Con Yves Klein nel regno dell’Impossibile
Una solenne ironia
Pochi artisti più di Yves Klein (1928-1962), scomparso a soli 34 anni, possono vantare un’influenza così profonda sulle pratiche artistiche degli anni sessanta e settanta. “La monocromia, l’antipittura, lo spostamento dell’attenzione sulla scultura e sull’installazione, la smaterializzazione dell’arte, il rifiuto dell’illusione, l’inclusione degli objets trouvés e dei nuovi media, la Body Art, la Land Art, l’Arte Concettuale e la Performance”, così ricapitola Thomas McEvilley in una documentata biografia ora tradotta in italiano (Yves il provocatore. Yves Klein e l’arte del Ventesimo secolo, tr. Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi 2015).
Eppure pochi artisti più di Yves Klein furono così incompresi. Non da Joan Mirò, che il 13 maggio 1962, quando morì l’artista americano Franz Kline, spedì un telegramma di condoglianze a Rotraut, moglie di Yves. Penso invece all’accoglienza tiepida negli Stati Uniti, che Yves visitò una sola volta nel 1961, dove era percepito come un Dalì dandy ma meno geniale, il cui estro catalano lasciava spazio alla sofisticheria parigina. Generava imbarazzo questo giovane artista, nominato cavaliere dell’Ordine di san Sebastiano con tanto di cappello piumato, mantello nero e un monocromo blu nella mano destra nel 1956 – lo stesso anno in cui Sartre abbandonava il Partito comunista francese e si schierava a favore dell’indipendenza dell’Algeria –, autoproclamatosi Yves le Monochrome nel 1957, anno in cui Sartre rifletteva sul rapporto tra marxismo ed esistenzialismo in Questions de méthode. Difficile immaginare che nella stessa città ci fosse spazio per discussioni impegnate nei café di Saint-Germain e per le sparate di Klein a La Coupole di Montparnasse.
Negli Stati Uniti Klein era considerato un millantatore, tutt’al più un fautore di un neodadaismo misticheggiante e fumoso. Il più clemente fu Donald Judd, colpito dalla sua pittura monocroma, un “erotic blue object” (1963). Il più inviperito fu Rauschenberg che, assieme al compagno Jasper Johns, minacciò di abbandonare la galleria di Leo Castelli se, dopo la mostra dell’aprile 1961, Klein avesse ricevuto ulteriori incoraggiamenti. Peccato perché il 12 aprile 1961, proprio mentre Klein era in America, Jurij Gagarin riuscì il primo volo dell’uomo nello spazio e affermò che la Terra vista da lassù era blu. Per Klein era una conferma quasi profetica, sebbene in seguito puntualizzerà: “Non è coi i razzi, gli Sputnik o i missili che l’uomo moderno realizzerà la conquista dello spazio”, che si compierà invece “per impregnazione della sensibilità dell’uomo”.
Monochrome bleu sans titre, (IKB 190), 1959
Simili reazioni ostili si produssero in patria. Fa eccezione solo il teutonico Gruppo Zero, che lo aveva preso in simpatia, e qualche italiano arcistufo dell’Informale. Questa situazione non sorprende: non appena ci si avvicina all’arte di Klein – alle opere quanto al personaggio – si è costretti a gestire una serie di impasse: “da una parte il monocromo metafisico e l’approccio solenne al vuoto; dall’altra le performance che parodiavano la solennità, l’ironia decostruttiva, le buffonate da clown”, riassume McEvilley che insiste sulla polarità Malevich/Duchamp, dai quali Klein tenne un’equa distanza se non un oculato, strategico disinteresse.
La biografia di McEvilley è uno strumento essenziale per comprendere il fenomeno Klein, in cui opera e vita sono indistinguibili. Ostinarsi a inscrivere i suoi celebri monocromi blu esclusivamente all’interno di una storia dell’astrazione modernista vuol dire mancare l’essenziale, per quanto articolati siano questi tentativi, come la mostra Colour after Klein. Re-thinking colour in modern and contemporary art al Barbican di Londra (2005). Gli oltre mille oggetti che Klein ha prodotto nel corso di una carriera durata solo sette anni – dal 1955 al 1962 – e, non dimentichiamolo, senza saper disegnare, rischiano di disseminarsi sotto lo sguardo di quanti sorvolano i dettagli della sua esistenza. Perché la sua carriera artistica non cominciò con le prime esposizioni ma molto prima, in uno spazio-tempo – in uno spazio senza tempo – tinto di mitologia.
Yves Klein
Rosacroce e Neodada, sliding doors
È a Nizza, a fine 1947, quando immagina di firmare il cielo facendone una sua opera, che Klein acquista la Cosmogonia dei Rosacroce, uno dei rarissimi libri che divorò e che lo influenzarono. Per decifrarlo contattò Louis Cadeaux, “un settantenne che con discrezione svolgeva l’attività di astrologo, occultista e proselitista per l’Associazione rosacrociana”, che gli impartì lezioni di oroscopo e meditazione per sei anni. Nel frattempo Klein studiava con assiduità le dispense inviate dall’associazione rosacrociana di Oceanside (California) due volte a settimana.
