Theodore Rousseau, il primo ecoattivista

4 Luglio 2024

La mostra parigina di Théodore Rousseau (1812-1867) comincia per me sull’immensa esplanade dell’École militaire, che attraverso per arrivare al Petit Palais. Le zone verdi, che fiancheggiano l’asse stradale perennemente trafficato che unisce le due rive della Senna, sono deserte; giocare a pallone severamente vietato. Nessun albero all’orizzonte, quanto rende la distesa sinistra, non diversamente da tante piazze parigine che sono, rispetto alle piazze italiane della mia infanzia, slarghi volti all’annientamento del flâneur (Nation, Concorde, Charles-de-Gaulle, Bastille…).

Così è la vegetazione in una città cementata, incapace di reinventare il verde urbano e di lasciare che i cittadini se ne riapproprino. È vero per École militaire con la sua facciata severa, frequentata da tanti turisti diretti a Champs de Mars, Torre Eiffel o Invalides, come per i piccoli appezzamenti verdi nei quartieri destinati ai riverains e incastonati tra i palazzi come frammenti di un puzzle. Penso a quello che fiancheggio per andare all’università, au fin fond del XVe arrondissement, chiuso per mesi per chissà quali lavori di manutenzione.

Ho ancora nei passi e negli occhi la spianata dell’École militaire quando m’immergo nel mondo vegetale di Rousseau (Théodore Rousseau. La Voix de la forêt, a cura di Annick Lemoine e Servane Dargnies de Vitry, Petit Palais, Parigi, fino al 7 luglio).

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Théodore Rousseau, Le Massacre des Innocents ou Abattage d’arbres dans l’île de Croissy, 1847, olio su tela, 95x146.5 cm, The Hague, The Mesdag Collection.

Il pittore

Le Massacre des Innocents ou Abattage d’arbres dans l’île de Croissy (1847) è un dipinto incompiuto e senza dubbio non il più riuscito di Rousseau. Il pittore utilizza una parabola biblica, quella del massacro degli innocenti, per rappresentare l’abbattimento degli alberi: un uomo sulla destra si arrampica per passare una corda attorno al tronco della quercia principale; altri taglialegna a sinistra sono impegnati a tirar giù un albero. Il centro della scena è occupato da un tronco orizzontale a terra, che immagino appena tagliato, ostruendo allo stesso tempo il viale alberato, l’orizzonte della composizione quanto lo sguardo dello spettatore che quasi ci inciampa.

Il titolo biblico echeggia il linguaggio degli ambientalisti di oggi: quello operato sulla natura o sul vivente da parte dell’umano è un massacro degli innocenti. A suggerirlo è la stessa didascalia del dipinto: “Paragonando le querce agli innocenti uccisi, Rousseau intende sensibilizzare l’opinione pubblica sulla distruzione degli ambienti forestali causata dall’industrializzazione”. Restituisce bene lo stato d’animo (leggasi la costernazione) di Rousseau.

Infatti a partire dal luglio 1836 Rousseau abbandona una Parigi cosmopolita quanto ostile, che rifiuta sistematicamente le sue richieste di partecipare al Salon dal 1836 al 1849, ovvero fino alla proclamazione della seconda Repubblica che succede alla monarchia di Luglio (1830-1848). Abbandona una Parigi insalubre, finendo per trasferirsi definitivamente, nel 1847, a Barbizon. Solo nel 1849 saranno costruiti quei 40 chilometri di ferrovia che congiungeranno Fontainebleau a Parigi in un’ora e venti. Rousseau vivacchia in una casa modesta di due camere che Alfred Sensier, suo amico e biografo, ricorda bassa e oscura, con l’atelier improvvisato nel granaio.

Massacre des Innocents diventa più intelligibile se lo contrapponiamo a due figure legate al destino della foresta di Fontainebleau. La prima è Claude-François Denecourt; nominato di sfuggita in mostra, intuisco che gioca un ruolo centrale, e difatti è la bête noire di Rousseau. Riconosciuto come “il pioniere della randonnée pedestre” sul sito ufficiale dell’Office National des Forêts, “dal 1834 alla sua morte nel 1875, Denecourt traccia più di 150 chilometri di promenade che chiama ‘Sentiers bleus’ o sentieri di sogno” (Patrick Scheyder, Des arbres à défendre. George Sand et Théodore Rousseau en lutte pour la forêt de Fontainebleau (1830-1880), Le Pommier, Paris 2022, p. 67). Apre tunnel, costruisce fontane, una grotta dei Briganti e persino la Tour Denecourt. Ancora esistente sebbene in rovina, la torre offre una vista panoramica della foresta, ridotta a un pittoresco belvedere. Denecourt inoltre modella o crea di sana pianta aneddoti, racconti mitologici, eventi che si snodano lungo i suoi sentieri di sogno. Una guida, rieditata più volte, assicura la diffusione del suo capriccio presso i borghesi parigini in cerca d’evasione domenicale. Non dimentichiamo che, prima che il barone Haussmann trasformi il bois de Boulogne in ritrovo dell’alta società, per un parigino del XIX secolo la natura è le Tuileries, Palais-Royal, Luxembourg e Jardin des plantes.

