Carla Cerati a Brescia / Forma di donna: storia di un libro e di un corpo

27 Giugno 2019

Alla Galleria dell’Incisione a Brescia si possono vedere circa venti delle fotografie che compongono “Forma di donna”, il libro che Carla Cerati pubblica nel 1978. Il tronco dai seni candidi e prosperosi, le cosce lunghe e rigonfie, la schiena arcuata, il busto rovesciato all’indietro con le braccia tese dietro la testa, la curva del ventre leggermente tondeggiante, un ciuffo di peli pubici sono le forme di un corpo a cui la Cerati decide di dedicare un libro. Dieci anni prima, la fotografa aveva realizzato con Gianni Berengo Gardin un libro destinato ad avere un enorme impatto tanto nella società, quanto nella storia della fotografia: “Morire di classe”, un’inchiesta sui manicomi in Italia e nel 1974, con “Mondo Cocktail”, smaschera il vuoto in cui sono immerse le élites milanesi, divise fra eventi mondani e stravaganze.

Eppure non è stato facile giungere alla composizione di “Forma di donna”. Se per i reportages commissionati dai giornali il mondo entra facilmente nel suo obiettivo, per questo libro il processo creativo è più sofferto. “Non amo spiegare, e forse non ne sono neppure capace, i motivi che mi spingono a un lavoro creativo, il suo nascere dentro di me come idea, il maturarsi e crescere fino a cessare di essere semplice progetto; i tentativi di trasformarlo in risultato tangibile, i successivi passaggi fino a quel qualcosa che mi fa dire “ecco, questo è ciò che più si avvicina alla percezione iniziale” ”, racconta la fotografa, fra le pagine del libro. 

 

 

La prima volta ci prova nel 1960: un’amica accetta di farsi fotografare, ma le immagini le paiono piatte, timide, prive di un’idea precisa. “Tutto ciò che avevo visto in quel corpo era svanito, sommerso dalla mia incapacità ad andare oltre, a cercare, a trasfigurare, a inventare”. Ci prova di nuovo. L’occasione si presenta nel 1972, quando un amico pittore, Anselmo Francesconi, le chiede di realizzare delle foto di nudo che avrebbe poi ritagliato e inserito in quadri-collage. Insieme cercano degli esempi a cui ispirarsi.

Come è possibile trovare la forma perfetta di un corpo? Cosa significa davvero coglierne la forma? La risposta giunge all’improvviso: i nudi di Bill Brandt, quei corpi dalle membra smisuratamente lunghe, le cui rotondità assumono una loro autonomia organica, così vicini alle sculture di Hans Arp e Henry Moore, sono un buon punto di partenza. Per pura coincidenza, scrive la Cerati fra le pagine del libro, “avevo capito da tempo che da lì volevo partire”. 

 

Anche questa volta chiede a un’amica. Il corpo dalla pelle chiarissima è perfetto. Le forme non lasciano dubbi: sembrano fatte per essere manipolate. La fotografa si sente pronta. Con sollievo capisce di essersi finalmente impadronita di un lavoro: ha imparato a usare le luci in studio, i diversi obiettivi, i flash, la scenografia. Farà interagire il corpo della modella con le poltrone componibili disegnate da Matta. Ma è davvero tutto qui? Cosa è successo nei dodici anni che la separano dal primo tentativo? 

Il mondo intorno a lei sta cambiando (la legge sul divorzio è del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sull’aborto del 1978), e l’arte ne riflette i cambiamenti. Dipinti, collages, fotografie, ricami, scritture, realizzati da moltissime artiste, finalmente raccontano di un intimo e stretto confronto con il proprio corpo e la sua forma, una scoperta nuovissima ed eccitante, che Lucia Marcucci, protagonista del Gruppo 70, riassume provocatoriamente in uno dei suoi poster: “fare tutti i tentativi possibili per ricondurre a normalità / fare i conti con la realtà / NON C’ È ALTRA SCELTA / non si può perdere tempo / IL DESTINO È NELLE VOSTRE MANI”. E le possibilità sono davvero infinite: le immagini del parto di Lisetta Carmi del 1968, quelle dell’“L’invenzione femminile” di Marcella Campagnano del 1974, le foto che Paola Agosti scatta alla Casa delle donne di Roma nel 1976, quelle di “Sara è incinta/77”, del 1977, di Paola Mattioli.

