150° anniversario della nascita / Novità di Proust. Una Recherche senza madeleine

10 Luglio 2021

A volte mi chiedo: ma gli studiosi di Proust, nella loro caccia agli inediti, sono incredibilmente favoriti dalla Fortuna, oppure sono guidati da una sovrumana, rabdomantica abilità che li orienta verso giacimenti sconosciuti di lettere, agende, abbozzi, quaderni, taccuini, racconti cestinati e manoscritti d’ogni sorta? Probabilmente c’è del vero in entrambe le ipotesi. Ma la Fortuna un po’ c’entra, o comunque il Caso, quel Caso che nella Ricerca è tra i protagonisti; quello che fa inzuppare a Marcel la madeleine nella tazza di tè e mette così in moto tutta l’immensa macchina narrativa del romanzo.

Vediamo qualche esempio, tra i più recenti, di questi doni inattesi della Fortuna. Il 6 aprile del 2005 muore il principe Ranieri III di Monaco, il fascinoso e sorridente vedovo di Grace Kelly. Che cosa c’è nella cartellina custodita gelosamente nel suo comodino? Qualche cimelio hitchcockiano? Le più belle foto di scena di Delitto perfetto? Macché: quattro lettere e un telegramma di Marcel Proust, risalenti all’estate del 1920. Non indirizzate al principe, naturalmente, che allora non era ancora nato, ma a suo padre, il conte Pierre de Polignac (1895-1964), divenuto proprio nel 1920 duca di Valentinois in seguito al matrimonio con l’erede al trono del principato, Charlotte de Monaco. Pubblicate in Francia nel 2016 presso Gallimard, a cura di Jean-Marc Quaranta, e poi tradotte in italiano nel 2018 per Archinto da Francesco Bergamasco, quelle quattro lettere, che forse il principe Ranieri si rileggeva nei momenti di insonnia, hanno molto interessato gli studiosi di Proust.

 

Sono la testimonianza di un pressante corteggiamento. Affascinato dal giovane Pierre – che a Montecarlo fonderà anni dopo un premio letterario e si distinguerà come mecenate di artisti e scrittori –, Proust gli si propone come mentore: lo aiuterà a sviluppare il dono naturale per la scrittura che ha intravisto nelle sue lettere. Sulle pagine “attese e necessarie” di Pierre, lo scrittore afferma di voler vegliare come una chioccia “artificiale e provvisoria”; sarà, insomma, l’incubatrice di un talento letterario di cui l’amico non è ancora pienamente consapevole. L’avrà trovata inquietante, Pierre, quella metafora della chioccia artificiale? lo avrà spaventato, il pensiero del suo talento covato come un pulcino prematuro dall’autore della Recherche? Non ci sono state conservate le sue risposte, ma è certo che si è sottratto imbarazzato, in quell’estate del 1920, alle premure un po’ invasive di Proust. 

 

E con un’omissione ha posto fine, forse inavvertitamente, alla loro amicizia. Nella seconda delle famose quattro lettere, a fine luglio, Proust lo informava della pubblicazione di un’edizione di lusso di All’ombra delle fanciulle in fiore: cinquanta esemplari, in ognuno dei quali sarebbero state inserite delle bozze corrette a mano dall’autore. Avrebbe voluto, il conte, figurare tra i sottoscrittori? Il romanziere si affrettava a spiegargli che la sua richiesta non era di carattere economico: era sua intenzione rimborsargli i trecento franchi del prezzo del volume, ma desiderava vivamente il prestigioso incoraggiamento della sua adesione. Pierre – per dimenticanza o per qualche altra ragione che non sappiamo – a questo invito di Proust non rispose mai. E certamente in seguito lo rimpianse amaramente. Il vendicativo Marcel introdusse infatti nel suo romanzo un certo principe di Nassau che, avendo sposato l’erede al trono del principato del Lussemburgo, adotta capricciosi comportamenti da piccolo re. Impossibile non riconoscere in questa figura, che il narratore finge blandamente di voler difendere dalle maldicenze della buona società, una caricatura del povero Polignac. 

Gli studiosi di Proust già conoscevano da varie fonti indirette la storia di questa amicizia finita male e dei suoi echi nella Ricerca. Nonostante questo, hanno studiato con molta attenzione il testo ritrovato delle quattro lettere. Perché la strategia avvolgente con cui Proust si propone come mentore a Pierre de Polignac non può non ricordare l’analoga strategia seduttiva dispiegata dal barone di Charlus nei confronti del narratore della Ricerca. Quanto ha messo di sé stesso Proust nel suo personaggio più caricaturale, dando prova di una rara e ammirevole autoironia? se lo sono chiesti Jean-Marc Quaranta e gli altri commentatori di queste pagine riemerse dal nulla. È una delle domande sulle quali vale la pena di interrogarsi, in quel territorio di confine tra opera e biografia che nel mondo proustiano è più scivoloso che altrove, ma anche più fertile.