Questa radice metafisica, in cui il codice rosacrociano di Max Heindel – una sorta di alchimia psicologica – s’ibrida col Santo Graal e i fumetti di Tintin o Mandrake, fu il vero apprendistato di Klein, che non terminò mai la scuola per motivi disciplinari. Altro che Nuovo realismo, altro che “40 gradi sopra dada”! Klein impregnò ogni sua cellula e neurone di una cosmologia che vaticinava il ritorno imminente dell’uomo a una condizione edenica, a un’umanità che, abolita la legge di gravità e la materia densa, raggiungerà lo Spazio grazie alla levitazione; a un’umanità che abbandonerà la Forma per la Vita assoluta, l’energia cosmica, il colore (soprattutto il blu, “fuori da ogni dimensione”) dissolto in uno spazio a densità zero. “Noi diventeremo così uomini aerei, conosceremo la forza d’attrazione verso l’alto, verso lo spazio, verso il nulla e il tutto a un tempo; dominata così la forza d’attrazione terrestre, noi leviteremo letteralmente in una totale libertà fisica e spirituale”.
La fede nel visibile verrà scalzata dalla sensibilità immateriale, dal colore senza composizione, senza contorni, senza quelle linee che a Klein evocavano le sbarre di una cella in cui lo sguardo dello spettatore restava impigliato. “Il vero pittore del futuro sarà un poeta muto che non scriverà niente ma racconterà, senza articolare e in silenzio, un immenso quadro senza limiti”. La sua pittura si diffonderà nell’atmosfera e non solo sulla parete. Sarà come uno specchio senza la polvere depositatasi in secoli di rappresentazione figurativa.
A tal fine, il corpo e la mente dovevano sottomettersi a una ferrea disciplina. Malgrado non riuscì mai a tenere sotto controllo i suoi infantili scatti d’ira – “Era l’uomo più agitato che avessi mai conosciuto”, “Non aveva nessuna delle qualità che ti aspetteresti da uno che faceva monocromi: tranquillità, capacità di contemplazione, equilibrio” (Tinguely) –, Klein diventò zen. Imparò a restare tre ore immobile nella posizione del loto, si sottopose a lunghi digiuni, si astenne da carne, sesso, alcool e fumo, praticò esercizi tantrici di visualizzazione, gli stessi mantenuti per quarantott’ore nella galleria di Iris Clert prima dell’inaugurazione della mostra “Le Vide”. Senza rosacrocianesimo “Le Vide” è nient’altro che una galleria vuota. “In quegli anni, il mistico controllò la sua vita con istruzioni minuziose e dettagliate su cosa, quanto e con quale frequenza mangiare, come respirare e persino come sognare”. Un corpo adamantino che Klein forgiò in seguito attraverso lo judo. Prima di fondare scuole di judo a Parigi e Madrid, si recò al prestigioso Istituto Kodokan di Tokyo (1952), dove ottenne in modo rocambolesco il quarto dan di cintura nera (che non gli venne riconosciuto dalla Federazione francese!).
Potremmo continuare a lungo con gli aneddoti, con le lettere spassose alla zietta cui ricorreva per ottenere finanziamenti e così via. Tuttavia un punto resta a mio avviso decisivo: lo slittamento di piani che rende intelligibile il fenomeno Klein nel suo complesso e costituisce difatti il vero miracolo compiuto dall’artista. Mi riferisco ovvero al momento in cui il codice rosacrociano e lo judo s’incuneano sulla piattaforma delle avanguardie del XX secolo dando vita alla sua opera.
Sin dal viaggio in Inghilterra del 1950 Klein realizzava piccoli monocromi a pastello su cartone; con la compagna Bernadette ne realizzerà altri con dei rulli su carta pergamena, esposti nella cucina della madre. Finché, nel 1955, dipingendo tra una lezione e l’altra nella sua scuola di judo in boulevard de Clichy – un ex atelier di Léger – intuì che la monocromia è, come appuntò, “una sorta di alchimia dei giorni nostri praticata dai pittori”. Il mondo dell’arte parigino, c’era da aspettarselo, non accolse di buon grado i riferimenti al rosacrocianesimo – “e fu preso in giro. Non ripeté l’errore una seconda volta. Da allora, la fenomenologia fece da schermo al rosacrocianesimo per il mondo esterno e il Neodadaismo fornì una via di fuga da spiegazioni e richieste di coerenza”. Klein si riparò al cospetto di artisti quali Giotto, Rembrandt, Delacroix, van Gogh. Non solo: cominciò a mascherare le sue idee più esoteriche e strampalate dietro un linguaggio ispirato a Gaston Bachelard (negli Archivi Klein sono conservate sei copie de La poétique de l’espace). Che l’incontro tra i due fu deludente quanto quello di Freud con Breton (Bachelard prese Klein per uno con le rotelle fuori posto), non fa che rendere ancora più ingegnoso il colpo dell’artista.
