Jung a Copenhagen
Un cavallo e un grande disco dorato che poggia su ruote con eleganti ornamenti a spirale compongono il carro del sole. La scultura dell’età del bronzo, scoperta nel 1902 nella regione di Trundholm, nella Danimarca occidentale e conservata al museo Nazionale di Copenhagen, è chiamata così perché le popolazioni nordiche credevano che il sole viaggiasse nel cielo, da est a ovest durante il giorno, quando presentava il suo lato luminoso alla terra, in senso contrario di notte.
Simbolo di luce e ombra, il carro del sole è parso il logo adatto per il XIX congresso della Iaap (International Association for Analytical Psychology), l’internazionale degli psicoanalisti di orientamento junghiano, tenutosi nella capitale danese dal 18 al 23 agosto. Il titolo, “100 anni dopo: Origini, innovazioni, controversie”, evoca quel 1913 cruciale per la storia d’Europa che sta incubando la Grande guerra, cruciale per Jung (1875-1961) - che si era appena separato da Freud e aveva messo fine alla relazione con Sabina Spielrein -, immerso in una crisi psichica, la sua “malattia creativa”, testimoniata dai testi e dai disegni del Libro rosso. L’anno prima Jung aveva pubblicato Trasformazioni e simboli della libido, l’opera che segna la sua via e alla quale lavorerà quasi fino alla morte - Simboli della trasformazione è il titolo della versione definitiva, la quarta, del 1952.
Il congresso, 710 partecipanti provenienti da più di cinquanta paesi, non ha avuto timore di interrogarsi sul futuro possibile della psicologia analitica, di argomentare in modo stimolante e aperto il senso attuale della sua figura e dei suoi testi.
La tradizione, rappresentata dalla vecchia Europa e dagli Stati Uniti, combinata con la presenza di analisti giovani provenienti dalla Cina e dal Giappone, da Taiwan e dalla Corea, dall’America latina e dal Sud Africa, dalla Russia e dall’Ucraina, dalla Georgia e dalla Lituania, dalla Romania e dalla Repubblica ceca, dalla Polonia e dalla Serbia, ha prodotto un inedito melting pot analitico che configura la stanza d’analisi come un luogo aperto al mondo globale. Il rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva è stato il leitmotiv della maggioranza delle relazioni: il pensiero junghiano è stato messo a confronto con il mare mosso della crisi d’epoca e uno dei focus della riflessione ha riguardato proprio il rapporto tra le diverse culture.
Andrew Samuels, postjunghiano critico docente a Essex, è stato volutamente provocatorio nominando l’esclusione e il potere, il pregiudizio e il conformismo sessuale. Un conformismo che, secondo Samuels, è stato anche di Jung, impacciato nel gestire i suoi due “casi difficili”, Sabina Spielrein e Otto Gross (per le vicende biografiche, ancora poco note, della vita di Gross, un film d’azione i cui personaggi sono Kafka, Weber, Binswanger cfr. Michelantonio Lo Russo, Otto Gross. Psiche, Eros, Utopia, Editori Riuniti 2011).
Ha sottolineato il rapporto tra psicoanalisi e politica, l’importanza del femminismo, la più recente depatologizzazione dell’omosessualità, il dibattito attuale sugli studi etnopsichiatrici, sul gender e l’etnicità. La presenza di colleghi nuovi, magari anche un po’ naif, che insidia però il criterio eurocentrico, indica una prospettiva dove il cambiamento personale non può non essere anche sociale.
Che lo svantaggio economico non debba impedire una cura psicoanalitica lo credeva già Freud.
Nel 1918 a Vienna e poi a Berlino, nascono “cliniche gratuite” nelle quali terapeuti illustri offrono consulenza. E sono ripartiti proprio da lì Eva Pattis Zoja e Eduardo Carvallo per sostenere la necessità di incorporare il lavoro sociale nella psicoterapia, per raccontare la loro esperienza con il “Sandwork espressivo” nel Bronx, uno dei quartieri di Bogotà, e in altre città della Colombia. Fuori dalla stanza d’analisi, in un setting originale che coinvolge la comunità locale – in Colombia i poveri sono dieci milioni, cinque milioni sono “displaced person” in fuga –, il lavoro con bambini e adolescenti che vivono in situazioni di violenza e abuso è capace di introdurre rispetto e ascolto, di influenzare la coscienza collettiva degli adulti ( cfr. Eva Pattis Zoja: Curare con la sabbia. Una proposta terapeutica in situazioni di abbandono e violenza, Moretti&Vitali 2011). Un impegno da pionieri, al quale il congresso ha tributato una standing ovation e una fortissima commozione.