 

 

Il lavoro di Carla Cerati è immerso in questa fitta rete di corrispondenze. Nei primi anni Settanta anche lei riflette sul suo ruolo di donna, madre e fotografa. “Imboccare, agitare, frullare, solarizzare”, si legge sui pannelli di “Donna professione fotografa”, conservati presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma (CSAC), in cui la protagonista è un’altra fotografa, Paola Mattioli, ripresa da Carla mentre è intenta ad accudire la figlia e a sviluppare le sue foto. Lo stesso intento la spinge a elaborare il “Percorso. Racconto in dieci stazioni della vita di una donna”, realizzato nel 1977 e messo in mostra all’Expo Arte di Bari nel 1980. È, ancora, la stessa tensione che sta alla base di un altro lavoro in cui la Cerati intervista e fotografa diverse donne che danno il nome ai vari pannelli: “Cristina suonatrice di viola”, “Antonietta collaboratrice familiare”, “Pamela attrice”. Le domande che rivolge loro sono ricorrenti: “Pensi che la maternità sia il momento più importante nella realizzazione di una donna?”, “Come pensi al tuo futuro?”, “Sei femminista?”.

 

“Forma di donna” è il lavoro in cui si possono trovare le risposte. Dopo aver esplorato l’universo femminile attorno a sé, giunge il momento di parlare di sé. Le foto, al loro primo apparire nel 1974, vengono percepite da certi settori intellettuali come formalistiche e pertanto, come ricorda Massimo Mussini nel catalogo della mostra del 2007 tenutasi al CSAC, “spregiativamente definite artistismo”, o come “un presunto sfregio all’identità femminile, causato dalla raffigurazione di corpi privi di teste”, nel giudizio del femminismo militante. Sono considerazioni effimere, destinate a vacillare sotto il peso del lavoro che Carla Cerati ha dedicato alle donne.

 

 

Ciò che si può osservare fra le pagine del suo libro non è solo la perfezione di un corpo, ma il movimento di uno sguardo su un corpo e attraverso di esso. Questo effetto scaturisce dal susseguirsi delle immagini in istanti successivi. Osservando le foto esposte a Brescia, si comprende che il corpo si appropria dello spazio: il fotogramma viene attraversato in diagonale, verticale, orizzontale, Viene colto sia nella sua quasi totalità, sia attraverso i dettagli: i seni, i fianchi, il pube, le natiche, come se l’idea di un tuttotondo tridimensionale proprio della scultura venisse direttamente riversata sulla superficie delle fotografie. La luce si sostituisce alla mano dell’artista, ma ha la medesima funzione: dare forma. Non si deve dimenticare che Carla Cerati avrebbe voluto fare la scultrice e che aveva superato l’esame di ammissione presso l’Accademia di Brera. 

Per questo la perfetta fusione tra forma e contenuto, dove il contenuto è la forma stessa di ciò che appare nell’immagine, cela un moto più profondo. “Vorrei andare oltre ciò che quel corpo esprime, ignorando la sua carica erotica che pure percepisco e amo”. La fotografia mostra il processo di generazione sotteso a quello sguardo: il corpo è nudo, esposto, scoperto, poiché creare un corpo significa generarlo. Il libro contiene anche alcune immagini della figlia Elena. La ragazza ha un corpo magro, scuro, ricoperto di gocce d’acqua, come se fosse appena venuto al mondo. Per la Cerati non è stato facile fotografarlo: “avrei voluto lavorare a modo mio, con calma: ancora una volta muovere un corpo seguendo un’idea, cercando il centro di interesse dentro quella luce dura e tagliente. (…) Dovetti accontentarmi di poche immagini quasi rubate dove l’idea è in embrione”. 

