Speciale

Di forze clandestine e impersonali

25 Settembre 2014

Che delle forze senza nome che animano un’insurrezione non esista un’immagine adeguata, non va messo in rapporto solo con il fatto che tali forze danno luogo a un divenire che come tale è irriducibile all’apparente staticità di ogni immagine. Che i rivoltosi non scrivano la storia della propria rivolta o che, se lo fanno, non sia che al prezzo di ritirarsi dalla rivolta stessa, non riguarda tanto l’incompatibilità tra scrittura e vita, ma testimonia di ciò che in ogni accadimento rimane irriducibile al rapporto con la memoria. Jesi lo doveva avvertire, scrivendo: «Del passato ciò che veramente importa è ciò che non si ricorda… l’unico vero passato vivo… vive nel cervello e nel sangue, ignorato dalla memoria» (Furio Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 69). 

 

A chi vi partecipa, la rivolta affida un tempo che è vertigine assoluta. Per questo Carl Einstein ha potuto definirla «un’accentuazione eccessiva» del tempo (Carl Einstein, Lo snob e altri saggi, Guida, Napoli 1985, p. 157) una rivolta non ha nulla a che fare con il “progresso”, che ha reso reazionarie tante rivoluzioni. È piuttosto un’intensificazione del tempo, un tempo reso alle sue intensità. Un’insurrezione non perde mai quel tanto di eccessivo che impronta i suoi gesti, se non quando si è esaurita.

 

Nessun criterio sembra vegliare sui suoi avvenimenti: dato che essa vive proprio dell’impossibilità di definire in anticipo le condizioni fondamentali che ne stabiliscono la data e che ne decretano l’avvenimento. Una rivolta la si può compiere unicamente lasciando i suoi partecipanti abbandonati ai gesti che compiono, senza memoria di se stessi. Che essa abbia, in un certo senso, il proprio compimento in se stessa vuol dire proprio questo: che non è un’oggettività da realizzare, ma una condizione che si diviene. È per questo motivo che un’insurrezione è sempre sul punto di rivoltarsi contro i suoi stessi capi. Ogni volta che appare una massa rivoltosa, non può non avere le sembianze di quella massa traditrice, infida e informe, davanti alla quale il 18 Brumaio avrà voluto farsi baluardo.

 

Che la rivolta fallisca, perché essa non riesce a impadronirsi delle istituzioni del potere; che duri solo un momento; che non faccia che condurre le esistenze dal controllo alla repressione, dalla carità alla crudeltà: per quanto tutto questo sia vero, non costituisce altro che il tentativo di offrire un’immagine di ciò che non si lascia rappresentare. Questa rappresentazione non potrà, per forza di cose, che essere costituita da stereotipi, a fronte di energie in atto che sono conoscibili solo a chi lascia vivere dentro di sé quel passato che non è ricordabile. Per fallimentari che siano, per quanto finiscano per riconoscersi appartenenti alla condizione di perdenti, è proprio a questa intensità che i rivoltosi prendono parte. Là le loro vite sono state portate a una passione assoluta per il presente, che ora li attraversa. Per quanto un cliché possa anche dichiararli sconfitti, un’esigenza non negoziabile né commerciabile, una qualità indocile, letteralmente intrattabile, si è impadronita delle loro vite e non ha smesso di avervi luogo.

 

Delle sopravvivenze della rivolta si potrà testimoniare (e Jesi aveva davanti agli occhi il Brecht di Tamburi nella notte) unicamente lasciando vivere dentro di sé quel passato che non è ricordabile. Nelle sue molte forme la commemorazione, che del ricordo è l’istituzione pubblica, finisce per confondere ricordo e sopravvivenza e, ancora di più, ricordo e divenire. Rispetto al gesto inaugurale della commemorazione, una rivolta non si pone come inizio di un mondo nuovo, come suo primo momento originario, natale ed epifania di un nuovo inizio. Come Jesi ha lucidamente riconosciuto, la rivolta si colloca nel punto preciso in cui si congiungono l’istante unico e irripetibile del suo evento, destinato a essere immediatamente passato, e l’eterno ritorno delle forze anonime e impersonali che danno luogo all’insurrezione.

 

 

La sua formula non è il c’era una volta della favola, in cui tutto è sospeso a condizioni mitiche e come tali immutabili, ma un’ora! che viene da lontano, che non ritorna mai come adesso e mai per la prima volta: ora, per la prima volta eppure già da sempre, ma anche ogni volta unica, come un’ultima volta. È tuttavia unicamente sotto il segno della discontinuità che questa intersezione può avere luogo. Essa rompe la pretesa continuità del tempo, correlato della città dei padroni e delle sue industrie, del Time is Money e della produzione. Questa discontinuità s’inscrive nel divenire che essa libera, nella disponibilità di altre forze e di altre energie che non sono assimilabili alla commemorazione del passato o al progetto dell’avvenire.

