Il nuovo romanzo dello scrittore spagnolo / I Rondoni di Fernando Aramburu
Capita che un romanzo entri intimamente nel lettore, che sia insopportabile nella narrazione lo stillicidio dei giorni che passano e che avvicinano il protagonista alla morte ma che si vorrebbe continuassero invece all'infinito, perché la storia raccontata è un miracolo raro di bellezza e perfezione. I rondoni di Fernando Aramburu (Guanda, 2021, traduzione di Bruno Arpaia) è uno di questi. I ricordi dominano la vita di Toni, un professore di liceo che ha scelto una data precisa per togliersi la vita, il 31 luglio del 2019, e lo portano a ripercorrere un'esistenza dove l'amore e gli affetti familiari, la consuetudine con i libri e l'arte si dimostrano incapaci di colmare un vuoto esistenziale profondo che non gli ha mai dato "risposte a nulla. A nulla". I rondoni è una rilettura contemporanea dell'esistenzialismo, con Toni aggredito da un senso di precarietà e di insensatezza ma qui Camus ha visto i film di Almodovar e il romanzo è pervaso da una leggerezza spagnola, fatta di colori vivi, di rossetti squillanti sulle labbra delle donne, di surreali rapporti con bambole gonfiabili, di mujeres sull'orlo di una crisi di nervi, della modernità del lesbismo dopo gli strascichi della repressione sessuale franchista.
Un esistenzialismo molto umano, alla Sartre, ma dove Toni non riuscirebbe nemmeno (come fa Paul in Erostrato) a pensare di poter imbracciare un fucile e sparare ai fedeli che escono dalla messa: la rabbia è solo rivolta a se stesso, nessuno al di fuori di lui sembra aver colpa del suo sprofondare in un presente senza senso. Allora decide di dare inizio all'ultimo anno di vita: undici mesi di narrazione lo separano dalla data scelta per suicidarsi, il libro parte da agosto e finisce a luglio dell'anno dopo, ogni mese è composto da piccoli capitoli, contrassegnati da 1 a 30 o da 1 a 31, a seconda del mese. I rondoni è il diario delle sabbie mobili in cui Toni volontariamente sprofonda, tra passeggiate senza senso, un indolente menefreghismo riguardo a tutto ciò che accade ("tutto intorno a me è tragedia mentre io godo di calma e di una forma fisica invidiabile"; "in questo consiste la maturità, nel rassegnarsi a fare un giorno e un altro e poi un altro ciò che non ci va"), il voto dato chiudendo gli occhi e tracciando una croce a caso sulla scheda elettorale ("potrei fare il politico. Ho tutti i requisiti visto che non mi distinguo in nulla e non credo in nulla"), una nausea che è l'esistenza stessa che si svela e alla quale Toni non oppone resistenza. Condivide questo spleen con il suo amico Bellagamba (che a sua insaputa Toni bonariamente deride, chiamandolo così perché porta una protesi, avendo perso un piede in un attentato terroristico), insieme hanno deciso la data della fine di tutti e due: sarà Bellagamba a procurare a Toni la quantità di cianuro che dovrebbe assicurargli una morte rapida e, lui spera, indolore.
Cerca su google le immagini del suicidio di Slobodan Praljak, l'ex generale bosniaco-croato che si era rifiutato di accettare la condanna ratificata nel 2017 dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja e che, davanti alla corte che lo accusava, dopo essersi dichiarato innocente, ingerì cianuro disciolto in un liquido: non morì subito e Toni scopre che l'agonia dolorosa può protrarsi per più di venti minuti. I rondoni del titolo sono gli uccelli che a primavera invadono il cielo di Madrid, stormi festosi e rumorosi, basta guardarli – dice Toni – se solo si alzassero gli occhi dai cellulari, per essere contagiati dalla felicità dei loro voli intrecciati ("Adoro i rondoni, volano senza pause, liberi e laboriosi... ma mi hanno lasciato solo, con tutta la massa umana che mi opprime"). In loro Toni ripone la remota speranza di riconquista di una libertà che lo faccia recedere dalla decisione irrevocabile, "quasi al cento per cento", presa con Bellagamba. Una volta ne vede uno, morto sull'asfalto, lo rivolta dolcemente con la punta della scarpa, è infestato di mosche e svanisce il desiderio di reincarnarsi in uno di quegli uccelli, per volare e lanciare grida nel cielo. Toni si allontana con la testa piena di pensieri funesti.
Il conto alla rovescia verso il 31 luglio è straziante ma contraddistinto da una calma apatica: a un certo punto Toni racconta di essersi immerso, a diciotto anni, nello studio del Mondo come volontà e rappresentazione, l'opera di Schopenhauer che forse gli ha aperto gli occhi, e che spiega la frustrazione continua del desiderio di conoscenza, svilito in adattamento alla vita, che altro non è che una faticosa battaglia costellata di dolore e di noia. Le sue preghiere sono state le poesie di Quevedo, di Lorca, di Antonio Machado, imparate a memoria nell'adolescenza, nel trascorrere dei giorni sempre senza Dio, educato alla lotta da un padre comunista, con una madre sottomessa (ma, un giorno, durante un picnic, la scorge non visto nascosta nel fitto della boscaglia mentre con la cinghia frusta il suo uomo, inginocchiato e a torso nudo davanti a lei). Tedio cronico, disordine emotivo di un uomo rassegnato a rimanere vivo ma a cui la prospettiva della morte dona un soprassalto di consapevolezza: "proprio perché ci piace la vita bisogna abbandonarla di nostra volontà, conservando le forme dell'educazione e dell'eleganza, quando si avverte di deturparla con il proprio sconforto, la propria vecchiaia e le proprie piaghe; quando si nota che si è smesso di meritarla, quando la si è già goduta abbastanza".
