Mantenere le distanze / Noli me tangere

5 Giugno 2020

Non troppo vicino, non troppo lontano: in questa distanza media si trova il luogo dell’individuo tardo-moderno, che non desidera stare (troppo) solo, ma non vuole nemmeno sentirsi in pericolo nella propria intangibilità ed essere toccato. 

Sfiorarsi senza toccarsi è il nostro destino, così come fanno le punte degli indici delle mani di Dio Padre e della sua creatura nell’affresco di Michelangelo della creazione di Adamo (Eva no, non c’era ancora, e comunque una volta creata se ne sarebbe stata là sotto a intrecciare le dita non con il Padreterno ma con la serpenta avvolta intorno all’albero). Se c’è una parte del corpo che oggi rappresenta la situazione precaria dell’uomo tra benessere e disagio, tra piacere e dolore, sono le punte delle dita, la parte del corpo che prevalentemente usiamo. Toccarsi è percepito come una minaccia e allo stesso tempo come un bisogno; il contatto di pelle è importantissimo, e in ogni caso indispensabile per lo sviluppo dei bambini e per il benessere degli anziani, eppure sembriamo illuderci di credere che sfiorare le lucide superfici degli schermi di smartphone e tablet o essere accuditi da robot con un sistema di riscaldamento che intiepidisca le sue superfici sia sufficiente a sostituire il calore umano. 

 

Mantenere le distanze

 

Oggi poi che ci viene prescritto di tenere le distanze come se fossimo camion in autostrada, oggi che non dobbiamo stringere la mano a nessuno ma salutarci volgarmente con un colpo di gomiti o di caviglie, che non possiamo scambiarci un abbraccio se non ipocritamente nei messaggi, oggi che non possiamo baciare né genitori né bambini, che ne è del gesto arcaico del toccare e del toccarsi, del gesto aptico protettivo o aggressivo, in ogni caso altamente comunicativo? Soltanto due anni fa, nel 2018, la giornalista culturale del prestigioso settimanale tedesco “Die Zeit”, Elisabeth von Thadden, ha pubblicato un saggio sul tatto, non tradotto in lingua italiana, che era già premonitore, quasi profetico: La società che non si tocca (Die berührungslose Gesellschaft, C.H. Beck, München 2018). Il libro mostra l’ambivalenza tra la promessa moderna dell’integrità fisica e la ricerca tardocapistalista del corpo perfetto. Nota che il fatto che ferite e contatti fisici indesiderati siano oggi sanzionati è una grossa conquista: dove però un tempo regnava la vicinanza forzata, ora nel mondo digitale una solitudine scelta minaccia di sostituire il contatto diretto. È un dilemma acuto tra la perdita di contatto e di prossimità e la conquista di spazio. E che dire della stridente contraddizione tra la cura e la distanza, uno degli infiniti e trascurati effetti collaterali delle misure anti-epidemia? Dell’assistenza umana – uso umano nel senso di mite, equo, civile, generoso, anche affettuoso – che dovrebbe ricevere chi è debole perché malato, chi è fragile perché molto piccolo o molto anziano, e il quale, invece del calore del tocco umano si trova di fronte una barriera di plastica: guanti, tute, scafandri, maschere. Quando non anche a una barriera di paura, che tutta quella plastica non riesce a coprire. 

 

Skin hunger

 

Eppure la pelle ha fame, di pelle ha fame – skin hunger, dice il termine tecnico – non di plastica. Non possiamo fiorire, né noi esseri umani né gli altri primati, senza contatto di pelle, senza essere «toccati» dagli altri. I bambini piccoli ne hanno un bisogno assoluto, altrimenti finiscono per morire, come nei tristi orfanotrofi rumeni dove i bambini ricevevano cibo e abiti ma mai carezze. Il contatto fisico è indispensabile alla vita di tutti, allo sviluppo dei neonati, alla memoria dei malati di Alzheimer, al rafforzamento del sistema immunitario, alla guarigione, scrive von Thadden e cita gli studi dell’aptologo tedesco Martin Grünewald, attivo a Lipsia dopo aver ricercato a lungo al MIT. Per Grünewald il bisogno umano principale non è il sesso ma la vicinanza fisica, che dice che non si è soli, che si esiste. Un abbraccio vero tiene insieme, le persone e le cose. Bambini particolarmente inquieti si calmano se abbracciati, o rivestiti da tutine tipo quelle da sci ma imbottite di sabbia, che avvolgono in un abbraccio duraturo, prezioso per i corpi dei bambini autistici dispersi nello spazio. Per non parlare del messaggio emanato dalla stretta di mano, una calda stretta fatta con tutta la superficie, dita e palmo, nelle nostre culture segnale di fiducia (apro la mano) e di controllo (la stringo con energia).