 

Rispetto al legame che ricordo e progetto solitamente istituiscono, legame che fonda appunto l’apparente continuità del tempo, chi ha partecipato alla rivolta e ne è stato attraversato sperimenta un altro rapporto con il presente. Qui è restituito alla prossimità con forze incommensurabili e segrete, che pongono l’esistenza in una prossimità con la vita come mai prima d’ora le era stato permesso di sperimentare. Restituiti a se stessi e alla realtà del loro presente, i rivoltosi sono condotti alla contingenza rischiosa e incerta, ma carnale e per nulla immaginaria, delle loro esistenze. Come per un singolare privilegio, è dato loro accedere alla dimensione temporale di un adesso che non è un attimo, ma dura un eterno istante. Per quanto la rivolta venga sconfitta, e in seguito Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht massacrati, questo non impedisce a Spartakus di estendersi attraverso tutto il tempo, qui e ora (John Berger, Abbi cara ogni cosa, Fusiorari-Internazionale, Roma 2007, p. 120).

[…]

 

Intraducibile nei termini di una presa del potere, la questione e, diremmo piuttosto, la passione di Spartakus muove dalla presenza e dall’efficacia di un elemento incalcolabile, di una pluralità irriducibile all’individualità dei singoli elementi che la compongono. La potenza di questa presenza non è sintetica, a differenza del sistema delle identità che invece provvede a ricondurre a sintesi flussi, complessità e pluralità. Da essa proviene una resistenza all’artificio che riporta tutta la realtà a una somma di identità, per renderla intelligibile e padroneggiabile. Così non c’è rivolta che non sia rivolta contro se stessi, contro le proprie identità, la propria umanità o disumanità.

 

Contraddire la necessità dell’ordine delle cose e dei “propri” bisogni, dimenticarsi, sostituirsi ad altri, intercedere…, tutto questo è già l’essere in atto di una rivolta. Essa traduce in evento ciò che in ognuno è indimenticabile e insieme irrevocabile: la “vita” stessa, il suo volto segreto. Tutto il resto non fa che consumarsi nell’inanità del gesto, divenuto puramente spettacolare, di difendersi da colpe solo altrui, dai fantasmi della città e della sua legge.

 

In realtà, come le pagine di Spartakus mostrano bene, la libertà sta in un rapporto inversamente proporzionale all’accumulo dei predicati del soggetto: coincide piuttosto con il movimento con cui ci si fa incontro all’impredicabilità che ogni vita custodisce, aprendo a ciò che in ciascuno si mantiene dissimile da sé. Questo spazio di dissomiglianza concorre a rendere inoperoso l’artificio identitario, il principio che permette la rappresentazione politica al prezzo di cancellare lo iato inscritto dentro ognuno, rispetto alla sua presunta identità. Dissolvere la soggettività, disarticolando il legame tra essa e l’enunciazione che ne fa una realtà di fatto, significa potersi di nuovo incontrare, poter incontrare di nuovo le vite, rientrare in contatto con i corpi significa uscire dall’apnea in cui ci tiene questo malanno delle soggettività.

 

 

Qui accade che sia possibile “disoccupare il luogo di enunciazione in cui si effettua il suo processo” (Wenceslao Galán, Il fuoco nella voce, le nubi, Roma 2008, p. 154) e accogliere la disfatta dell’individuo che siamo stati o che abbiamo creduto di essere.

Qui fa la sua comparsa una forza sconosciuta, per dire la quale Jesi riprende l’espressione di Heym, “i demoni della città”. L’immagine è interessante: non sono più semplicemente uomini, ma neppure gli animali che si imputa loro di essere diventati. Se la metafora cade sul demone, è perché solo la sua iperbole può tentare di dire quella creatura senza nome che ora si rivolta, la creatura che eccede ogni figura assegnabile.

 

Solo questa creatura è in grado di irrompere sulla scena in cui si assegnano i soggetti a dei luoghi bene definiti e si attribuiscono loro i nomi propri che hanno da portare e con cui riconoscersi. Solo essa può arrivare a sentirne l’urgenza, a captare quelle energie. Grido inaudito, il suo: attraversa le convenzioni linguistiche e sociali per chiamare in causa quello che rimane resto, natura indisponibile all’attribuzione di predicati a cui ciascuno inevitabilmente finisce per soggiacere.

 

[...]

 

Pensare a un’esperienza non semplicemente possibile, ma vincolante e intensa, della parola “libertà”, altrimenti così deformata dalla sua riduzione a facoltà di scelta tra le diverse possibilità del consumo, significa provare a risolvere il rapporto che lega ognuno alla sua apparente individualità soggettiva. Solo nei punti e nei momenti in cui questo scioglimento ha effettivamente luogo, un evento s’impossessa delle esistenze. Solo allora qualcosa le attraversa, come Spartakus attraversava le vite di coloro che lottavano per le strade di Berlino.

 

Qui non si tratta più di istituire un’alternativa politica al regime vigente. Ma se non è più questione di articolare questo rovesciamento in termini di presa di potere, tanto meno lo è nei termini in cui questo potere si è declinato in Occidente: come possesso di possibilità. Termini direttamente proporzionali di una relazione consolidata, potere e possibilità finiscono per costituire i cardini di un dispositivo culturale che istituisce una realtà esangue, negando l’evidenza di una sconfitta o di un insuccesso, così come la realtà dell’irreparabile che s’inscrive nelle vite di ognuno. Ripensiamo allora all’espressione delle Black Panthers: Necessità di incontrare questa confusione. Ascoltarla, prenderla alla lettera vuol dire farsi incontro al luogo in cui un’esistenza ha smesso di corrispondere all’identità e alla forma che le sono state attribuite. Lì qualcosa avrà iniziato a vivere, infine.

 

Tratto da Memoria dei senzanome, ombre corte, Verona 2013, p. 150 ss.

 

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