Storia di una bambina albero
Ogni volta che da bambini ci ammalavamo di quelle febbri improvvise e inspiegabili, senza influenza né tosse né raffreddore, gli adulti ci dicevano che erano febbri della crescita, e il giorno dopo ci misuravano in piedi contro il muro, per vedere se quella febbre ci aveva portato uno o due centimetri in più.
La febbre che attraversa Ainoha, la bambina protagonista del bellissimo romanzo d’esordio di Yuliana Ortiz Ruano, scrittrice ecuadoriana che con Febbre di carnevale (Sur, traduzione di Marta Rota Nuñez) ha vinto la prima edizione del premio IESS romanzo d’esordio sudamericano, è altrettanto improvvisa e misteriosa e, come tutte le febbri bambine, la condurrà fuori dall’infanzia allo stesso ritmo indiavolato e incontrollabile del carnevale.
Ainhoa ha otto anni ed è una bambina-albero: lunga, secca e con una gran massa di capelli indomabili in cui sembra finire tutto quello che mangia e che sono la sua chioma orgogliosa, il legame ancestrale con le donne della sua famiglia, un pantheon ctonio di mami (mami Chela sua madre e mami Nela sua nonna) e tate con cui vive in una grande casa dove gli uomini, i papi, compaiono solo di rado, e spesso solo per portare guai.
Ainhoa è scura e frondosa, odora di resina e corteccia, non profuma come le mami perché lei è fatta di terra e frutti di mango e guaiava, è diversa dagli altri bambini: le piace leggere e inventare storie, che le servono a capire – e finire – ciò che gli adulti non dicono, le piace salire sull’albero di guaiava, come un Cosimo Piovasco di Rondò ecuadoriano, a osservare il mondo e raccontarlo, e talvolta da lassù fare la pipì in testa a chi non le va, ai bambini chiari di città che vogliono solo giocare a toccarsi mentre
Io non voglio che nessuno mi tocchi, voglio solo rimanere per sempre sull’albero di guaiava.
A differenza del protagonista di Il barone rampante, però, che tiene fede alla promessa fatta a suo padre di salire sull’albero e non scendere mai più e da lassù osserva e partecipa alle vicende del mondo, coinvolto nei sentimenti ma distante come una cinciallegra tra i rami, Ainoha dall’albero di guaiava è costretta a scendere, a mischiarsi con la terra, a essere bambina e diventare donna, a cercare un modo per sopravvivere all’altezza delle radici e non delle fronde. La sua prospettiva è mutevole come chi entra ed esce dalla vita e si bagna nelle sue miserie e nei suoi sfarzi, ma anche libera e innocente come solo una voce narrante bambina può essere, e allo stesso modo è poetica e carnascialesca, profondamente imbevuta del ritmo e del calore della sua terra.
La lingua di Ainoha si fa corporale, musicale, si ancora alla terra per raccontare quello che succede dentro di lei, per trovare un senso alle cose.
Sotto certi aspetti ricorda Useppe, il bambino protagonista di La Storia di Elsa Morante, che inventa una sua lingua pura e poetica con cui rinomina le cose, che parla alle piante e agli animali, che pensa incessantemente, sforzandosi di comprendere il mondo che si abbatte su di lui con violenza. Nel romanzo di Morante Useppe diventa così il simbolo del filtro poetico con cui attraversare la Storia anche quando la subiamo in tutta la sua ingiustizia, nel modo che hanno gli artisti e i ragazzini di mantenere il sogno oltre la portata del reale, inventando uno stratagemma per attraversare la vita.
Allo stesso modo anche Ainoha è poeta, la sua lingua è musica e nella musica, che attraversa tutto il libro e ne diventa colonna sonora, trova il rimedio per la vita.
Attraverso di lei il ritmo si fa personaggio a sua volta, rendendo la narrazione materica e restituendo al lettore un modo per raccontare l’orrore con profondissima leggerezza, a passo di salsa, imprescindibile termometro di un cambiamento che rimette al centro i corpi – così spesso abusati, usati, violati, giudicati – come soggetto politico e strumento di lotta.
Ainhoa è figlia di una madre che è un’acqua cheta che non sa ballare […] uno stagno d’acqua, che odora di marcio delizioso, ma che è bellissima e di un ubriacone, un non signore, non uomo, non marito, non papi. Un meraviglioso zoticone gonfio di whisky e cristalli marini, atterrato per sbaglio nel mondo dei papi che le insegna che ballare è ascoltare coi fianchi, gioia, tutto qui. Ainhoa impara a ballare a dicembre, durante un carnevale lunghissimo, e da allora ballare è il suo rimedio, il rito apotropaico che dissolve il dolore nell’allegria, in cui scopre che
ballare è un modo per curarsi. Un momento in cui dimentichi tutto e il corpo suda al punto da non essere più rachitico, allettato e scheletrico. In cui suda talmente che i mali scompaiono, ma soltanto per un po’, per questo bisogna ballare spesso, ogni sabato e ogni domenica.
