Camilleri a quota cento / Montalbano è stanco
Arrivato al suo centesimo libro – come a ribadire una sfida atavica con l’ambito collega Georges Simenon – con L’altro capo del filo (Sellerio, pp. 301, € 14) Andrea Camilleri non ha più dubbi: l’antieroe di Vigàta non ce la fa più. Arranca maledettamente, ha il fiatone, non è connesso con l’andazzo generale. Le cicaronate di caffè, come le chiama, non bastano a tenerlo vispo, e dorme pochissimo: lui e tutti gli uomini del commissariato. Ma persiste, imperterrito, nella sua azione perturbante contro il tempo e i tempi, in questo gioco ormai più che ventennale dove la giustizia formale si scontra con l’etica personale, il rispetto della legge sedicente uguale per tutti con lo sdegno idiosincratico verso il malcostume generalizzato. Ecchecavolo, sembra ripetere a ogni piè sospinto. Da una parte gli sbarchi allucinati dei migranti, a centinaia ogni notte, da gestire in sede locale senza alcun reale supporto politico ed economico da chicchessia. Dall’altra il delirio quotidiano di uomini e cose che, lasciando accumulare nei decenni offese e malanimi, vivono di vendette che dovranno esser gustate fredde.
Diciamoci la verità: quest’Altro capo del filo vede le cose dalla prospettiva opposta. Un poliziesco che non cura più di tanto l’articolazione narrativa dell’investigazione ma permea a fondo gli animi umani. Soprattutto femminili: in questo romanzo le vere protagoniste, volenti o nolenti, buone e cattive, sono le donne. Nelle prime settanta pagine del libro non accade nulla, nel senso che l’omicidio che dà la molla dell’azione non è ancora avvenuto. Ma d’altra parte tutto quel che doveva succedere c’è già: incessantemente e impietosamente. Ogni notte il porto di Vigàta si riempie di migranti allo stremo, con famiglie disunite, ragazzine violentate, bambini sperduti, ma anche trafficanti di uomini e di loro parti, e tanta gente che s’arricchisce con la sofferenza altrui. Non c’è la mafia, in questo libro. Ma è dappertutto. E non appena l’assassinio viene finalmente fuori, sanguinoso, crudele, violentissimo, non se ne sente più l’esigenza: nel senso strutturale della questione, ma anche in quello esistenziale, etico e politico assieme.
L’atmosfera è già allo stremo, i personaggi altrettanto, il naufragio – reale e metaforico – regna sovrano.
Così, il commissario s’arrabatta alla sanfasò: accumula informazioni dal fido Fazio, ascolta confidenti, ribatte le scemate di Augello e d’altri uomini di legge, ma, in senso stretto, non fa nulla. Alla zita che gli rompe i cabasisi parlando d’un vestito nuovo da sartoria, per non si sa quale cerimonia banale da celebrare nel profondo Nord, Montalbano racconta di pugnalate inflitte a una dolcissima signora che, da parte sua, accarezzava sensualmente stoffe e ricami pur celando rancori atavici. Ma Livia non sembra capire veramente: nicchia, borbotta, piange confusa.
Non diremo la fine, com’è giusto: anche perché non c’è. Risolto infine il caso, giusto in quelle brume padane dal commissario tanto temute, Montalbano lascia ai carabinieri friulani il capo del filo. E va in cerca del vestito nuovo per accontentare la dolce metà. Confezionato però: mai fidarsi delle sartine.
P.S. Sappiamo quanto il personaggio del commissario Montalbano sia sempre stato, e continui a essere, mediaticamente permeabile. Da un lato è una figura letteraria che vive in narrazioni molto tradizionali, in opere chiuse come sono, per definizione, le storie poliziesche. D’altro lato essa non fa che sfuggire ai limiti testuali che la sua stessa natura sembrerebbe imporgli. Emigra in televisione, da dove ritorna, dotato di un viso e di un corpo fortemente iconici, nei romanzi. Compare in fumetti, videogiochi, itinerari turistici, discorsi politici, creazioni gastronomiche, funzionando talvolta da nom de plume per il suo autore iperpirandelliano. Il mercato dell’intrattenimento ne ha inoltre proposto una versione ringiovanita, sia sulla pagina sia sullo schermo. Per Montalbano la serialità narrativa è doppiamente trasversale, ora all’interno del singolo medium (letteratura, televisione) ora tra media diversi. Al punto che è molto difficile, se non inutile, distinguere fra invenzione narrativa e trovata di marketing, reinterpretazioni creative e nuove forme di posizionamento nel mondo dei consumi mediali.
Del resto, se è divenuto un modello di riferimento (cui rifarsi o da cui distaccarsi: è lo stesso) per le decine e decine di commissari letterari, cinematografici e televisivi degli ultimi vent’anni non è né per il suo spessore estetico né per le strategie di marketing di cui è portatore ma, appunto, per la sapiente mescolanza di queste due istanze che solo un’ideologia purista dura a morire, sia in estetica sia nel marketing, considera opposte.
Dato un simile contesto, non può non essere rilevante il fatto, segnalato nella nota di chiusura e ripreso da molti giornali e dal web, che L’altro capo del filo sia stato scritto da un’altra mano, quella di Valentina Alferj, la quale, a detta di Camilleri, a causa della sopraggiunta cecità lo ha aiutato “non solo materialmente ma intervenendo anche creativamente nella sua stesura”. Basta per giustificare questa svolta femminile (non femminista pi ccarità!) nell’universo montalbanesco? Ovviamente no. Ma è comunque abbastanza evidente, in questo romanzo, come la prospettiva fortemente maschile che da sempre caratterizzato le storie di Montalbano abbia qui un forte contraltare nell’altro sesso. I personaggi femminili sono moltissimi, e tutti ben caratterizzati, curati, palesemente presenti. E perfino l’animo del protagonista è molto meno macho del solito. Un’ulteriore possibile interpretazione del titolo del libro?