Le differenze culturali sono state evidenti anche nell’affrontare un concetto chiave della teoria psicoanalitica come quello di trauma. Il timore che il trauma possa diventare un fattore di identità è stato formulato soprattutto da chi ha lavorato in situazioni di violenza collettiva e ben conosce gli usi e gli abusi della memoria pubblica (Polonia, America latina), mentre il child abuse si ritrova in modo costante nei resoconti dei casi clinici. E che anche il vissuto della violenza dipenda dalla propria cultura sociale, traspariva dalla preoccupazione di un collega americano che ha continuato a scusarsi di doversi soffermare sulle scene del mito di Medea.
Diverse relazioni sono state dedicate ai modelli narrativi (Pia Skogemann) e alle potenzialità terapeutiche delle fiabe. A partire da La Sirenetta, simbolo dell’impossibilità della relazione, l’unico testo, pare, a coinvolgere emotivamente Andersen mentre lo scriveva.
Che le terapie funzionino in un congresso di psicoanalisti lo si dà per scontato, ma come questo avviene è qualcosa di difficilmente rappresentabile. Per Gustav Bovensiepen, che lavora a Colonia e ha grande esperienza con gli adolescenti, è importante che il terapeuta sia flessibile, un “oggetto vivace” consapevole del suo gioco, capace di cambiare sguardo, pronto a diverse prospettive. Qui l’analogia è con il metodo della storia dell’arte, con la teoria della prospettiva nel rinascimento, con gli studi di Hans Belting sui canoni dello sguardo tra oriente e occidente.
La “metafora della finestra”, che contiene il dentro e il fuori dello studio, può costituire uno spazio immaginale esterno, che funziona da terzo per la coppia analitica. Si sperimenta la possibilità di uscire dall’ovattata percezione quotidiana, di condividere “vigorosi momenti dell’essere” (Virginia Woolf), per non rimanere soli in quella “culla che dondola sopra l’abisso”, come scrive all’inizio della sua autobiografia Nabokov.
Che l’incontro con i testi di Jung possa risultare incandescente, condurre a scoprire un doppiofondo, è stato raccontato dall’austrialiano David Tacey, e dall’americano Stan Marlan, autori del collettaneo How and Why We Still Read Jung. Personal and professional reflections (Routledge 2013).
Jung non credeva nella possibilità dell’autoritratto, infatti affida a Aniela Jaffè la stesura dei suoi Ricordi, sogni, riflessioni. Non c’è verità o bugia, rimane il mito personale che oscilla in modo ambiguo tra singolare e universale.
A Copenhagen Carl Gustav Jung era già stato. Per quel che se ne sa, era arrivato, nell’ottobre del 1937, per partecipare alla nona conferenza della Società Medica Internazionale di Psicoterapia Generale. Era in viaggio per gli Stati Uniti, per una conferenza a Yale dedicata a una serie di sogni del fisico Pauli. Pauli lo aveva contattato nel 1932, un anno incredibile e tremendo per gli scienziati raccolti nella capitale danese intorno a Niels Bohr – le loro scoperte preludevano alla bomba atomica. Tra Pauli e Jung nasce un’amicizia emotiva, intellettuale e neuronale, come l’ha definita Beverley Zabriskie (analista di New York) nel suo interessantissimo intervento: avevano scoperto qualcosa di invisibile e diversamente pericoloso come il neutrino e l’archetipo.
La ricerca di un parallelismo tra fisica e psicoanalisi porta all’idea di sincronicità, contemporaneità di due eventi senza un nesso causale. In una delle sue visioni oniriche, ha raccontato Suzanne Gieser (studiosa di storia della scienza di Uppsala), Pauli sogna che Bohr gli sta spiegando la differenza tra la lettera u e la lettera w, il che ha anche a che fare con la differenza tra danese e inglese. Per Pauli la lingua danese è razionale come il linguaggio della fisica, quella inglese parla come l’inconscio. Da u a w, di associazione in associazione, Pauli arriva a definire i sogni Windaugen, occhi di vento. Le lettere U, per il mondo spirituale, e W, per il mondo materiale, si ritrovano nell’opera di Hilma af Klint, (1862-1944), pittrice svedese la cui arte anticipa il linguaggio astratto e i cui quadri evocano spesso la forma del mandala. Nel padiglione centrale della Biennale di Venezia in corso alcune opere di Hilma af Klint sono vicine alle immagini del Libro Rosso di Jung: sincronicità?