Il carnevale però porta con sé un segreto, non è solo musica e festa, è il momento in cui le regole si sovvertono, in cui vale tutto, è una porta spalancata verso il delirio, la follia e l’eterna baldoria, è il momento in cui si torna corpo, interamente, drasticamente, è il modo in cui Ainhoa è costretta a crescere anche se non vuole.
Le sue mami le hanno insegnato molte cose, sugli uomini e sul corpo: durante il bagno quotidiano la sua mami Chelo le ha insegnato che la passerina è tua e di nessun altro. Nessuno può toccarla, solo io o le tate per lavarti. Se qualcuno ti tocca la passerina tu devi avvisarmi.
E da tata Rita, la smilza, la bambolina sexy che tutti desiderano, Ainoha ha imparato che gli uomini scrivono cose strane perché sono innamorati, bisogna sempre stare attente all’amore degli uomini, gioia, un uomo innamorato è capace di fare qualsiasi cosa, di scrivere follie senza senso, di urlare, minacciare, controllare… Dio non voglia, gioia, Dio non voglia che un uomo si innamori di te. E quando papi Chelo, suo nonno, torna ogni tanto dall’isola in cui vive con un’altra donna nella grande casa, Ainhoa capisce presto che l’amore degli uomini verso le proprie figlie è il più terribile, è quello a cui non si può sfuggire neanche se lo si vuole, perché l’amore terribile degli uomini, l’amore terribile di un padre per le proprie figlie torna sempre.
Ainhoa vorrebbe capire cosa accade intorno a lei e cosa muta nel suo corpo, ma è tutto così difficile: la crisi nel suo paese, l’immigrazione, le case da lasciare e quelle da costruire, la violenza che attraversa le strade nei giorni del carnevale, quella strana allegria rabbiosa, primordiale, sconveniente. A volte le cose nella testa le si mischiano come insalata, perdono i contorni e si disfano sulla terra. La lingua allora le viene in soccorso, la gioia della lettura e di una poesia imparata a memoria come le ha insegnato tata Antonia, la più bella e la più colta delle sue tate, quella che con la poesia tiene lontani gli uomini, e allora Ainoha con il linguaggio crea un mondo per supplire ai silenzi degli adulti, al loro non detto, per colmare i loro segreti. Vorrebbe dire quello che vede, ma ha una lingua lunga che dice troppo, racconta troppo, e raccontare è pericoloso per una ragazza, bisogna restare coi piedi per terra, sarebbe meglio seguire il consiglio di sua mami Chela, smettere di raccontare storie per provare a essere una bambina normale, tanto che a volte le viene il dubbio che crescere è non poter aprire bocca quando le cose ti fanno schifo.
Il carnevale per lei, nei suoi otto anni, significa imparare a sfuggire all’amore terribile degli uomini, come ogni donna prova a fare, significa dimenticare quel Diavolo che batte nel corpo senza sosta, la rabbia di ciò che è accaduto senza comprenderlo, perché Se non dimentico, non cresco.
Ainhoa sa che le donne si creano un mondo lontano dagli uomini, un microcosmo di solidarietà e protezione, ma quando gli uomini tornano, e tornano quando vogliono e come vogliono, tutto cambia: la loro indipendenza svanisce e così anche la libertà di essere quello che sono, di vestirsi come vogliono, di ballare per casa e sussurrarsi segreti mentre intrecciano i loro lunghi capelli. Diventano ciò che gli uomini desiderano, e mutano e li accontentano e chiudono gli occhi, accettano ciò che non riescono a cambiare invece di cambiare ciò che non possono accettare.
E mentre sale la febbre e il corpo cambia contro la sua volontà, ad Ainoha non resta che pregare, anche se è strano per lei invocare un Dio maschio in un mondo generato, curato e portato avanti dalle donne. Ainoha canta una preghiera a un Dio maschio perché si prenda cura della sua sorellina, la sua tatina, in un passaggio di consegne matrilineare che le donne si sussurrano da sempre per resistere, una preghiera disperata perché la tenga al sicuro dai ragazzi del quartiere. Veglia su di lei perché nessuno le dica che bel culo che ha quando dovrà uscire per strada senza di me.
Per sé stessa la piccola Ainhoa, la secca, la selvatica, la bambina strana dai troppi capelli, non trova che un rimedio per arrestare quella mente che a volte si fa gelatina e le cola dal naso, essere lasciata in pace, fermare la febbre il diavolo in corpo la musica e il carnevale, smettere di sapere in fondo alle viscere e di crescere:
Non voglio curve nel mio corpo, preferisco pensare all’urgenza martellante di trasformarmi nel mio albero di guaiava o nell’albero di inga di Remberto, di crescere tranquilla, protesa verso la profondità del sole, senza che nessuno mi rovini l’esistenza.
Farsi Dafne, per fuggire l’amore di tutti gli Apollo del mondo.