 

Tornate così singolarmente alla luce, le lettere a Pierre de Polignac hanno suscitato una certa eccitazione tra i proustiani. Nello stesso anno in cui comparivano nelle librerie italiane, però, si preparava per gli appassionati della Ricerca uno choc di ben altra portata. Perché il due gennaio del 2018 moriva, a novantadue anni, l’editore Bernard de Fallois, che aveva scoperto e curato negli anni cinquanta due opere inedite di Proust, Jean Santeuil e Contro Sainte-Beuve. I manoscritti da lui conservati, all’insaputa di tutti, nel suo archivio privato erano destinati a rivoluzionare la storia della genesi della Recherche. Al confronto, le quattro lettere spuntate inopinatamente dal comodino del principe Ranieri erano come la pioggerellina di marzo che batte sui tegoli vecchi del tetto di fronte al ciclone che ha spazzato via mezza New Orleans. Prima di addentrarci nella caverna dei tesori di Fallois, però, facciamo un passo indietro per comprenderne l’origine. 

 

Nel 1949 Bernard de Fallois era un insegnante di liceo di ventitré anni. Appassionato di Proust, aveva trovato nella biografia che proprio allora gli aveva dedicato André Maurois la descrizione dei quaderni e dei taccuini conservati dagli eredi del romanziere. Si era fatto coraggio, aveva contattato Maurois e ottenuto di venir presentato a Suzy Mante Proust, la figlia del fratello medico di Marcel Proust, Robert, scomparso nel 1935. Sedotta dalla competenza e dall’entusiasmo di quel giovane studioso, Suzy Mante Proust lo aveva incaricato di riordinare i manoscritti dello zio in suo possesso. Se i quaderni con gli abbozzi della Ricerca erano relativamente in ordine, perché erano stati utilizzati per mettere a punto l’edizione postuma degli ultimi tre volumi del romanzo, una gran quantità di altri fogli di pugno di Proust, mescolati a carte d’ogni genere, riempiva un baule conservato da Madame Mante Proust in soffitta. In quel baule, che nessuno aveva mai esplorato, Bernard de Fallois trovò diversi racconti che Proust aveva rinunciato a includere in I Piaceri e i Giorni. Poi, scoperta ben più importante, pagine e pagine nelle quali ricorreva un personaggio che si chiamava Jean Santeuil. Con pazienza e perizia, da quelle pagine frammentarie il giovane ricercatore ricostruì il primo, incompiuto romanzo di Proust, intrapreso nel 1895 e abbandonato verso il 1900. Ne curò la pubblicazione presso Gallimard, nel 1952. La risonanza fu immensa, con immediate traduzioni in tutte le principali lingue europee; in italiano, il traduttore fu Franco Fortini. Ma non mancarono, soprattutto negli ambienti accademici, i dubbi e le riserve sull’operato del curatore. Per rendere leggibile il testo di Proust, mai rivisto dall’autore, Fallois era intervenuto, senza segnalarlo, con tagli e correzioni; questa sua disinvoltura, rilevata nel 1952 soltanto da qualche recensore, in seguito, come vedremo, gli sarebbe costata cara. 

 

Da un baule relegato in soffitta Fallois aveva fatto saltar fuori un romanzo in tre volumi, Jean Santeuil; dai quaderni risalenti al 1908-1909, e da alcuni fogli sparsi dello stesso periodo, ricavò un’opera tanto significativa quanto inclassificabile: il Contro Sainte-Beuve. Il critico Charles Augustin Sainte-Beuve era morto due anni prima della nascita di Marcel Proust, ma la sua opera, nel 1908, era ancora considerata un modello di metodo, perché fondata su un’attenta cernita delle più attendibili fonti relative alla biografia degli scrittori studiati. Proust alla fine del 1908 aveva deciso di attaccare in un saggio proprio quel metodo, che trascurava l’apporto delle impressioni profonde, inconsce, all’opera letteraria. Dopo qualche pagina, però, aveva rinunciato alla forma saggistica tradizionale, alternando la riflessione critica a un immaginario dialogo con la madre – scomparsa nel 1905 – e poi a una serie di frammenti autobiografici e narrativi dai quali, nella primavera del 1909, sarebbero nate le prime pagine della Ricerca. Ricostruire Jean Santeuil era stata un’impresa delicata; forse il giovane Fallois, fiero di quel primo successo, non comprese a pieno quanto temerario e avventato poteva apparire il suo tentativo di ricostruzione di un’opera fantasmatica, provvisoria, dai confini incerti come il Contro Sainte-Beuve. 

