La scuola raccontata dagli sciacalli

12 Settembre 2013

La scuola si dice in molti modi. Tra questi alcuni paiono animati dall'intento di irriderla e si servono di una stolida vacuità per minarla alla base se non distruggerla. Di questo scrive Roberto Sandrucci in La scuola sotto il genere della commedia (Ets, 2012). In oggetto è il modo in cui un immaginario sociale tardo-moderno rappresenta il proprio rapporto con le istituzioni educative che la dovrebbero innervare di significato. Sotto il genere della commedia ci si prende gioco del sistema scolastico irrigidendolo in una serie di stereotipi ed enfatizzandone alcuni aspetti; si dà così luogo a una variante della narrazione neo-conservatrice della scuola come apocalisse dell'educazione, la quale finisce per delegittimare i suoi attori, studenti e docenti.

 

  

 

Nella descrizione macchiettistica della scuola che viene fatta propria dai media, ignoranza degli studenti e manìe dei professori divengono il tratto fondamentale di un discorso che, sostituendosi a una realtà molto più complessa e articolata, attacca la funzione educativa senza aver cura di segnalare problemi veri (che ci sono) ma limitandosi alla denigrazione. Nella dimensione pubblica tale racconto è solidale con il «clima generale di disimpegno» e con gli «atteggiamenti oggi diffusi di provocazione antidemocratica, elevata a stilema in molti programmi televisivi, nel cinema di cassetta, nella letteratura di consumo, in tanta pubblicistica, nei blog», al punto che il «desiderio di ridere della scuola può diventare colpevole e pericoloso». «Malevola goliardia» e «cameratismo demenziale» sono il prodotto e l'amplificazione del «senso comune che nega la dimensione della grandezza […] del progresso intellettuale» connesso ai processi educativi e «afferma di continuo quella della mediocrità»; l'autore individua qui episodi recenti di tratti di lungo periodo nella storia dei costumi nazionali, cinismo e qualunquismo, i quali hanno un certo peso nelle attitudini antipolitiche (= conservatrici) che animano il Paese.

 

 

Sandrucci propone una precisa fenomenologia stilistica e ne svela i presupposti ideologici: nei prodotti editoriali del genere Io speriamo che me la cavo (D'Orta) l’infanzia diviene «una coloritura ad uso e consumo del pubblico» moraleggiante e fatalistica; nella diaristica di lamentazione (Mastrocola) la scuola è «rappresentata sempre nei suoi aspetti disfunzionali e paradossali e nella sua forza nefasta di annullare le competenze del docente», un complotto contro il sogno di insegnare Dante agli eletti; il serial di fine ottanta I ragazzi della III C (di Claudio Risi) è il prototipo di una televisione «che spaccia la medietà e il disimpegno come valori distintivi della gioventù perbene, in una ambientazione scolastica svuotata di qualunque prospettiva etica e culturale». Film come Classe mista 3ª A di Moccia (con il suo linguaggio semplificato e il mondo di moto, marche, discoteca e palestra) raccontano «la scuola come fatto anacronistico»; libri di “denuncia” come Cinque in condotta di Mario Giordano insistono sulle “colpe” di maestri e professori.

 

 

Prodotti di largo consumo, sono riusciti «tentativi reazionari» di scrittura demagogica che indica «alla pubblica opinione il nemico contro cui avventarsi e da abbattere: la scuola pubblica con i suoi insegnanti di sinistra». Anche la raccolta di mostruosità studentesche da parte dei docenti come Perle di Gianmarco Perboni, per l'autore finisce per confermare «la rinuncia all’impegno professionale e umano che spetta alla classe docente, dall’interno di una istituzione decadente e davanti una massa studentesca descritta come senza intelligenza e senza volontà». Se la scuola è questo, la sconfitta della democrazia costituzionale appare definitiva e senza appello.