 

 

In questo slittamento, dall’amica che nasce dal suo sguardo, alla figlia che nasce dal suo corpo, slitta anche il senso legato al gesto del creare. Carla Cerati non pone l’accento sull’idea di produzione, ma su quella della generazione, additando il conflitto che attanaglia tutte: essere donna o madre? Ambire alla perfezione di un corpo ideale o sottostare, generando, alla naturale imperfezione di un corpo reale? Non è un caso che il libro sia dedicato a Elena. Forse generare significa anche creare una genealogia di donne. In questo modo l’artista esorcizza quello che sosteneva Susan Sontag, ovvero che fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa e stabilire con esse una relazione di potere, poiché queste immagini si generano non tanto o non solo dall’osservazione, ma dalla relazione. Tuttavia se la maternità è anche matrice dell’apparire, nel senso di nascere e divenire visibile agli altri e a se stessi, cosa evocano questi corpi? “Miravo alla perfezione come punto massimo di non-corporeità, di astrazione dal corpo-soggetto per trasformarlo in corpo-oggetto soltanto per me; per impedire che diventasse oggetto di consumo per gli altri. Analizzarlo, frammentarlo, eliminare il più possibile ogni relazione con la vita (…) privarlo del senso che fino a quel momento aveva avuto il nudo femminile”, scrive Carla Cerati alla fine del libro. 

 

 

Privare questo corpo della dimensione legata al puro consumo, significa restituire libertà al suo essere semplicemente un corpo. Il passo successivo è la libertà del movimento. I provini a contatto inseriti tra le pagine del libro esprimono esattamente non la consistenza della materia, ma la libertà con cui il corpo si muove, ricerca ed esperienza di attori sovversivi che in quegli anni animavano il Living Theatre o la Comuna Baires, oggetto di coeve e successive ricerche.

“Forme movimento colore” è uno di questi esiti. La protagonista delle immagini esposte nel 1989 è Valeria Magli, che Carla ritrae più volte negli anni Ottanta. Il corpo nudo e scattante è fotografato mentre salta, volteggia, compie passi di danza, tenendo in mano diversi lembi di stoffe, anch’essi in movimento (tre di queste immagini si possono vedere in mostra). “L’idea di queste fotografie mi è nata vedendo Valeria Magli, danzatrice e coreografa, ospite per una sera, entrare nella cabina doccia della mia casa al mare. Il corpo morbido e forte, chiaro, si stagliava sul nitore delle maioliche. Mi colpì il movimento, l’introdursi leggero, bianco su bianco”, racconta Carla Cerati. 

 

 

Lo stesso accade per le immagini della mostra “Momenti di essere”, del 2015, in cui si vede una figura femminile che cammina, corre, sosta, dinnanzi a un edificio in città. Il movimento e la forma sono insiti nella natura del soggetto, sono la sua materia, la libertà di “essere”. Forse è utopico. Essere liberi da chi ti genera come dalla tradizione è impossibile? La madre-donna-fotografa che genera e lascia libero di esistere ciò che rappresenta, consente un distacco dal proprio archetipo? 

Difficile rispondere. Tuttavia essere liberi non è solo un’esigenza che riguarda strettamente la vicenda biografica di Carla, divisa fra i ruoli di madre, donna e fotografa, ma è un bisogno anteriore alla sua volontà (e anche alla nostra), è il diritto di cui essa si fa portatrice, addirittura prima di ogni sua decisione di esserlo. Questo ci insegnano le sue immagini. Il corpo è solo uno dei mezzi per mostrarlo. 

 

Mostra: Carla Cerati. Forma di donna. Galleria dell’Incisione di Brescia fino al 21 luglio 2019. Immagini: credits Carla Cerati; courtesy Elena Ceratti.

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