A cinquant’anni dalla morte / Jimi Hendrix, la matrice

18 Settembre 2020

Per alcuni ha cambiato la faccia del rock. Per altri è il maestro assoluto della chitarra elettrica, colui che per primo ha saputo indagarne le prerogative e sondarne le potenzialità, facendole combaciare con le inquietudini di una generazione. Jimi Hendrix – o più semplicemente Jimi, come lo riconosce e venera il popolo del rock – è scomparso giovanissimo, il 18 settembre del 1970, a soli 27 anni. Ricordarlo oggi, a cinquant’anni dalla morte, significa anche fissare in qualche modo una prospettiva: cinquant’anni di musica dopo di lui, cinquant’anni di musica rock senza Hendrix. Una vertigine, per chi lo ha amato. Da questa prospettiva emerge un musicista immenso, che si avventurò verso l’ignoto sperimentando direttamente sul pubblico la coincidenza perfetta fra un suono infine liberato e una mente collettiva che ambiva a fare altrettanto.

 

Partirei, provocatoriamente, da ciò che un maestro di solfeggio inquadrerebbe con ogni probabilità come un difetto, una tara da correggere prima che la negligenza assuma carattere cronico. Provate a mettere sul piatto del giradischi una canzone di Hendrix e a far partire un metronomo al tempo con cui Jimi attacca il pezzo. E poi verificate quante volte brano e metronomo vanno fuori sincrono. Oppure prendete una traccia digitale di un brano di Jimi e apritela su un software di editing musicale (diciamo Pro-Tools, il software oggi comunemente impiegato nella maggior parte degli studi di registrazione), così che vi appaia l’onda sonora della traccia, e misurate con quale frequenza cambiano i bpm (battiti per minuto) nel corso del brano. C’è un tale su Youtube che l’ha fatto. Restereste probabilmente sorpresi. Non succede sempre, ma succede con una frequenza che raggelerebbe il maestro di solfeggio di cui sopra. Cosa farebbe, oggi, un tecnico del suono di fronte a queste variazioni? (La parola variazioni non è scelta a caso, avrei potuto scrivere, impropriamente, imprecisioni). Nell’impossibilità di ingiungere a Hendrix di ripetere il brano (ma a tempo stavolta!), correggerebbe digitalmente quelle variazioni. Aggiusterebbe, atto sacrilego, Jimi Hendrix. E nel farlo lo farebbe suonare giusto, una giustezza che probabilmente non avrebbe facoltà di impoverire o stravolgere la sua musica, ma di sicuro non la migliorerebbe.

 

Jimi Hendrix, a differenza di quanto succede oggi in studio d’incisione, non suonava facendosi guidare dal click (il metronomo in cuffia, nel gergo dei musicisti). Hendrix, pur correndo o rallentando, portava in dote qualcosa di immensamente più essenziale alla sua idea di musica che non il click o il suonare a tempo: un senso innato e fenomenale del ritmo, una propulsione naturale che nessun metronomo sarebbe mai in grado di fissare. Quando pensiamo ai grandi chitarristi della storia del rock abbiamo tendenza a catalogarli sulla base dei meriti solistici. Un bravo chitarrista rock è colui che prende gli assoli più spericolati, meglio ancora se condotti a una velocità degna di Usain Bolt (lo stesso vale per gli arpeggi da fachiro, il tapping, e tutte le diavolerie e le contorsioni di cui ci hanno fatto dono i virtuosi della sei corde). Ciò che elevava, e in buona parte ancor oggi eleva Jimi Hendrix al di sopra della concorrenza, era il suo straordinario senso ritmico. Jimi era uno dei pochi musicisti rock neri dell’epoca (sul palco di Woodstock di musicisti di colore c’erano soltanto lui, Richie Havens e Sly Stone, ma dei tre Jimi era il solo di ascendenza rock), e il suo senso del blues, del funk, del soul o del rhythm’n’blues non era da intendersi tanto in termini di dimestichezza con un dato genere o di maggior attinenza con la tradizione afro-americana, quanto in termini di preminenza assoluta del ritmo su tutti gli altri elementi musicali, osservanza metronomica compresa.

 

 

Il ritmo, in Jimi Hendrix, è un umore fluido che sta in diretto dialogo con il timbro, l’armonia e la melodia, ma soprattutto con l’energia dalla quale il musicista o i musicisti si sentono investiti e spesso travolti. Il ritmo in Hendrix è la matrice da cui muove tutto il resto. Si pensi soltanto a un brano come Voodoo Chile, e alla celebre introduzione in cui Jimi, prima di suonare il tema con il pedale wha-wha, si limita a percuotere con il plettro le corde dello strumento senza suonarle. È uno degli accorgimenti dietro cui si esplicita una delle tante tecniche di cui Jimi fu il precursore: battere tutte le corde della chitarra facendone risuonare una soltanto, facendo coincidere ritmo e melodia, accompagnamento e voce solista. Un’evoluzione vertiginosa rispetto a ciò che Robert Johnson aveva introdotto trent’anni prima in ambito di blues acustico, quando sovrappose la voce solista a quella dell’accompagnamento ritmico.