 

«Si ride di ciò di cui non si ha la capacità, o la volontà, di discutere seriamente. Esiste una scuola pubblica che opera in una società complessa e conflittuale con i compiti istruttivi e formativi assegnatele dalla Costituzione; una scuola pubblica con difficoltà anche gravi. C’è una parte non trascurabile di studenti e di insegnanti che non ottengono buoni risultati. Esiste un tesoro culturale – solo in considerazione del quale la società può continuare a svilupparsi mantenendo ferma la distinzione tra giustizia e ingiustizia, tra progresso e imbarbarimento – che sempre meno riesce a passare alle nuove generazioni. Di questa realtà – che sarebbe da intendere e su cui bisognerebbe intervenire a partire dall’analisi dei processi generali nella quale è immersa e di cui è anche manifestazione – è stato fatto un idolo con i caratteri del giocattolo; sviando l’attenzione della pubblica opinione dalle effettive e numerose cause dei problemi, e catalizzandola sulla caricatura dei sintomi.»

 

Sandrucci, docente di liceo e studioso di pedagogia, è animato da una passione civile per la scuola che non si può non riconoscere e a cui mi sento molto vicino. Mi limito ad aggiungere qualche considerazione attorno al libro e alle sue tesi.

 

 

Innanzitutto una chiosa: come mi fa notare Giampiero Frasca, collega e studioso di cinema, non è del tutto vero che in Italia non esistano film all'altezza di quelli francesi, come Essere o avere di Nicolas Philibert e La classe di Laurent Cantet. Esistono ma non si vedono nella misura in cui risentono dei problemi di distribuzione delle produzioni indipendenti e rimangono 'nascosti' nel circuito dei festival, dei documentari, del cine d'essai. Il mercato cinematografico e televisivo, più ancora di quello letterario, fa da filtro e sostiene le produzioni che creano ritratti facili e semplificati, alimentando i luoghi comuni e producendo la vulgata qualunquista.

 

 

Certo, la sostanza non cambia: il combinato disposto di mercato e produzione ideologica mette all'angolo le narrazioni diverse, per motivi che hanno a che fare con l'anti-intellettualismo, la semplificazione del gusto, la spettacolarizzazione all'ingrosso, in definitiva le ragioni di un pubblico che si vuole vacuo e senza tensioni morali. La pluralità di voci dissenzienti è sempre meno interessante per il grande mercato, come mostra la chiusura congiunta delle piccole librerie e delle piccole sale cinematografiche un po' ovunque.



Infine, una questione sostanziale. In un momento come questo un nuovo realismo della formazione è quello di cui ci sarebbe bisogno, mentre nell'immaginario sociale la scuola è sempre la scusa per parlare di altro, per raccontare e scenarizzare la società. Come dunque raccontare la scuola? Nella retorica positiva dell'educazione, che il ceto politico è il primo a usare in stile quirinalizio e monumentale, intravedo il rischio opposto di una sacralizzazione della docenza di taglio conservatore, nelle forme e nelle pratiche sociali che la sostengono. Come in ogni campo sociale, la scuola è soggetta a dinamiche, vittoriose o fallimentari rispetto ai suoi obiettivi e nei conflitti tra forze in azione, tanto più se le forme dell'educazione istituzionale non sono (più?) in linea con il contesto sociale che in essa dovrebbe radicarsi.

 

A scuola si vivono tutte le tonalità dello spettro emotivo che la narrazione ha espresso per raccontare il mondo, il tragico, il comico, l'epico, l'assurdo. Ogni docente usa implicitamente diverse strategie retoriche nella comunicazione didattica e la sua azione educativa ha sempre un tratto di performance.

 

Posta la cornice dell'istituzione generale e del contesto locale, ognuno ha il suo stile o più stili che si modalizzano a seconda dei casi. Penso che a scuola si possa ridere della scuola e l'ironia possa essere una risorsa contro retoriche che rischiano di alzare muri tra generazioni e ruoli, introducendo manicheismi e dicotomie infelici, come quella tra cultura alta e bassa che tende ad assecondare la divisione tra cultura di élite e analfabetismo di massa, più che non a evitarla. In dodici anni di insegnamento nella scuola superiore mi è capitato di ascoltare e leggere da parte dei miei studenti proposizioni molto sbagliate, per contenuti, linguaggio, argomentazione e, di conseguenza anche molto divertenti in quanto assurde e sconclusionate.