 

Al momento della pubblicazione, nel 1954, l’accoglienza del pubblico fu entusiastica, come lo era stata per Jean Santeuil. Proust, che nei primi anni del dopoguerra era parso, rispetto a Céline e a Sartre, così fuori moda, così ottocentesco con le sue duchesse e i suoi salotti, tornò prepotentemente al centro della scena. George Painter stava raccogliendo i documenti per la monumentale biografia, il cui primo volume sarebbe uscito nel 1959; Philip Kolb, lo studioso americano che avrebbe dedicato la vita alla corrispondenza dell’autore della Ricerca, preparava le prime raccolte di lettere datate e annotate con la massima cura. Nella seconda metà del Novecento, l’opera di Proust sarebbe stata studiata nelle università di tutto il mondo, sarebbe stata inclusa (in diverse, successive versioni) nella Pléiade, tradotta e ritradotta in molte lingue, commentata da critici e filosofi. Oggi non è facile capire come e perché da quel postumo trionfo sia rimasto tagliato fuori, a partire dai primi anni sessanta, lo scopritore di Jean Santeuil e di Contro Sainte-Beuve, Bernard de Fallois. Ma è proprio quello che allora è successo; e senza far luce su questa vicenda è impossibile capire perché l’archivio privato di Fallois racchiudesse alla sua morte, nel 2018, alcuni manoscritti fondamentali per la ricostruzione della genesi della Ricerca, manoscritti di cui dagli anni sessanta tutti i proustiani deploravano l’inspiegabile scomparsa.

 

La pubblicazione di Contro Sainte-Beuve non è l’unico evento proustiano di rilievo nel 1954. Esce quell’anno nella Bibliothèque de la Pléiade una nuova edizione della Recherche curata da Pierre Clarac (1894-1986) e da André Ferré (1899-1967). È un’edizione che segna un gran progresso rispetto a quelle precedenti: sono stati corretti centinaia di errori di stampa e Clarac e Ferré hanno messo a punto il testo dei volumi postumi consultando manoscritti e dattiloscritti. Dei due curatori, uno soltanto si è già occupato di Proust: André Ferré, che, prima di dedicarsi alla storia dell’educazione, ha sostenuto nel 1939 una thèse sulla Géographie de Marcel Proust. Clarac è invece uno studioso di La Fontaine, di cui ha già curato un volume di opere per la Pléiade nel 1943. Né Ferré né Clarac hanno con l’evoluzione del pensiero di Proust e con il suo metodo di lavoro la dimestichezza profonda che ha Bernard de Fallois. Ma rispettano puntigliosamente le regole della filologia: segnalano ogni intervento sui testi, indicano esplicitamente le fonti manoscritte alle quali fanno ricorso. Il loro metodo di lavoro fa risaltare, per contrasto, l’eccessiva disinvoltura di quel dilettante indisciplinato e geniale che è Bernard de Fallois. Quando da Gallimard decidono che nel 1971 festeggeranno i cento anni dalla nascita di Proust con due nuovi volumi della Pléiade, uno contenente Jean Santeuil, l’altro il Contro Sainte-Beuve, fanno una scelta che sicuramente colpisce Fallois al cuore: non utilizzeranno le edizioni curate da lui, ma affideranno una nuova messa a punto dei testi a Pierre Clarac. Fallois, nel frattempo, ha lasciato l’insegnamento, nel 1962, e rinunciato a portare a termine la thèse de doctorat su Proust di cui aveva cominciato la stesura. Farà una splendida carriera nel mondo dell’editoria, sino a fondare nel 1987 una propria casa editrice di grande successo; di Proust non si occuperà più se non marginalmente, per promuovere la pubblicazione della Ricerca nei Livres de poche e tenere qualche conferenza. 

 

Il 1962 è dunque per lui un anno cruciale, un anno di svolta. Ma è anche l’anno di una sorta di cacciata dal paradiso terrestre. Perché proprio nel 1962 Madame Proust Mante vende alla Bibliothèque Nationale de France tutti i manoscritti dello zio in suo possesso. Quei quaderni, quei taccuini, quei fogli che Bernard de Fallois ha decifrato, datato e ordinato per primo, non sono più a sua disposizione; il territorio che ha perlustrato per anni in assoluta libertà non gli appartiene più in esclusiva. In quelle carte c’è una parte della sua vita, della sua giovinezza: può accettare di separarsene totalmente? Lo accetta soltanto in apparenza. All’insaputa di tutti, nel suo archivio privato, si crea con alcuni dei più preziosi manoscritti della Ricerca una sorta di museo segreto, la sua Fortezza della Solitudine. Racchiude, quell’incomparabile Wunderkammer, la scena del bacio della buona notte, in una stesura anteriore perfino a Jean Santeuil; la prima, sconosciuta versione dell’episodio della madeleine; e finalmente quello che è stato definito “il graal dei proustiani”, il romanzo che Proust aveva abbozzato nella primavera-estate del 1908 su 75 fogli di grande formato e abbandonato alla fine dell’anno per dedicarsi al progetto del Contro Sainte-Beuve. Descritto da Bernard de Fallois nella prefazione del Contro Sainte-Beuve, e poi dato per perso, quel romanzo del 1908 è stato per decenni “l’oscuro oggetto del desiderio” di tutti gli studiosi di Proust: il mitico anello mancante tra Jean Santeuil e i primi abbozzi della Ricerca. 