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La Tour Denecourt, 1853, Forêt de Fontainebleau.

La Fontainebleau di Denecourt offre panorami da ammirare senza abbandonare i sentieri battuti, un safari vegetale e pedestre. Da luogo rurale, con greggi di capre, pecore e vacche, la foresta di Fontainebleau diventa uno spot turistico, un luogo d’interesse paesaggistico o, per usare le sue parole, “une sorte d’Éden”, “un jardin de fées” (La guerre déclarée à mes sentiers: in Scheyder, cit. p. 67). A Rousseau non sfugge il senso di tali interventi artificiali, essendo anche lui parigino, nato a rue Neuve-Saint-Eustache, oggi rue d’Aboukir, nel secondo arrondissement (a pochi metri da dove vivo io pour la petite anecdote).

La seconda figura è quella dell’amministratore Achille Marrier de Bois d’Hyver, ispettore delle foreste della Couronne. Al fine di valorizzare Fontainebleau, ovvero di produrre legna da ardere e da costruzione, promuove la piantumazione estensiva di conifere come i pini silvestri che resistono al freddo (non si chiama Bois d’Hyver del resto?). Le querce tutelari pluricentenarie sono così sostituite da pini silvestri piantati massivamente a partire dal 1830. “In sedici anni (dal 1831 al 1847), l’amministrazione forestale rimboschisce 6.200 ettari, di cui 5.408 di conifere e 792 di latifoglie. Ovvero un tasso di   piantagione intensivo di 364 ettari all’anno” (Scheyder, cit. p. 37).

Non è un caso che Rousseau non dipingerà mai un pino, per lui emblema dell’impatto umano sull’ecosistema forestale; non solo: pare persino che di notte li sradicasse. Guardando i suoi pochi ritratti fotografici, come quello di Nadar o di Étienne Carjat, me lo immagino uscire infagottato coi suoi sodali e, munito di seghe e pale, mettersi all’opera come nelle azioni plateali di Greenpeace. Rousseau infatti non è solo: una comunità di pittori e fotografi staziona all’ostello Ganne di Barbizon – loro rifugio e quartier generale – e nel 1849 è raggiunto dal pittore e amico di lunga data Jean-François Millet, in fuga dalla capitale afflitta da una epidemia di colera.

Il naturalista

Rousseau frequenta la foresta senza requie, a ogni ora del giorno e della notte, alla ricerca di punti d’osservazione inediti, delle folte chiome delle querce che ostruiscono cielo e orizzonte, lontani dalle vedute panoramiche o dai vialoni prospettici. Con la stessa dedizione osserva alberi e arbusti, muschi e licheni, schegge di legno morto e pigne ai margini dei sentieri; il suo è uno sguardo da naturalista, paziente e acuto, non da semplice paesaggista (La forêt de Fontainebleau. Un atelier grandeur nature, catalogo della mostra a cura di Chantal Georgel, Paris, Musée D’Orsay 2007, p. 81).

Rousseau s’incavola con chiunque osi torcere la corteccia di un albero o spezzare un ramo: “Facendo questo mazzo di erica tra le rocce mi hai distrutto dieci dipinti; il sito da dove l’hai preso ha ora perso il suo carattere. Lo vedo da qui”, rimprovera il padre (Rolande et Pierre Miquel, Théodore Rousseau. 1812-1867, Paris, Somogy, 2010, p. 123). E quando l’artista alsaziano Félix Haffner raccoglie pigne da portare a studio, Rousseau interviene: “Lascia le cose della natura dove la natura le ha messe. La natura fa quello che fa meglio di quanto possiamo fare noi. Lascia quelle pigne dove sono. Un giorno potremmo essere felici di ritrovarle lì” (Théophile Silvestre, Les Artistes français, cit. in Rolande et Pierre Miquel, Théodore Rousseau. 1812-1867, p. 124).

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Nadar, Théodore Rousseau, salted paper print, 25.9x20.3 cm, Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

Rousseau ambisce a una sorta di bio-mimetismo, come suggerisce Sensier: “Come sarebbe facile disciplinarsi sull’esempio dei vegetali” ma anche: “È così difficile modellarsi sull’ordine che ci avvolge!”; “Sentivo anche la voce degli alberi [...] il linguaggio delle foreste. Tutto questo mondo pulsava di esseri muti di cui potevo indovinare i segni [...]; volevo dialogare con loro [...] attraverso quest’altro linguaggio della pittura” (passo che ha ispirato il titolo della mostra).

Robusto con alcune rigidezze, solitario e tenebroso, orgoglioso e facilmente suscettibile, stoico ma diffidente e a tratti collerico, Rousseau non trova a Fontainebleau un paesaggio ma una corrispondenza di stati d’animo. Con la foresta ha un rapporto così fusionale e osmotico che i due vengono spesso descritti negli stessi termini. Lo scrittore Théophile Gautier ritrova cespugli e boschetti nello stesso Rousseau, definito “touffu, frondescent, inextricable comme une forêt vierge”.

