecnologie e tecniche che, ad un certo punto, qualcuno ha rivolto verso di sé. Una delle prime tecniche che abbiamo imparato a padroneggiare, il linguaggio, ha ancora oggi una dimensione fortemente introspettiva, ad esempio nella poesia, nella narrativa, o nella psicologia. Idem per la pittura, che ha sempre offerto la possibilità di rappresentare il mondo esteriore e di dare forma a quello interiore. Ma la fotografia ha una particolarità che la rende ancora più adatta a questo tipo di lavoro: è sempre stata legata, (a torto o a ragione), all’idea di oggettività e obiettività. È notevole il fatto che tra le prime fotografie e tra i primi film sia ricorrente il tema della ricerca spiritica. Penso ad esempio agli studi sul paranormale raccolti nei primi anni ‘20 del Novecento dal barone Albert von Schrenck Notzing, nel suo Materialisationsphaenomene, o al prototipo fantascientifico di Sam Graves, chiamato ‘electrical mind revealer,’ che proponeva di leggere e visualizzare il pensiero.

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem, 2012. 100 fotografie. Stampe a sublimazione su alluminio. Dimensioni variabili. Installazione. X:216cm; Y:1224cm (in tutto). Veduta dell’installazione presso MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.


Ossessioni antichissime. Il desiderio di poter fissare oggettivamente, su carta fotografica, una dimensione effimera ed ectoplasmatica, può essere sintomo di una cultura, come quella Europea della prima metà del Novecento, affascinata dalla tecnologia moderna ma ancora fortemente superstiziosa. Sarebbe però sbagliato pensare che le cose siano cambiate drasticamente negli ultimi cento anni. L’idea di poter fotografare quel che è inconscio o invisibile è, infatti, alla base di tutte le tecnologie di visualizzazione medica, dalla gastroscopia ai più recenti esperimenti con i neural networks per ricostruire le immagini prodotte dalla corteccia visiva del cervello. Tra le più avanzate tecnologie di visualizzazione medica, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è sicuramente quella più diffusa e accettata. Ecco appunto che, come ti anticipavo, è già possibile, in tutti i più grandi ospedali, fotografare i nostri ‘paesaggi interiori.’ Una fMRI ci permette di valutare la nostra attività neuronale e di ‘fotografarla’ in tempo reale, riuscendo a dare forma e colore ad attività mentali impossibili da visualizzare ad occhio nudo. La sua utilità è comprovata, ma più delicata è la questione legata alla supposta oggettività delle immagini che produce. Queste vengono periodicamente descritte dalla stampa generalista e a livello colloquiale come ‘immagini oggettive,’ o ‘mappe mentali,’ o addirittura ‘istantanee del pensiero’. Invece, a prescindere dalla loro efficacia, esse non sono nulla di tutto questo. Come mostrano gli studi in etnografia della scienza di Anne Beaulieu, le immagini di una risonanza magnetica sono il risultato di complesse tecniche di imaging digitale e di elaborazione grafica secondo modelli statistici, dunque sono ben lontane dalla fotografia di una realtà data e oggettiva. In altre parole, a prescindere dalla complessità di una rappresentazione visiva, è bene ricordare che ogni forma di rappresentazione resta comunque una messa in forma più o meno arbitraria, una traduzione in termini visivi che nasconde sempre una mediazione, delle scelte umane, dei processi tecnici, e delle intenzionalità più o meno soggettive, ma mai neutrali.

 

Tu indaghi le questioni inerenti ai glitch, all’errore come elemento rilevatore, ai meccanismi estremamente complessi. Secondo la tua visione ed esperienza diretta, che cosa rende visibile o rivela l'errore? E in prospettiva metafotografica come si potrebbe applicare costruttivamente la conseguenza dell'errore per creare nuove forme estetiche?

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem (Foto n.86/100), 2012. Stampa a sublimazione su alluminio.