 

Alla morte di Fallois, i suoi eredi contattano la Bibliothèque Nationale: l’editore li ha incaricati di consegnare ai bibliotecari i manoscritti proustiani rimasti da decenni nel suo fondo personale. A pubblicarli, nel 2021, presso Gallimard sarà una studiosa eccellente che è anche la pronipote di Robert Proust, Nathalie Mauriac Dyer. Il volume si intitola Les soixante-quinze feuillets et autres manuscrits inédits. Sono ormai accessibili a tutti, quei leggendari settantacinque fogli che Bernard de Fallois aveva sequestrato gelosamente, un po’ come il narratore della Recherche sequestra la troppo amata Albertine. Hanno delle cose interessanti da rivelare al comune lettore di Proust? Certamente sì, anche se non susciteranno in lui la tempesta emotiva che hanno provocato negli specialisti, ansiosi di leggerli da quel lontano 1954.

 

Come Jean Santeuil, e a differenza della Ricerca, i Settantacinque fogli presentano una successione di capitoli staccati, di episodi non collegati tra loro. Ma, differenza capitale, Jean Santeuil, sorta di classico romanzo di formazione, era scritto in terza persona; una scelta convenzionale, che mal si adattava a quel che Proust voleva raccontare, così profondamente radicato nella sua esperienza più soggettiva e più intima. Nei Settantacinque fogli invece il racconto è in prima persona. Tornano contenuti che già comparivano in Jean Santeuil: il bacio della buonanotte spasmodicamente desiderato e a volte negato, le passeggiate in campagna tra i biancospini, i paesaggi dimenticati che la memoria fa riemergere inaspettatamente. La voce narrante ha però un nuovo tono, che era comparso per la prima volta nel saggio del 1905 Sulla lettura. È quello che Giacomo Debenedetti battezzerà “il tono Proust”: il tono complice di chi confida al lettore i propri ricordi, di chi lo attira nel proprio mondo segreto. Nei Settantacinque fogli questo tono, questo accento particolare è già quello della Ricerca; però è al servizio di una narrazione ancora fortemente autobiografica. Nel romanzo introdurrà invece il lettore in un mondo immaginario, dalle coordinate spazio-temporali incerte, irreali e vertiginose. 

La spia più evidente del carattere autobiografico dei Settantacinque fogli è nei nomi propri del primo episodio, intitolato dallo stesso Proust Una serata in campagna. La nonna materna del narratore si chiama Adèle, come la nonna materna di Proust. Il fratellino capriccioso e prepotente, che sparirà del tutto dalla Ricerca, si chiama Robert e la mamma, di cui il romanzo tacerà il nome, si chiama Jeanne, come Jeanne Weil Proust. Nella scena del bacio della buonanotte negato, che è al centro di questo primo episodio, è inserita una rievocazione del volto materno sul letto di morte, che dà alla pagina un’impronta molto diversa da quella corrispondente di La strada di Swann: 

 

Udii salire i miei genitori; mia madre entrò con mio padre nella loro camera. La domestica l’aveva aspettata per aiutarla a slacciare il busto e a sciogliere i capelli; poi mia madre uscì per andare nel suo spogliatoio. La aspettavo nell’ombra come un ladro. Aveva una vestaglia di tela bianca ed erano sciolti, quei suoi bei capelli neri nei quali c’era tutta la dolcezza e tutta la forza del suo carattere; quei capelli che sopravvissero a lungo, come una vegetazione inconsapevole delle rovine che teneramente protegge, alla rovina della sua felicità e della sua bellezza e che incorniciavano allora un viso di una purezza adorabile, raggiante di un’intelligenza, di una dolcezza gioiosa che il dolore non è mai riuscito a spegnere. Un viso che andava incontro alla vita con una speranza, un’innocente allegria che scomparvero presto e che ho rivisto soltanto sul suo letto funebre, quando tutti i dolori che la vita le aveva arrecati furono cancellati dal dito dell’angelo della morte, quando il suo viso che per la prima volta dopo tanti anni non esprimeva più dolore né ansia, ritornò alla sua forma prima come un ritratto sovraccarico d’impasti di colore che il pittore cancella con un dito. 