“E un errore fondamentale (ancorché comune) ignorare il tono mistico e miracolistico degli scritti di Yves leggendovi un atteggiamento vacuo o un’ostentazione dada”, secondo McEvilley. Una lettura che permette tra l’altro di evitare la trappola del sublime, una tradizione culturale con cui Klein non era familiare. Il giorno in cui Klein fu preso in giro costituì insomma la chiave di volta della sua carriera. Da allora adottò una precisa strategia per trasformare l’arcaico nell’ultramoderno e diventare finalmente l’artista che conosciamo. Rosacroce e Neodada divennero nelle sue mani sliding doors.
Yves Klein, Volo nel vuoto, 1960
L’era dell’antiarte
“[...] il motivo dell’assoluta prevalenza della materia sull’antimateria nell’universo osservato non è ancora chiaro” (Vocabolario Treccani)
La centralità delle vicende biografiche nella costruzione del mito personale e artistico di Klein ha delle ricadute sulla considerazione della sua opera. Klein non creò opere con una gestazione extra-artistica (judo-rosacrociana verrebbe da dire), ma gesti rituali che nel tempo si caricarono di artisticità. Non usò il suo nome o un semplice pseudonimo, ma titoli altisonanti (“Yves le Monochrome”) e costumi per diverse occasioni pubbliche. Non creò sculture ma spugne o Architecture de l’air; non rappresentazioni ma impronte; non dipinti ma atmosfere volumetriche; non oggetti ma creazioni dell’invisibile; non colori ma formule (l’IKB o International Klein Blue). Non le cose ma la presenza invisibile del vuoto, astratto ma non per questo irreale al punto che può essere esposto e impregnarsi di sensibilità. Klein non smerciò opere ma aria o blocchi di vuoto. I suoi dipinti si staccano dalla parete per permeare lo spazio circostante, per farsi essi stessi ambienti, allo stesso modo in cui Klein sfidò la gravità saltando nel vuoto. Il vuoto non è un medium atmosferico neutro da attraversare ma una sostanza in cui entrare e restare. Klein non saltò nel vuoto ma dentro il vuoto, ci saltò dentro per restarci.
Klein non aspirò a un superamento dell’Informale (il chiodo fisso della nostra critica d’arte durante gli anni sessanta) ma al superamento dell’arte tout court attraverso la proclamazione di una nuova Era, perché tenne come orizzonte non l’angusta storia dell’arte bensì il Cosmo, la Grande Opera: “Al di là della mia modesta persona, è la brusca estrapolazione di quattro millenni di civiltà che viene a trovare il suo definitivo coronamento”, scrisse dopo aver esposto il vuoto. “Per Yves la megalomania era uno stato naturale, non qualcosa di acquisito”; “Aveva uno straordinario potere di vivere un’esistenza immaginaria” (Tinguely). Klein non articolò una teoria e una pratica artistiche ma un vertiginoso progetto trascendentale, in cui l’ironia che a volte traspare dietro il tono profetico non deve distrarci dalla sua smisurata ambizione (“La sua immensa ingenuità e la sua esasperata ambizione mi facevano paura perché lo rendevano fragile: il minimo insuccesso lo distruggeva”, Iris Clert).
Come si legge nella preghiera che accompagna il monocromo blu donato al santuario di Santa Rita da Cascia, in cui si recò quattro volte in pellegrinaggio: “Che l’Impossibile arrivi presto e fondi il suo regno”. Con la sua opera Klein tentò precisamente di fondare il regno dell’Impossibile, o meglio di accelerarne la venuta compiendo la fine della storia. Santa Rita correggeva la Cosmogonia di Heindel, secondo cui bisognava aspettare diversi secoli, inaccettabile per un impaziente come Klein (“Era troppo impaziente. In lui c’era una tale angoscia, una tale aspirazione al paradiso che non poteva aspettare”, Tinguely).
Klein criticò il ruolo dell’artista in opere sempre più purificate dalla sua personalità e dal suo tocco. Ma lo fece con gesti così originali, così insufflati di valore estetico, che diventarono più leggibili di una firma apposta sulla superficie di un dipinto. Fu impossibile per Klein divaricare ulteriormente lo spazio tra l’opera e il suo artefice. Bisognava superare l’orizzonte dell’arte e ritornare alla vita reale, ma questo compito spettava agli artisti, anzi al solo Klein, “messaggero dell’era dell’antiarte”. Tra i rompicapi che attraversano la sua opera, questo resta senza dubbio il più prezioso per l’arte del XX secolo.
una versione di questo articolo è uscita in forma ridotta sul manifesto