Mi affascina molto la possibilità di recuperare ciò che viene considerato un ‘errore,’ perché dietro questo termine si nasconde sempre qualcos’altro. Dal punto di vista tecno-scientifico l’errore è fondamentale, ma unicamente in una prospettiva di ottimizzazione di un qualche sistema. Secondo gli scritti del padre della cibernetica, Norbert Wiener, l’errore tecnologico deve essere isolato e ridotto a feedback. La ‘sterilizzazione dell’errore’ è una sorta di mito fondante del progresso tecno-scientifico ed è uno dei capisaldi del discorso cibernetico. Io credo che quando ci si trova di fronte ad un meccanismo estremamente complesso, uno dei modi per renderci conto del suo funzionamento è proprio quello di aspettare che un errore renda visibile qualcosa che era rimasto nascosto. L’ho sperimentato in DIGITAL PAREIDOLIA: A Personal Index of Facebook’s Erroneous Portraits (2012-2013) in relazione ad una delle prime tecnologie di riconoscimento facciale online, ed in THE GOOGLE TRILOGY (2012) ho esplorato questa idea in relazione al funzionamento delle mappe digitali di Google. Nel primo caso ho caricato sul mio profilo Facebook tutte le foto di cui ero in possesso ed ho scandagliato tutti i suggerimenti di riconoscimento facciale alla ricerca di quelli sbagliati. Ho costruito così un archivio di ritratti che funzionava anche come una sorta di indice degli errori del riconoscimento facciale usato da Facebook. In THE GOOGLE TRILOGY – 1. Report a Problem l’errore inaspettato è quello dei paesaggi ‘glitchati’ di Google Street View, i quali fungono da punto di rottura in un sistema che altrimenti scorrerebbe in maniera fluida, regolare, predefinita. Nell’ultima parte della trilogia, intitolata 3. The Driver and the Cameras, sono andato invece alla ricerca di ritratti degli autisti della Google Car sfuggiti alla censura degli algoritmi di Google. Qui l’errore smaschera una presenza umana nascosta dietro l’apparente autosufficienza del sistema informatico. In THE SICILIAN FAMILY (2012) il glitch nasce forzando le mie memorie personali all’interno del codice ASCII di vecchie foto di famiglia. Similmente, in MEMORYSCAPES (2012-2013) ho trovato il modo di integrare dati satellitari e memorie di Venezia raccolte a New York. Anche qui l’incastro forzato tra memorie inaccurate e dati apparentemente oggettivi risulta in una serie di imprevedibili incongruenze visive. Ogni qualvolta un sistema si arresta o viene alterato da qualcosa di erroneo ed inaspettato emerge immancabilmente una nuova forma estetica ed un nuovo orizzonte di senso.

 

Il tuo lavoro si colloca su vari confini, tra ricerca contemporanea e modalità che giungono dalla tradizione, tra costruzione di senso soggettiva e modalità d’azione più impersonali, come per esempio gli algoritmi. Cosa significa per te oltrepassare i confini e le soglie attraverso il medium fotografico?

 

Significa produrre un campo d’azione autonomo per la mia ricerca artistica. Considero ogni mia opera ciò che resta del processo artistico che si dispiega all’interno di questo spazio d’azione. Idealmente ogni opera è simultaneamente sia il risultato che il processo conoscitivo che la precede, che lascia tracce, segni, e che genera punti di partenza, punti di arrivo e punti di rottura, per altri inizi. Si tratta di un’organizzazione concettuale e materiale di tipo non gerarchico, all’interno della quale progetti più o meno completi tornano ad esser messi in discussione, in cui le idee stesse sono lasciate libere di vagare e di creare nuove connessioni e nuove opportunità di senso. L’importante è che in ogni mia opera gli strumenti usati siano quelli maggiormente in grado di dare forma, nel modo più preciso possibile, alla mia ricerca. La fotografia risponde spesso a questo bisogno, ed è per questo tra i medium che uso più spesso. 

 

Immaginiamo che l'essere umano sia molteplice, plurale, e che vi siano identità multiple. Seguendo l'intuizione di Deleuze (da individui stiamo diventando dividui), come leggi con la tua ricerca questi aspetti?   

Emilio Vavarella, The Digital Skin Series (Foto n.3/18), 2016. Stampa a sublimazione su alluminio.


Il passaggio ‘da individui a dividui’ descritto da Deleuze è molto suggestivo e certamente brillante. Non va però letto, secondo me, come il punto di demarcazione di una sorta di tecnologizzazione che ci ha radicalmente modificato in senso antropologico. Non è un passaggio, in altre parole, dall’essere umano tradizionale all’essere umano 2.0, come alcuni vorrebbero. E’ una questione di management e di flussi di informazione e degli apparati a questo connessi. Ma anche se cambiano gli apparati e le tecnologie, ‘essere umani’ significa sempre essere tecnologici. Non sono mai esistite né culture, né forme di vita umana, di tipo pre-tecnologico. Allo stesso tempo, ho l’impressione che il termine ‘umano’, specie quando espresso al singolare, si stia imponendo sempre più come ‘nome’ che non come ‘aggettivo.’ Nel senso che è come se demarcasse qualcosa di dato una volta per tutte. Ma ad ogni definizione di ‘essere umano’ si accompagna sempre immancabilmente una pletora di sotto-categorie, come è successo con ogni forma di schiavitù. Queste sotto-categorie di quasi-umani servono proprio ad ingoiare, ancora vivi, coloro che non si riconoscono o non vengono riconosciuti nella definizione proposta. La difficoltà della questione, specie nella sua accezione più propriamente ontologica, è evidente, e nella mia opera THE DIGITAL SKIN SERIES mi pongo proprio queste domande evitando di fornire una risposta univoca. Preferisco pensare, forse utopicamente, all’umano nel senso di un processo, un evento, un fenomeno, qualcosa che non può essere mai inquadrata una volta per tutte, come un’attività performativa in costante svolgimento. 