 

 Nella Ricerca non sarà la madre del protagonista, ma la nonna a ritrovare sul letto di morte i lineamenti sereni della giovinezza. È già molto presente, la nonna, nei Settantacinque fogli, e già manifesta quel fiero amore per la natura un po’ selvaggia che in La strada di Swann la contrapporrà ai parenti più convenzionali, amanti delle aiuole simmetriche e ben pettinate. Inoltre non condivide affatto l’ingenuo snobismo dello zio del narratore che è tutto fiero di avere a cena un aristocratico, il visconte di Bretteville. Bretteville è l’invitato che nei Settantacinque fogli è all’origine del “dramma della buonanotte”.

 

 

Suona alla porta proprio nel momento in cui Marcel sta supplicando la mamma di non mandarlo a letto prima di cena, riducendo il rito del bacio serale a una sbrigativa formalità. Alla fine della cena il visconte, che se ne è andato, è oggetto di un’animata discussione tra lo zio di Marcel e la nonna. Lo zio si compiace di aver avuto un commensale così prestigioso; la nonna invece ha trovato Bretteville piuttosto volgare. “Ma quando ti dico che a Bretteville-l’Orgueilleuse tutto gli appartiene – le grida lo zio furibondo – che ha nella sua proprietà due villaggi, un lago, una chiesa, una caserma. Una caserma!”

La vecchia signora resta inflessibile: “Tutto questo non ha nulla a che vedere con la distinzione – gli risponde. – Un uomo che dice: “Non è mica il Perù!” non è distinto. Auguste (il nostro cameriere) è cento volte più distinto di lui!”

 

Il visconte di Bretteville scompare dall’opera di Proust senza lasciar traccia. Al suo posto, sarà Swann a suonare il campanello che segna la condanna di Marcel a salire nella sua camera mentre gli adulti si siedono a cena. Non scompare, però, l’ostinata indipendenza di giudizio della nonna: nella Ricerca troverà la nipotina del sarto Jupien “più distinta” e “più nobile” del duca di Guermantes.

Abbiamo detto che il romanzo del 1908 è molto più vicino all’autobiografia di quanto lo sarà la Ricerca. Tuttavia Proust è ben consapevole che si tratta non di un racconto autobiografico, ma di un romanzo. Nell’estate del 1908 annota nel taccuino che gli serve da “diario di bordo”: 

 

Nella seconda parte del romanzo la ragazza sarà rovinata, mantenuta senza approfittare di lei […] per impotenza (impuissance) d’essere amato. 

 

Albertine è ancora lontana. Qui probabilmente Proust pensa a una delle adolescenti che la prefigurano nelle pagine dei Settantacinque fogli intitolate Jeunes filles. Sono ragazze molto simili a quelle della piccola banda ben nota ai lettori di All’ombra delle fanciulle in fiore. “Simili a uccelli marini che camminano sulla sabbia”, percorrono la spiaggia “ridenti, altere”, parlano ad alta voce e fingono di non vedere gli altri bagnanti. Come accadrà in All’ombra delle fanciulle in fiore, già nei Settantacinque fogli Marcel si strugge dal desiderio di conoscerle e dopo aver architettato mille strategie per raggiungere il suo scopo, alla fine ci riesce quasi per caso. 

Nel romanzo del 1908 occupa uno spazio non piccolo anche il tema del fascino dell’aristocrazia. I Guermantes non esistono ancora; quello che diverrà il loro castello si chiama Villebon, dal nome di un vero castello dei dintorni di Illiers. Ma già il narratore dei Settantacinque fogli è sensibile alla poesia dei nomi nobili come lo sarà il narratore della Ricerca. Già gli aristocratici – non ancora conosciuti da vicino – gli sembrano fatti di una sostanza speciale e circondati da un alone di magia:

Ogni nome nobile racchiude nello spazio colorato delle sue sillabe un castello dove, dopo un ripido sentiero, è dolce arrivare in una lieta sera d’inverno. E tutt’intorno, la poesia del suo stagno, e quella della chiesa che ripete anch’essa, molte e molte volte, quel nome con il suo stemma sulle sue pietre tombali, sul piedestallo delle statue policrome degli antenati, sul rosone delle vetrate araldiche. 