 

Dispongo di un esilarante archivio di dadaismo filosofico e surrealismo storico che, isolato dal contesto reale e presentato tutto di seguito, potrebbe essere letto come la distruzione di un mondo di significati. Sono testimonianze di un disastro, se rapportate a quello che pensiamo debba essere la scuola; una mappatura di alcune mutazioni cognitive e sociali, se concepiamo la scuola come un osservatorio antropologico avanzato. Sono restìo a farle circolare troppo, per timore che questa documentazione, la cui comicità involontaria è inversamente proporzionale al successo scolastico, possa portare ulteriore acqua al mulino dei tanti nemici della pubblica istruzione. (I quali dovrebbero sapere tra l'altro che nella privata va molto peggio, anche nella mia personale statistica, ma questa è un'altra storia.)

 

In attesa di capire cosa farne, le leggo ai colleghi e in classe, le condivido con compagni di lavoro e studenti, e con chiunque sia animato da un'intenzione inequivocabilmente progressista e iconoclasta. Oltre a essere anomalie cognitive di cui si rendono contro gli stessi studenti, ridendone, sono rivelatrici di mancanze che di per sé testimoniano contro il sistema di idee e immagini che, diffuso tra famiglie e istituti di socializzazione, ha distrutto quasi integralmente il valore positivo della cultura. Contro questo sistema di immagini nelle aule tristi e trascurate della Repubblica si combatte ogni giorno e con ottimi risultati, se si considerano le premesse. Continuo a pensare che la scuola sia in parte uno specchio della società, ma migliore di quello che rappresenta, con un bilancio decisamente a favore tra lo stato cognitivo e affettivo degli studenti in entrata e quello in uscita.

 

 

Gli errori assurdi e diffusi non sono prove dello stato di degrado generalizzato attuale: sono minoritari, esistono da quando esistono le scuole e sono la cartina di tornasole di un fisiologico attrito tra istituzione educativa e società, tra cultura ufficiale e cultura informale.
Ci dicono molte cose: ad esempio che sempre più la formazione in senso lato ha smesso di essere valore diffuso nelle famiglie per ampi strati della popolazione e che la stratificazione sociale sovradetermina scelte e risultati scolastici; ma anche che un patrimonio culturale, nonostante la (retorica della) scuola delle competenze europee, continua a essere coltivato in modo anacronistico e fine a se stesso, fino a perdere di leggibilità e di senso.

 

Molti errori di sintassi, grammatica, ortografia, logica, comprensione sono il correlato di deprivazioni culturali e difficoltà cognitive che molti studenti, di oggi come di ieri, si porteranno dietro nella vita e nel lavoro. Spesso sono ereditati da fasi precedenti della formazione. Sono errori che in altri contesti ci feriscono e ci commuovono, per la storia di deprivazione che simboleggiano. Ma è innegabile che alcuni errori dei nostri studenti della scuola di massa dei 'nativi digitali' siano talmente endemici da essere frutto di un'irriducibile crisi della lettoscrittura tradizionale, una differente percezione destinata a modificarsi con l'avanzamento delle tecnologie digitali (non sono più 'nuove') e della loro inarrestabile pervasività.
A proposito: quanti adulti, anche molto scolarizzati, scrivono ancora a mano testi più lunghi di una lista della spesa?

 

Ridere stupidamente della scuola oltre a essere inaccettabile è un tratto nevrotico che serve anche a mascherare un'ipocrisia insopportabile: molti adulti non sanno più molto di quello che hanno studiato, non credono nella cultura ma sono pronti a inchiodare alla mediocrità quegli adolescenti che non rispondano in modo corretto agli items di un test nozionistico o che stravolgano i resti di un mondo che esiste solo più a scuola.

 

C'è una cosa che nessuno dice mai: si incontrano oggi studenti più competenti, bravi e svegli di quanto fossimo noi alla loro età, nelle diverse materie, nelle lingue e nelle capacità di orientarsi, nonostante i ritmi incalzanti dell'insegnamento e di una società molto più aggressiva e instupidente.

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