 

Sforzarsi di capire ciò che Jimi Hendrix combinava con lo strumento è cruciale per cogliere appieno il suo rivoluzionario apporto al rock. Prima di lui la chitarra elettrica era una chitarra acustica con un filo attaccato a un amplificatore, poco più. Jimi da un lato ne esplorò le potenzialità sonore grazie agli effetti e all’amplificazione: la saturazione del segnale grazie al pedale di distorsione fuzz, il pedale wha-wha (che restituisce un suono simile al vagito di un neonato, non a caso detto cry baby), il feedback, il pedale Uni-Vibe (che imitava il suono dell’amplificatore Leslie usato come complemento ai primi organi Hammond a ruote foniche – si pensi a Rick Wright dei Pink Floyd o a Jon Lord dei Deep Purple), la famosa leva del tremolo della sua Fender Stratocaster (un vibrato, in verità, perché modifica l’intonazione, non il volume), che in Jimi assumeva le sembianze della leva di Archimede (datemi un punto di appoggio e solleverò la Terra), non di un accorgimento atto a far palpitare il cuore con un fremito che fu anche morriconiano e più avanti tarantiniano (come dimenticare gli Shadows di Apache?). Quella leva fu un espediente chiave per Hendrix. Se ne servì per sovvertire il mondo, per distorcerlo e piegarlo fino alla svasatura. Ogni volta che metteva mano alla leva del tremolo, Jimi non lo faceva per compromettere in modo impercettibile l’equilibrio dell’intonazione, ma nell’ottica di squarciare il suono, lo strumento e, di fatto, il mondo intorno a sé. Più che una leva, un vero e proprio argano che non da ultimo produceva sconquassi sull’accordatura dello strumento (provare per credere: piegate la leva del tremolo come faceva Jimi, e vi toccherà accordare da capo la chitarra). Oggi che tanto va di moda l’autotune – uno strumento digitale nato per correggere le stonature ma che poi ha sviluppato un’estetica tutta sua in ambito di musica trap – fa davvero strano pensare a un musicista che usava la forza delle sue braccia per catapultare il suono dello strumento in una dimensione altra, di alterità percettiva prima ancora che tonale.

 

 

Da un lato gli effetti, e dall’altro la mano. Nessuno prima di Hendrix aveva mai suonato la chitarra elettrica con tanta naturalezza (verrebbe da dire in tutta scioltezza). Tutto, nello stile e nell’esecuzione, appare armonioso e fluido. Jimi conosceva la sua chitarra come le sue tasche. Vedendolo suonare poche cose risultano evidenti quanto la simbiosi ch’era riuscito ad instaurare con la sua Fender, una simbiosi che si esplicitava anzitutto nel modo in cui Jimi poneva la mano sul manico della chitarra (per un approccio ergonomico a Hendrix). Proprio come per i tennisti – dimmi come impugni la racchetta e ti dirò che tennista sei e a quale gioco toccherà predisporsi – così l’impugnatura di Hendrix raccontava molto del suo stile, e del perché Hendrix suonasse a quel modo. Il fraseggio di Hendrix è conseguenza diretta di come il musicista poneva la mano sul manico dello strumento: l’uso del pollice per suonare le corde basse, la messa al bando del barré, l’angolo di incidenza che consentiva alle dita di spostarsi con la massima fluidità lungo il manico dello strumento, la lancinante perfezione del bending (la piegatura, un effetto di glissando molto usato nel blues e nel rock che consiste nel “piegare” le corde al fine di alterarne l’intonazione), dovuta in parte proprio al modo in cui Jimi si serviva del pollice a mo’ di ancora. Jimi non suonava quasi mai degli accordi in senso stretto, preferiva di gran lunga muoversi per triadi (le tre note fondamentali che compongono gli accordi, maggiori o minori che siano, la matrice del sistema armonico tonale occidentale). 