 

Emilio Vavarella, The Sicilian Family (Foto n.26/44), 2012-2013. Stampa per sublimazione su alluminio.


Sarà possibile fotografare qualcosa che non è ancora avvenuto, prima che accada? L'oltrefotografia sarà un'arte della preveggenza?

 

Se parliamo di fotografia nel senso analogico e più tradizionale del termine questo è ovviamente impossibile. Solo ciò che si trova fisicamente davanti all’obbiettivo, e solo se questo qualcosa manifesta un certo livello di opacità, può essere registrato fotograficamente. Se invece parliamo di fotografia in senso espanso, e andiamo ad includere tecnologie di imaging digitale, la risposta cambia. In questo caso posso dirti che un’arte della preveggenza esiste già, e che mobilita ogni anno, in tutto il pianeta, miliardi di dollari. Come nel già citato caso della risonanza magnetica funzionale, è possibile produrre immagini su base statistica, e a prescindere da qualsiasi contatto diretto con il mondo fisico circostante. Non si tratta di fotografie, ovviamente, ma di immagini foto-realistiche prodotte sulla base di calcoli di incidenza statistica legati ai data-set più svariati. Delle fotografie in cui data e metadata, ovvero rappresentazione e informazioni sulla rappresentazione, coincidono. Dal punto di vista tecnico ogni immagine è un flusso di dati e metadata: segni microscopici che corrispondono alla più basica forma di rappresentazione. Dal punto di vista estetico non siamo più automaticamente in grado di distinguere la differenza tra una fotografia, traslazione di una realtà fisica, ed un rendering foto-realistico, traslazione di un flusso di dati.

 

Emilio Vavarella, RE: Animation, 2017. Installazione composta da vari elementi. HD video, portfolio fotografico, libro, documenti, suono. Veduta dell’installazione presso Harvard Art Museums.


Ma quali sono le caratteristiche comuni delle immagini prodotte attraverso diversi processi di elaborazione dati?

 

Sono immagini instabili, variabili, virtuali, si muovono in molti modi, a volte in stormi, sono scomponibili, spesso anonime e a volte anche invisibili. Tra quelle visibili pensa ai tanti tipi di rendering che dal cinema ai cartelloni pubblicitari ai social media fino ai lavori scientifici, ci accompagnano. In ambito finanziario queste immagini fungono da cosiddette ‘self-fulfilling prophecies’ (profezie auto-avveranti). Celebre è l’esempio dei rendering di Songdo, la famosa smart-city in Corea del Sud in cui il confine tra marketing e architettura è stato completamente annientato. In molti hanno investito sul patrimonio immobiliare di quella che era una cartolina digitale. Ma senza andare così lontano pensiamo alla funzione, economica e politica, dei primi rendering che sono circolati insieme al progetto MO.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) di Venezia. Si mostrava come sarebbe apparso il territorio veneziano da lì a pochi anni, a causa dell’innalzamento delle acque. Ma il carattere di self-fulfilling prophecy è legato al fatto che queste immagini fossero a corredo del progetto per un sistema atto a prevenire quei cambiamenti. I rendering includevano già anche l’immagine foto-realistica di una tecnologia che non esisteva, ma che, anche in virtù della potenza di quelle immagini, da lì a poco sarebbe stata finanziata e in parte costruita. Una sorta di preveggenza fondata sulla capacità di accentrare risorse finanziare. La profezia, in quel caso, è proprio questa: mostrare quello che ancora non esiste in modo da finanziarne la costruzione.

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 3.The Driver and the Cameras, 2012. Stampa a sublimazione su alluminio. 11 elementi. Diametro di ciascuna foto: 20cm. Veduta dell’installazione presso The Photographers’ Gallery, Londra.


In quali altri modi la fotografia può essere in grado di ‘vedere il futuro’?