Il suicidio dovrebbe essere un gesto giudizioso, scrive Toni nella sua Moleskine dove annota le frasi degli scrittori che lo colpiscono: questa è di Max Frisch. Altre frasi lo feriscono: quelle lasciate in biglietti anonimi nella sua cassetta della posta da qualcuno che sembra sapere tutto di lui, quasi in tempo reale. Le accetta con una flebile curiosità di scoprire chi sia l'estensore, con tentativi blandi di incastrare la sua ex-moglie, o Bellagamba o la ritrovata compagna di scuola Agueda. Da subito Toni comincia a liberarsi delle cose materiali che occupano l'appartamento in cui vive e inizia dai libri: "a che scopo ho letto tanto?
Da cosa mi hanno salvato i libri?... da nulla". Li abbandona così sotto le panchine o in qualche "angolino dell'arredo urbano" facendo in modo, quello si, "di preservarli dal contatto con la sporcizia". Lascia senza farsi vedere Lo Straniero di Camus in mezzo a una pila di libri in un banchetto dell'usato per poi tornare sui suoi passi e acquistarlo dall'ignaro libraio, per poi abbandonarlo di nuovo tra le pagine di un menù sul tavolo di un bar. "A casa, sotto la doccia, oltre a togliermi la sporcizia appiccicosa, con il getto dell'acqua mi sembrava di ripulirmi anche dalle aderenze libresche, da nozioni e concetti e frasi e massime che in fondo non mi sono mai serviti a niente".
In modo pudìco Aramburu rivela il dolore di Toni: quando lega Pepa, la sua cagnetta, al tronco di un albero con l'intento di abbandonarla ma, ormai lontano, ricorda che Pepa ha un microchip che consentirà a chi la ritrova di rintracciarlo: "così, alla prima rotonda, tornai indietro a tutta velocità, su per la strada, fino alla breccia nel muro. Mi accogliesti agitando la coda con gioia. E quando ti liberai dai nodi mi desti delle frenetiche leccate di gratitudine. Tremavi, non so se per il freddo o per altro... Erano brutti giorni, Pepa. Credimi". La condanna a morte che Toni infligge a se stesso, decidendo la data del suo suicidio e preparandosi all'evento con una serie di azioni che dovrebbero impedirgli di tornare sul suo proposito, ha le stesse radici dell'apatia di Mersault, il protagonista dello Straniero: la mancanza di senso della sua libertà, libero dai legami con la ex-moglie e con il figlio, affidato a lei, l'angoscia personale, il fallimento professionale di insegnare filosofia a studenti che detesta nel profondo, i casi della vita, con una nipote che muore giovane dopo una lunga malattia, un fratello minore che lo odia (lui non prova un sentimento reciproco così definitivo), un figlio tutto sommato sconosciuto.
Una dismisura che non riesce a traboccare ma che staziona, come l'acqua di una palude, nel cuore di Toni, il luogo della sua solitudine. Nelle tragedie cui assiste ma che tuttavia non lo toccano c'è anche un accenno al crollo del ponte Morandi a Genova e una storia che accade in Spagna, simile a quella di Alfredino Rampi, il bambino caduto nel pozzo a Vermicino. La parola "devastazione" (anzi, devastazione, in corsivo nel testo) che gli esistenzialisti evocavano per descrivere l'ergastolo cui la vita condanna, compare anche in questo libro di Aramburu ma Toni è impermeabile al tragico. Sua moglie gli dice "Tu non sai proprio cosa significhi soffrire", massima ingiustizia che provoca un sorriso nel lettore, perché Toni la riferisce a pagina 702, otto pagine prima della fine, dopo il racconto minuzioso del male profondo di quest'uomo, ferito dall'indifferenza carica di rimprovero e di disprezzo della moglie e allenato lui stesso a sopportare un'infelicità senza desideri ("Vuoto. Non dolore, non pena, nemmeno qualche accenno di angoscia esistenziale... Credo di vivere ormai soltanto per l'inerzia di respirare"), tanto che a fatica, con molta fatica, riesce ad accettare la vicinanza luminosa e generosa di Agueda.
La gravità del tema trattato è sempre bilanciata in questo romanzo dalla felicità del racconto: un diario che per fortuna non è scritto come fosse un diario – spesso la forma facile che un narratore adotta quando non ce la fa a manovrare l'intreccio – ma come un flusso di pensieri avvenimenti e ricordi, tra flashback e affondi nel presente, scanditi tuttavia dal trascorrere inesorabile dei giorni che avvicinano Toni al gesto estremo che si è imposto di compiere e che tipograficamente, sulle pagine, segnano i giorni di ogni mese, ma come fossero i numeri dei capitoli, non le date. "Era da tempo che non ridevo tanto. Non mi veniva in mente un altro stratagemma per nascondere la tristezza che mi avvolgeva. Una tristezza come lo sgocciolio di un rubinetto che perde. Plin, plin, plin... Una tristezza perforante, minuziosa, che ha cominciato a sgocciolarmi in corpo dalla mattina presto". Non riveleremo la fine di questa storia perché l'abilità di Aramburu nel condurci nel mondo di Toni merita la soddisfazione di sciogliere la suspense e il compimento senza spoiler del miracolo della letteratura, quando è ai massimi livelli senza sembrarlo e i personaggi paiono vivi, e il lettore ha la sensazione di averli da sempre conosciuti, tanto bravo è stato lo scrittore a far sembrare vero tutto quel che racconta, e a spacciare l'invenzione per realtà, facendo finta di essere lui quel Toni e facendo dire al protagonista che "a furia di mettere ricordi per iscritto, mi sento un po' romanziere", ma solo per confonderci e metterci ancora una volta su una falsa pista.