 

Insomma, nei Settantacinque fogli c’è quasi tutta la Ricerca, miniaturizzata: lo snobismo, il fascino dell’aristocrazia, i ricordi d’infanzia, le fanciulle in fiore, perfino Venezia. Eppure, dopo l’estate del 1908, Proust quei 75 fogli di grande formato li mette da parte. E su altri fogli e altri quaderni comincia a confutare il metodo di Sainte-Beuve. La colpa di Sainte-Beuve è per lui quella di sottovalutare l’apporto all’opera d’arte delle impressioni provenienti dagli strati profondi della nostra mente e non controllate dalla ragione né dalla volontà. A quelle impressioni si erano invece ispirati in vario modo Chateaubriand, Baudelaire e Gérard de Nerval; è alla loro arte che Proust intende ricollegarsi. Tra la fine del 1908 e gli inizi del 1909 intuisce il modo in cui può attuare questo collegamento: farà emergere tutto quel che vuole raccontare da un ricordo del narratore che sorgerà all’improvviso dal passato; dalla sua memoria involontaria, sollecitata da una sensazione casuale. E all’arte ispirata dalla memoria involontaria, dall’inconscio, affiderà la salvezza di tutte le esperienze umane altrimenti destinate all’oblio. 

Ecco, possiamo dire che i Settantacinque fogli sono una Ricerca ancora senza madeleine. E come scrive nella sua introduzione il grande biografo di Proust, Jean-Yves Tadié, “il romanzo vero e proprio non esisterà realmente finché Proust non avrà fatto della memoria involontaria non soltanto l’evento psicologico fondamentale, ma il principio organizzatore del racconto”. Ci sono però molte pagine commoventi, in questa Ricerca embrionale e frammentaria. Ed è una bella notizia per i lettori italiani che La Nave di Teseo ne abbia messo in cantiere la traduzione, affidandola a due specialiste d’alta classe come Daria Galateria e Anna Isabella Squarzina.

 

Rimanda ancora alla primavera del 1908 un’altra scoperta recente, che non ha certo la portata dei Settantacinque fogli, ma getta una luce interessante sul rapporto di Proust con le origini ebraiche della sua famiglia materna e in particolare con suo nonno Nathé Weil. Si tratta della brutta copia di una lettera di condoglianze, scritta da Proust l’8 o il 9 maggio, al suo antico compagno di scuola Daniel Halévy, per la morte di suo padre, lo scrittore Ludovic Halévy. Insieme a Meilhac, Ludovic Halévy era stato il librettista, oltre che della Carmen, dell’operetta di Offenbach La Belle Hélène, adorata da Nathé Weil, scomparso nel 1896. Per questo, nella lettera di condoglianze all’amico – di cui ci manca la pagina iniziale – Proust rievocava abbastanza lungamente la figura del suo nonno materno:

 

[Mio nonno era] un po’ reazionario per i gusti di Mamma, che era il cuore più grande e più tenero del mondo. Di quel tipo di persone, lei diceva: “non sono certo favorevoli a quel che fa scendere gli affitti e le azioni della compagnia ferroviaria”. Ma dopo la morte del nonno, Mamma, con una sorta di feticismo, aveva accettato, imitato, trasformato in oggetto di culto quello che in lui aveva trovato un po’ esagerato quando era in vita; e mio nonno, tenero e buono come lei, lui che ho visto passare delle settimane senza dormire perché aveva scorto per strada un uomo che picchiava un bambino, lui che ormai malatissimo, quasi infermo, faceva fermare il suo fiacre a due strade da casa sua perché la vista di un lusso che lei non poteva condividere non risultasse sgradevole alla sua portinaia, mio nonno credeva che il bene del popolo non lo si potesse ottenere che con un regime autoritario (e d’altronde relativamente anticlericale, non nel senso di oggi, nel senso di Luigi Filippo che mandava i suoi figli al liceo pubblico). Mio nonno, mio caro Daniel, è andato a tutte le rappresentazioni della Belle Hélène. La nonna diceva sempre, parlando di suo marito, che la Belle Hélène era stato il grande avvenimento della sua vita, «ben più del nostro matrimonio», aggiungeva. I ricordi d’operetta e d’opera di mio nonno erano il mio perpetuo terrore, perché erano per lui una specie di linguaggio figurato – molto meno impenetrabile di quel che credeva – di cui si serviva per dirci sulle persone, davanti a loro, delle cose che non dovevano capire. Quando era convinto che qualcuno di cui gli avevamo parlato, nonostante il nome trasformato, fosse israelita, appena quel signore era entrato, se il suo viso o qualche informazione abilmente domandata non gli lasciavano dubbi, canticchiava ininterrottamente: «Israele spezza le tue catene, o popolo alzati, vieni a sfogare il tuo odio, il Signore è in me ecc.» (Samson et Dalila) oppure «O Dio dei nostri padri, scendi tra noi, nascondi i nostri misteri all’occhio dei malvagi» (La Juive) o altre arie che ho dimenticato. Un certo seccatore era sempre salutato dalla cavatina del Barbiere ecc. Sono cose che non smetterei mai di raccontare e che purtroppo hanno il loro fascino soltanto per me. Non c’è più nessuno, nemmeno io che non mi posso alzare, che vada a visitare, lungo la rue du Repos, nel piccolo cimitero ebraico, la tomba sulla quale mio nonno, secondo un rito che non comprendeva già più, andava a mettere ogni anno un sasso sulla tomba dei suoi genitori.

