La voce del Corvo / Francesco Leonetti o del pozzo stretto

19 Dicembre 2017

Com’è possibile dimenticare la voce del corvo in Uccellacci e uccellini di Pasolini, quella parlata dall’inflessione meridionale e insieme bolognese, petulante e vagamente fastidiosa? Francesco Leonetti è la voce del corvo marxista, e lo è stata per tutti gli anni a seguire il film del poeta, tanto che dovendo intitolare nel 2001 la sua autobiografia, aveva scelto il riferimento a Pasolini. Pasolini e Vittorini sono state le figure maschili centrali della vita attiva di Leonetti, nato nel 1924 a Cosenza (scomparso il 17 dicembre a Milano, a novantatré anni), a sua volta indispensabile spalla dei due letterati in alcune imprese editoriali che hanno lasciato un durevole segno nella letteratura italiana del dopoguerra: “Officina”, a Bologna tra il 1955 e il 1959, e “il Menabò”, a Milano, per cui, alla fine degli anni Cinquanta, Leonetti iniziò a preparare un supplemento europeo mai nato, di cui avrebero dovuto essere redattori Blanchot, Mascolo, Bachmann, Enzensberger, Uwe Johnson, e altri scrittori tra Francia, Germania e Italia, intitolato Gulliver (una raccolta dei materiali inediti è uscito in “Riga” edito da Marcos y Marcos nel 2003 a cura di Anna Panicali).

 

 

Ma ridurre l’attività di Leonetti alle riviste che ha prodotto (ad esempio “Alfabeta”, negli anni Ottanta con Corti, Balestrini, Eco) è fargli un vero torto. Oltre che poeta, scrittore (Fumo, fuoco e dispetto, del 1956, è un Gettone di Vittorini) è stato agitatore, insegnante (di estetica a Brera), militante politico, teorico e pratico di quasi tutti i movimenti estremisti che si sono succeduti a partire dal Sessantotto in Italia, dai marxisti-leninisti di “Servire il popolo” di Aldo Brandirali, all’Autonomia operaia di Toni Negri. Leonetti, per ragioni fisiche prima ancora che morali, è un trickster, un personaggio che sembra appartenere a un mondo interstiziale, situato nell’intercapedine che separa gli uomini dagli umani. Solo così si riescono a spiegare le sue infaticabili attività, le energie quasi inesauribili, il fuoco sacro che sembra ardergli dentro, un fuoco che lanciava fiammate improvvise e aveva fatto guizzare in assemblee, riunioni, consigli editoriali, semplici incontri tra amici. Espressivo Leonetti lo è stato non solo nella sua scrittura, elaborata e insieme ingenua, manierata e insieme diretta, ma anche e soprattutto nella vita, una vita di passioni e conoscenze, spesso con errori, di campi di battaglia, per usare titoli di suoi volumi, in cui la voce del corvo marxiano ha urlato slogan, protestato, proclamato verità, declamato versi, sempre alla ricerca di quell’impossibile punto di equilibrio tra letteratura e politica che è stata la sua ossessione a partire dalla metà degli anni Cinquanta.

 

Leonetti è stato la coscienza inquieta della sinistra letteraria italiana, quella più sovversiva e indisciplinata, quella votata, con piena consapevolezza e spesso con allegria, al fallimento politico. Eppure, in mezzo a tanti passaggi anche tortuosi della storia italiana degli ultimi quarant’anni, il folletto-Leonetti è riuscito sempre a far valere le ragioni della sua passione, restando, come dice il titolo di un altro suo libro, sospeso tra saggismo e narrazione, irato e sereno. L’ultima autobiografia uscita, La voce del corvo. Una vita (1940-2001) da Derive Approdi, che fa seguito a La vita e gli amici (In pezzi) (Manni 1992), era un libro che trasmetteva il senso di quella inesausta voglia di discutere continuamente di tutto e di tutti, di ripensare a se stesso in termini non nostalgici ma vitali, se non addirittura vitalistici (si leggano le pagine dai risvolti sentimentali e sessuali, per esempio). L’energia prorompe dalle pagine della Voce del corvo, e insieme traspare l’incredibile ingenuità del militante, della vita, prima ancora che della cultura o della politica. Così in definitiva ci appare: candido e nativo, anche quando si è sforzato di essere malizioso e duro. 

 

Pasolini, che l’aveva molto caro, e con cui sovente discuteva in modo anche brusco, in una memorabile lettera del 1958 gli scriveva riguardo l’ambiente letterario in cui Leonetti si muoveva: “Mi sembra che il tuo vivere e operare e rigirarti sempre nello stesso meschino ambiente letterario, ti abbia dato proporzioni straordinariamente profonde, ma anche meschine. Un pozzo profondo ma stretto. La materia che ci passa va fino in cuore alla terra ma è poca, forzatamente filtrata. Non si può leggere un libro di poesia, ormai, da parte nostra, “ambientandolo” nel meschino giro d’orizzonte di una situazione letteraria. Se tu facessi un viaggio, o cambiassi professione, ti accorgeresti come tutto questo non conta. Oppure conta, certo, ma su tutt’altra scala di valori” (gennaio 1958, pubblicata in Pasolini, Lettere 1955-1975). La definizione di “pozzo profondo ma stretto” è perfetta per Leonetti, detta dal suo amico con il massimo di affetto. In questa lettera Pasolini metteva a fuoco la sua diversità non solo rispetto a Leonetti, ma da tutto l’ambiente letterario dell’epoca – l’ambiente letterario in generale. Quanto è cambiata la letteratura in questi sessant’anni?, viene da chiedersi. Leonetti è rimasto un personaggio liminare, a metà tra quel mondo cui pure apparteneva – letteratura e poi letteratura/politica – e quello rappresentato invece da Pasolini, che è stato un modo di essere unico e straordinario, inimitabile. Andare “in cuore alla terra”, non è da tutti. Seppur stretto, benché profondo, il pozzo-Leonetti ci ha provato, e a suo modo ci è riuscito. 

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