 

Se c’è un elemento, fra i tanti, anche fra quelli più ovvi e più unanimemente riconosciuti che fa l’originalità di Hendrix, il suo modo di muoversi per triadi è quello meno sottolineato ma, al tempo stesso, quello che determinò in modo forse più evidente l’originalità del suo stile. Quei suoi abbellimenti così caratteristici furono un’emanazione diretta del suo modo di combinare e di muoversi con straordinaria disinvoltura per triadi. Lo stesso vale per il cosiddetto accordo di Hendrix reso famoso da Purple Haze e da Foxy Lady, l’accordo di settima dominante che con l’aggiunta della nona aumentata (7#9) fa di fatto coesistere la terza maggiore e la terza minore, creando una dissonanza ideale per il funk sporco tanto caro a Jimi e determinando nel contempo un’indeterminatezza armonica di cui prima del rock pure il jazz aveva già saputo far tesoro. Anche questo, nel “sistema” Hendrix, era frutto del suo particolare modo di porre le mani sullo strumento: quell’accordo inconsueto si materializzava da sé, in modo naturale, grazie all’angolo di incidenza della mano.

 

Chi si addentra nello stile di Hendrix, da musicista o da semplice curioso di cose musicali, scopre insomma un sistema estremamente originale, insieme semplice da comprendere ma di enorme complessità sul piano esecutivo. Il problema, per il musicista che ha l’ambizione di imitarlo, è che Hendrix faceva un sacco di cose simultaneamente, sul piano ritmico e armonico, su quello melodico e sonoro, con un alto grado di perfezione tecnica cui si sommava l’impareggiabile espressività artistica. Il suo stile è stato studiato nel dettaglio nel mezzo secolo trascorso dalla sua morte, ma il senso di stupore e di ammirazione che proviamo nel vederlo suonare la chitarra restano immutati: come diavolo fa? È una specie di miracolo che un musicista sia riuscito a determinare, da solo, più che uno stile (suonare alla Hendrix), il modo stesso di suonare il rock su una chitarra elettrica.

 

 

Il suo sistema – e per sistema s’intenda per l’appunto qui l’insieme di tecniche e di accorgimenti che usava suonando – era di una ricchezza tale che avrebbe potuto tenere la mano fissa sul manico della chitarra per tre minuti traendone una mezza sinfonia di suoni (si ascolti, a titolo d’esempio, l’assolo in studio di Hey Joe, una semplice scala pentatonica presa e tenuta al dodicesimo tasto per tutto l’assolo, anche per consentirgli di eseguire dal vivo quell’assolo coi denti e con lo strumento tenuto dietro la nuca, ma dentro cui però si dipana un’incredibile varietà di soluzioni). Stevie Ray Vaughan, forse l’allievo di Jimi che meglio seppe far tesoro e costruire sull’esempio del maestro, ne diede a sua volta un brillante esempio in Couldn’t stand the weather: massima economia di movimenti per il massimo effetto. Il riff, espressione di quel funk sporco e disinvolto tanto caro a Jimi, è implacabile, e lì dentro succede di tutto, parte solista e accompagnamento sono una cosa sola.

 

Il peculiare stile di Jimi Hendrix alla chitarra è insomma l’equivalente, per l’appassionato, del Sacro Graal. V’è depositata l’essenza stessa del rock, oltre che una delle più dirette vie d’accesso alla sua comprensione. Questo in parte spiega perché, a cinquant’anni dalla morte, Hendrix sia ancora considerato un faro dal quale è impossibile prescindere, e perché ogni giovane chitarrista, scoprendo Jimi, ha la sensazione di imbattersi nella matrice stessa del rock. Ciò che affascina, in lui, è anzitutto la sensazione di essere al cospetto di qualcosa di primordiale. Tutto in Jimi è essenziale. Suonando non si discosta mai da quei principi, si limita ad abbellire e a impreziosire quella materia primordiale, senza mai allontanarsene veramente. Ascoltandolo si avverte in modo distinto la sorgente, il punto di calore. Comprensibile, ma anche fuorviante, che molti si dilunghino sugli aspetti tutto sommato di contorno di Hendrix, quel funambolismo a tratti un po’ circense: suonare la chitarra con i denti o dietro la schiena, bruciare lo strumento sul palcoscenico, i vestiti sgargianti, e persino la dimensione psichedelica di cui fu senza dubbio uno degli esponenti di spicco. Elementi comuni all’epoca, e pur riconoscendo che Jimi debba essere inquadrato dentro gli anni ’60 (eravamo partiti proprio da lì, se ricordate), è altrettanto vero che per coglierne al meglio il rilievo e il persistente primato di alchimista elettrico e di guru del rock, è necessario capire che ad attrarre in lui non sono tanto le bandane o gli assoli a manetta, ma la centralità animale del ritmo e il fatto che quel ritmo ha ancora facoltà di proiettarci dentro qualcosa di essenziale e di non derivato. Un tempo interiore, l’unico davvero in grado di farci intravedere – capire forse no, ma almeno intravedere, questo sì – il mistero della creazione.

 

 

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