 

Non è una rivelazione di poco conto: il modello di quel nonno blandamente antisemita, che in La strada di Swann canticchia arie allusive quando sospetta le origini ebraiche di un amico del nipote, è l’ebreo Nathé Weil, che aveva la stessa abitudine, ma allo scopo di smascherare gli ebrei assimilati desiderosi di dissimulare la loro juiveté. Si conosceva sinora di questa lettera soltanto la commovente frase finale, citata negli anni venti dallo scrittore sionista André Spire (1868-1966), amico di Daniel Halévy, e poi ripresa da altri studiosi e biografi di Proust. La lettera intera, o meglio, la sua brutta copia, è stata ritrovata da Nathalie Mauriac Dyer e pubblicata da Antoine Compagnon nel numero 50 (2020) del “Bulletin d’Informations proustiennes” dell’ITEM (Institut des textes et manuscrits modernes). L’articolo nel quale Compagnon la inquadra e la commenta fornisce molte preziose informazioni tanto su quel libero pensatore che fu Nathé Weil, quanto sull’amicizia piuttosto tempestosa tra Marcel Proust e Daniel Halévy. D’altronde quell’articolo rappresenta per Compagnon il punto di arrivo di una ricerca molto più ampia, sull’atteggiamento di Proust nei confronti dell’ebraismo, sui suoi rapporti con gli amici ebrei e sulla ricezione della sua opera negli ambienti ebraici e nella stampa sionista. I risultati di questa ricerca appassionante sono accessibili, in dieci puntate riccamente illustrate e documentate, sul sito Internet del Collège de France.

 

Ho evocato, in queste pagine, soltanto alcune delle più recenti scoperte di inediti proustiani. Ricorderò ancora brevemente (avendone già parlato in questa sede il 12 gennaio del 2020) le novelle della raccolta Il corrispondente misterioso, ora pubblicate da Garzanti, a cura di Luc Fraisse e nella bella traduzione di Margherita Botto. All’origine del loro ritrovamento c’è, ancora una volta, l’archivio di Bernard de Fallois. Fallois aveva messo da parte un certo numero di testi che Proust nel 1896 aveva rinunciato a includere nel suo primo libro, I Piaceri e i Giorni; Luc Fraisse li ha pubblicati e lungamente commentati, sottolineando il fatto che hanno tutti in comune la tematica omosessuale. Non si tratta, d’altronde, precisa Fraisse, di novelle scabrose, che invitino al voyeurismo, ma di testi che approfondiscono, in varie direzioni, la questione psicologica e morale dell’omosessualità. Espongono, nota ancora Fraisse, una psicologia dolorosa; non ci introducono per effrazione nell’intimità di Proust, ma ci aiutano a comprendere un’esperienza umana. 

 

Nel 2022 sarà passato un secolo dalla morte di Marcel Proust. Nell’arco di questo secolo, i suoi lettori non avranno mai cessato di accogliere con entusiasmo gli inediti venuti alla luce dalle fonti più diverse: le lettere a svariati corrispondenti, un romanzo epistolare giovanile scritto in collaborazione, una lunga novella dimenticata come L’Indifferente, qualche articolo dei tempi del liceo … Le scoperte più recenti, i Settantacinque fogli e Il corrispondente misterioso, hanno destato, se è possibile, un interesse ancora più vivo, cui i media hanno fatto da cassa di risonanza. Vedo, in questa situazione di euforia, un rischio soltanto: che quel che c’è di sensazionale, di emozionante, di clamoroso nella scoperta degli inediti faccia dimenticare l’altra faccia della critica, vale a dire il lavoro paziente di chi dell’opera indaga le strutture profonde, le costanti stilistiche e quello che Adorno definiva “il contenuto di verità”. 