 

Toccare la filosofia

 

Del resto è lo stesso Kant – andiamo a toccare la filosofia – che nella Antropologia (1798) riconobbe nella mano, nelle dita, nella punta delle dita, gli organi senza i quali il concetto (Begriff) non sarebbe afferrabile (bregreifbar), ovvero pensabile. Giacché le cose ci devono «toccare», ci devono interessare, attrarre, affinché rivolgiamo loro il pensiero. Derrida, nel suo monumentale Toccare Jean-Luc Nancy (2000) ribadisce che se è stata la natura a fornire la mano all’uomo, e soltanto all’uomo, è perché ha creato gli esseri umani in maniera tale da permettere loro di creare se stessi, in particolare attraverso il sapere oggettivo, la scienza. Derrida dedica, anzi intitola l’opera col nome del filosofo del tatto per eccellenza, Jean-Luc Nancy. É stato quest’ultimo – filosofo trapiantato di cuore e ben conscio della presenza di un estraneo nell’intimità del suo corpo – a sviluppare il tema dell’unione del pensiero con la realtà in virtù del fatto che il pensiero tocca. Ogni volta che pensa qualcosa il pensiero la tocca, la sfiora. La pelle è aperta al contatto con gli altri, li sfiora lanciando la relazione. 

 

 

Eppure il destino del non toccare che oggi ci tocca era già intrinseco a modalità sviluppatesi nella prima modernità: il toccarsi vi era stato ridotto dall’ampliarsi delle dimensioni delle case, delle chiese, delle strade, dei mezzi di trasporto. Lo notava Simmel agli inizi del Novecento, affermando che l’aumento dello spazio intorno all’individuo, soprattutto nelle grandi città, corrisponde alla crescita della sua libertà, allo sviluppo della sua individualità personale e all’aumento delle sue capacità mentali (Le metropoli e la vita dello spirito, 1903). Abbiamo dunque interpretato la distanza e il non toccarsi come una forma di libertà e adesso la distanza imposta ci si ritorce conto. Perché se non ci tocchiamo finiamo di esistere. Il nostro esistere è il toccare, ripete Nancy in Essere singolare plurale (1996). «Noi ci tocchiamo in quanto esistiamo. Il nostro toccare è ciò che ci rende noi».

Si ritiene che il senso principe della filosofia sia la vista, il vedere (theorein) della teoria. Eppure non fu proprio Aristotele, il filosofo scienziato, a definire il tatto il principe dei sensi, di tutti i sensi il più filosofico perché prioritario ai pragmata, le cose, gli oggetti? (de anima 422-423). Attraverso il tatto la psyché individua le cose come identiche a sé e toccando il particolare identifica l’universale.

 

Toccare, imparare, amare

 

E che dire del ruolo del tatto nell’apprendimento/insegnamento, e nell’amore, che emerge dal volume di Armand D’Angour, Socrate innamorato (Utet 2020)? Qui tocchiamo con le mani della mente un Socrate in love ben più fisico e toccante del filosofo votato alla pura speculazione. Questo è un Socrate giovanile dedito alla danza e alla lotta, impegnato nel canto e nella musica con la lira che vibra al tocco delle sue dita; ma anche al taglio e alla scultura della pietra nelle cave del padre Sofronisco, non scalpellino ma imprenditore, nella fantasiosa quanto intrigante interpretazione di D’Angour. Un Socrate di buona famiglia, non di umili origini – in fondo sua madre era una ghennaia, una donna «nobile» – che ama la saggezza ma anche le persone fisiche, e che prima di intraprendere la morigerata strada dello studio intellettuale e della individuazione del concetto (Begriff) tende – nella ricostruzione della giovinezza del filosofo da parte di D’Angour – a comportamenti sessuali esuberanti. Un Socrate, inoltre, addestrato al combattimento e che sapeva agire sul campo di battaglia da oplita ateniese, addestrato, determinato e capace.

 

Il toccare negato ai bambini

 

La fisicità di Socrate, il suo «tocco», si eserciteranno nella vita matura del filosofo, nella forma dell’istruzione dei giovani, tema che ho già trattato in un articolo su Doppiozero. Giovani, bambini, adolescenti, giovani adulti privati oggi del tocco degli insegnanti sulla loro mente dalle misure antiepidemia che tutto toccano, almeno in Italia, meno che la scuola, abbandonata completamente o lasciata all’improvvisazione. Provvedimenti che toccano le attività produttive (panem) e ricreative quali messe, partite di calcio e spettacoli vari (circenses) ma non sfiorano neanche la formazione, l’educazione e l’istruzione, e contribuiscono all’affermarsi, quello sì, di una società cui non tocca poco o nulla oltre alla sanità e all’economia. 

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