 

Ad esempio riuscendo a farci viaggiare nello spazio, come nel caso dello studio degli esoplaneti. Gli esoplaneti sono corpi celesti che si trovano a distanze tali che è otticamente impossibile catturare la loro immagine. Fotografarli con i mezzi di cui disponiamo sarebbe possibile solo se riuscissimo a spingerci oltre il Sistema Solare, cosa attualmente oltre la nostra portata. Eppure, come una veloce ricerca su Google dimostra, esiste un enorme archivio fotografico di esoplaneti. Per poter studiare questi corpi celesti gli esoplanetologi utilizzano un vasto campionario di tecniche di deduzione che permettono di ricostruire l’aspetto e le caratteristiche di questi pianeti senza averli fisicamente né visti né raggiunti. Un’arte della preveggenza che, come ha spiegato Lisa Messeri in un bello studio sul lavoro di gruppi di scienziati di un osservatorio Cileno, del MIT e della NASA, consiste nella produzione di modelli statistici che danno forma ai dati raccolti. Attraverso una lunga catena di tecniche di rappresentazione, il risultato è una descrizione scientifica del pianeta accompagnata da una serie di ipotesi e, spesso, da una immagine foto realistica in alta risoluzione. Queste immagini si basano su un concetto di visione statistica, e non ottica, in cui ad essere visti non sono delle ‘cose’ ma dei ‘campi di possibilità.’ La nostra capacità di vedere non è più solo una facoltà biologica, è ormai divenuta il passaggio finale di un calcolo probabilistico. Tornando alla tua domanda, attraverso questo processo di imaging siamo in grado di annullare i limiti dello spazio che ci separano da questi corpi celesti. In poche parole, prima ancora di riuscire a vederli ad occhio nudo, abbiamo già prodotto migliaia di immagini di pianeti che forse vedremo tra centinaia di anni, o forse mai. 

 

La fisica quantistica mette in discussione la progressione lineare e cronologica che dal passato va verso il futuro. In realtà la questione è più complessa. Come è applicabile la teoria del tempo inteso come un fazzoletto aggrovigliato, descritta dal filosofo francese Michel Serres, nel campo della ricerca metafotografica?

 

Emilio Vavarella, MEMORYSCAPES, 2013-2016. Installazione multimediale composta dai seguenti elementi: mappa olografica di Venezia, X:60 Y:120cm; installazione sonora immersiva a sette canali, ventiquattro studi su carta fotografica con modulo espositivo a muro, X:45 Y:60cm ciascuno, un libro d'artista. Misure variabili. Veduta dell’installazione presso Fondazione Fabbri.


Anche questa è una questione che mi ha fatto riflettere molto. Michel Serres si è soffermato più volte sui limiti di un’idea di svolgimento temporale in cui noi soggetti procediamo linearmente verso il futuro. Serres aveva notato, invece, quanto delle temporalità apparentemente distanti tra loro siano in realtà vicine, e quanto elementi distanti nel tempo possano influenzarsi a vicenda. La sua idea è molto simile al modello di co-determinazione spazio-concettuale espresso dalla fisica e filosofa Karen Barad. Serres usa un’immagine molto evocativa e fa l’esempio dell’astrofisica classica, in cui si scandaglia il cielo aspettando che dal futuro, ovvero da un presente ancora non vissuto, ci giungano informazioni su mondi già morti, che appartengono ad un passato altrui che per noi è ancora futuro. Se questo spazio aggrovigliato avesse un suo corrispettivo fotografico sarebbe una sorta di fotografia quantistica, capace di oltrepassare l’idea del catturare una realtà data (come nella fotografia analogica) o di produrre una realtà sintetica (come nella fotografia elettronica). Questo nuovo tipo di fotografia dovrebbe riuscire a catturare, o copiare, in qualche modo, un frammento dell’indeterminatezza spazio-temporale che precede la nostra percezione delle cose.

 

Quali sono le strutture che una macchina fotografica riproduce anche quando è gestita da un animale?  

 

Emilio Vavarella, Animal Cinema, 2017. Video in HD, 00:12:12, formato 16:9, colori, suono. Stillframe da film.


Strutture in movimento, di tensione, punti di incontro e di scontro, forme di vicinanza, di assenza, e di presenza dell’impensato. Nel mio film ‘Animal Cinema’ (2017), interamente girato da animali in completa autonomia, movimenti di corpi, chele, tentacoli, zanne, artigli e zampe si sostituiscono a qualsiasi premeditazione registica. Il risultato è un vortice di forme di consapevolezza e modi di essere in continuo dispiegarsi: una concatenazione di azioni e passioni che apre uno spiraglio sul complicato assemblaggio di uomini, animali e tecnologie di cui noi tutti siamo parte. 

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