 

 Farò qualche esempio. Recentemente Bompiani ha ripubblicato un classico della critica novecentesca: Menzogna romantica e verità romanzesca, di René Girard, datato 1961. Quanti tra i lettori della Ricerca sanno che quest’opera di Girard comprende un capitolo, I mondi di Proust, che offre una delle letture più illuminanti del romanzo proustiano? René Girard studia la presenza nel romanzo moderno del “desiderio mediato”: il desiderio che nasce per imitazione, che spinge don Chisciotte a cercar di emulare gli eroi dei poemi cavallereschi e Emma Bovary a modellarsi sulle eroine dei romanzi. Dove è presente, quel desiderio, nell’opera di Proust? Ma dappertutto. In forme ora innocue, ora devastanti, attraversa tutti i “mondi di Proust”: si manifesta nello snobismo ingenuo di Marcel e in quello aggressivo di madame Verdurin, nelle dinamiche della gelosia, dell’amore, del sadismo e del masochismo. È un elemento unificante non meno forte della poesia della memoria o dell’attenzione di Proust alle differenze sociali. 

E quanti, tra i lettori di Proust, conoscono le pagine che Carlo Ginzburg ha dedicato alla teoria proustiana della metafora in Occhiacci di legno (Feltrinelli, 1998)? In quelle pagine Carlo Ginzburg dimostra che le metafore del pittore Elstir – che dipinge le onde del mare come vette innevate e le falaises rocciose come dissolte in una liquida bruma – hanno una forte parentela con la pratica dello straniamento, teorizzata dal formalista russo Viktor Šklovskij.

 

Ricolloca così il pensiero di Proust sulla metafora, spesso considerato un’attardata propaggine del simbolismo fin de siècle, nel suo vero contesto, che è quello delle poetiche novecentesche. Farò un ultimo esempio, chiamando in causa il grande teorico della letteratura Francesco Orlando (1934-2010), con cui Carlo Ginzburg discusse negli anni ottanta proprio le pagine che ho appena citate. Orlando consacrò a Proust memorabili corsi universitari e, tra il 1970 e il 2010, oltre a un capitolo del suo libro sugli Oggetti desueti, alcuni saggi, oggi di difficile reperimento, ma dei quali è fortunatamente annunciata la prossima ripubblicazione presso la casa editrice Nottetempo. Non aveva mai ritrovato un manoscritto inedito di Proust, Francesco Orlando; credo anzi che non ne avesse mai preso in mano uno in tutta la sua vita. Eppure ognuno dei suoi contributi proustiani è di una novità sconvolgente; ci mette di fronte a qualche aspetto del testo che non avevamo preso in conto e con il quale ci costringe a confrontarci. Uno dei suoi ultimi saggi, del 2008, che avrebbe dovuto gettare le basi di un grande libro su Proust, era sull’opposizione, così centrale nella Ricerca, tra “sapere” e “vedere”. Tutta la vita del narratore, a più riprese voyeur suo malgrado, è disseminata di esperienze in cui “vedere” e “sapere” si contraddicono: illusioni sensoriali, miraggi, conflitti tra una prima impressione ingannevole e la sua successiva dissoluzione. Al centro di questo mondo di metamorfosi e fantasmagorie, l’eroe della Ricerca è diviso tra la fascinazione dell’ignoto, che però è per lui anche una perenne fonte di angoscia, e la quiete protettiva dell’abitudine, che invece lo rinchiude in un guscio di indifferenza. L’unica via d’uscita, alla fine, sarà l’esperienza dell’arte, capace di conciliare sicurezza e fascinazione; sola esperienza del Nuovo, ma anche di quel che di più arcaico vive in noi, dal momento che non è altro che “il volto, tanto certo quanto eternamente promettente, di quel che ci è noto da sempre”.

 

Che cosa ho voluto suggerire, citando le letture proustiane di René Girard, Carlo Ginzburg e Francesco Orlando? Che il ritrovamento di manoscritti inediti e pagine sconosciute è soltanto una delle molte vie attraverso le quali si rinnova e si arricchisce la nostra esperienza di lettori. Dalle lettere di Proust a Pierre de Polignac impariamo certo qualche cosa sull’origine autobiografica del personaggio di Charlus, e i Settantacinque fogli – dove la mamma del narratore si chiama Jeanne e la nonna Adèle – ci offrono una chiave di lettura per un passo famoso del Tempo ritrovato: “un libro è un grande cimitero dove sulla maggior parte delle tombe i nomi, cancellati, non si possono più leggere”. Ma nulla può sostituire la nostra frequentazione diretta dell’opera nella sua integralità, né l’ascolto attento delle voci dei maestri che negli anni l’hanno esplorata nelle più varie direzioni. Perché, come scriveva Proust, pensando al suo rapporto con Ruskin, uno dei suoi maestri nel campo dell’estetica e della storia dell’arte: 

 

"non c’è modo migliore di prendere coscienza di quel che noi stessi sentiamo, che cercar di ricreare dentro di noi quel che ha sentito un maestro". 

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