Attraversando le sale della mostra al Petit Palais sento, sul naso e sulla pelle, la natura umida della vegetazione…

Il militante

Il 13 agosto 1861 è un giorno memorabile per la storia della protezione dell’ambiente. Viene infatti firmato il decreto imperiale che protegge 624 ettari sui 16.972 totali della foresta di Fontainebleau (che, con l’inclusione delle Séries artistiques, arrivano a 1097). Diventa di fatto il primo spazio naturale protetto al mondo, oltre dieci anni prima il parco di Yellowstone (1872) negli Stati Uniti, patrono dell’ambientalismo. Fautore di questo atto militante non è altri che il nostro Rousseau. Per il “Grand Refusé” si tratta di una vittoria insperata che ha il gusto della rivincita. Si tratta di una delle primissime – e senza dubbio la più efficace – misura di protezione del patrimonio vegetale nella storia della politica francese, di certo l’unica che vede il contributo attivo di un gruppo di artisti marginali. “Rousseau riesce a combinare in modo originale due battaglie: quella per dipingere il paesaggio e quella per preservarlo. Poiché l’una non può essere realizzata senza l’altra, Rousseau inventa così la lotta ecologica attraverso l’azione artistica” (P. Scheyder, cit. p. 55).

Nella lettera al duca di Morny, braccio destro e fratellastro di Napoleone III, Rousseau parla a nome della comunità artistica: “Per gli artisti che la studiano, la natura è ciò che per gli altri sono i modelli lasciati da Michelangelo, Raffaello, Correggio, Rembrandt e dagli altri grandi maestri del passato”; “Che i luoghi che sono per gli artisti materia di studio, modelli riconosciuti di composizione e di pittura, siano messi fuori dalla portata dell’amministrazione forestale che li gestisce male e dell’uomo assurdo che li sfrutta”. Pochi anni dopo la scrittrice George Sand si esprimerà in modo simile: una sensibilità contro la deforestazione sta maturando.

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Claude Monet, Le Déjeuner sur l’herbe, 1865-1866, olio su tela, Paris, Musée d’Orsay.

Un picnic impressionista

Se la mostra parigina si chiude con la solastalgia di Rousseau, un dipinto giovanile di Monet conservato al Musée d’Orsay prende a ossessionarmi: Le Déjeuner sur l’herbe (1865-1866). Omonimo del celeberrimo dipinto di Manet ma tre volte più grande (4x6 metri), mostra un angolo della foresta di Fontainebleau lontanissimo da Rousseau, o meglio un picnic tra amici su una radura verdeggiante così insignificante da poter essere facilmente presa per un giardino cittadino.

È in genere considerato come un dipinto-manifesto che anticipa l’impressionismo: “Monet elaborava una nuova forma di realismo – contemporaneo, moderno, borghese” (La forêt de Fontainebleau, p. 101). Oggi mi appare intonare il requiem della battaglia portata avanti da Rousseau e sodali, la fine della wilderness forestale a beneficio di un verde come mero sfondo. Che si delineino qui due tendenze moderne del paesaggio in pittura, una legata a Rousseau, l’altra a Monet, col picnic che anticipa la creazione della sua Neverland, il paradiso artificiale di Giverny?

Rousseau è per me meno vicino all’impressionismo, con cui viene spesso confuso (ad esempio nella mostra, esplicita sin dal titolo, L’école de Barbizon. Peindre en plein air avant l’impressionnisme, Musée des beaux-arts di Lione, 2002) che alle attuali lotte per la difesa del territorio.

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La foresta di Fontainebleau come prima ZAD (zona da difendere)? Da Larzac (1978) a Notre-Dame-des-Landes (2022), dai fenomeni neorurali alla recente battaglia contro la costruzione dell’autostrada A69 condotta dagli “écureuils”, movimento ecologico fondato nel 2019 da Thomas Brail. Criticando il cantiere dell’autostrada A69 tra Toulouse e Castres, Brail ha cominciato a vivere sugli alberi, prima nel Tarn poi a Toulouse prima del 14 settembre 2023, quando elegge come dimora un platano davanti al ministero della Transizione ecologica. Malgrado si tratti di un’azione pacifica, viene riportato a terra il 24 settembre – i nuovi baroni rampanti danno fastidio al potere.

Rousseau attivista ecologico: un anacronismo? Credo che oggi guarderebbe con apprensione il recente documentario diffuso dal canale Arte sull’insostenibilità delle foreste acquistate dall’Ikea; che manifesterebbe con gli attivisti di Greenpeace e la galassia dell’attivismo ecologico francese minacciata dal governo; che si arruolerebbe con Soulèvements de la terre contro un governo (quello di Macron) che ne ha goffamente tentato lo scioglimento (perché la loro unica strategia per gestire la crisi climatica è la costruzione di centrali nucleari da aggiungere ai 56 reattori attuali).

Se ancora oggi è possibile spilluzzicare sotto le fronde ombrose della foresta di Fontainebleau, come i festanti personaggi di Monet, è grazie alla vita e all’opera di un pittore meno conosciuto di lui: Théodore Rousseau.

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