Giacomo Verde, l’eresia dell’artivismo
Quale miglior modo di mettere in mostra l’archivio dei 40 anni d’arte/i di Giacomo Verde (1956-2020) che non quello di trasformare gli spazi di un Museo in un vero e proprio “teatro vagante”? Verde e il suo ‘eretico’ vagabondare tra i linguaggi –videoarte, installazioni digitali, net art e teatro – approda al Museo d’arte contemporanea della Spezia CAMeC (giugno 2022-gennaio 2023); Liberare arte da artisti a lui dedicata, è una mostra atipica, sghemba, irriverente, collettiva e connettiva, ingombrante e giocosa, come lo era l’artista napoletano-empolese. Vuole spaesare anziché riordinare: dissemina tracce di una vita artistica inquieta, affollata, sempre in movimento. La mostra rende un omaggio postumo a un artista che la storia dell’arte ufficiale ha ignorato o travisato: infatti il suo nome, emblema assoluto in Italia dell’attivismo artistico, clamorosamente, non compare nel recente volume Artivismo di Vincenzo Trione. Liberare arte da artisti è stata concepita come un organismo vivente, con tre re-opening tematici corrispondenti alle tre anime di Verde: Artivismo, Arte digitale, Teatro. È stato rappresentato anche l’ultimo periodo di vita di Verde, collegato con l’Officina Dadabum di Viareggio, impegnata in attività sociali, politiche e artistiche: all’inaugurazione alcuni membri del collettivo hanno realizzato un’azione attivista assai controversa, dedicata alla demilitarizzazione della città della Spezia.
Il rodato format radio Walkabout di Carlo Infante, ridisegnato apposta per la mostra, restituisce a pieno il valore all’opera dell’artista, andando alla scoperta delle scatole della memoria, ricche di fotografie, dépliant, annotazioni; rompendo schemi, Infante parla sia del Verde saltimbanco che del videomaker che aveva rinnegato la videoarte, dell’artista che aveva plasmato sculture-installazioni con apparecchiature domestiche, e insegnato ai bambini a rompere le tv. Infante, dopo aver ricordato la presenza di Verde al Festival POW di Narni da lui ideato e diretto, ha invitato il regista Dario Marconcini a parlare del periodo della formazione di Verde attore al Centro di ricerca teatrale di Pontedera nei primi anni Ottanta, in occasione del progetto L’eresia del teatro, quando Giacomo condivideva le lezioni di Marisa Fabbri, Jerzy Stuhr, Richard Cieslak, Maurizio Buscarino, Ingmar Lindh con Marco Paolini.
Massimo Marino ha ricordato invece il periodo di collaborazione con le Albe, rievocato dalla fotografia di Lunga vita all’albero che vede Verde nella veste d’attore-pastore. E poi il Santarcangelo di Antonio Attisani che ospita il primo Teleracconto, ovvero l’invenzione folle e fortunatissima di un microteatro fatto con la tv: sarà Giallo Mare Minimal Teatro – ovvero Renzo Boldrini e Vania Pucci – il promotore di quello strano (video)teatro che cambiava la percezione della tecnologia e del mondo. Se nelle teche troviamo proprio i kit utilizzati da Verde nel 1989 per la fiaba di Hänsel e Gretel, Carlo Presotto con Paola Rossi del teatro La Piccionaia di Vicenza ce ne danno un assaggio live.
Basta documentazione! Il museo diventa teatro!
E così la guerra nella ex Jugoslavia prende nuovamente forma nel teleracconto E fu così che la guerra finì (1996) con schegge appuntite di bicchieri, schede di pc e fiori rossi messi sotto la lente della telecamera: il racconto di Presotto e la musica di Bregovic aiutano a farci immaginare quel dramma e quei paesaggi devastati solo con pochi oggetti taglienti. È davvero incredibile come a distanza di molti anni da quel fine millennio quel racconto fatto con immagini create dal vivo sia ancora così forte, toccante. Il nostro passare indifferente coi dispositivi mobili, da immagini di guerra a futili istantanee del mondo, ci ha reso anestetizzati: è il teatro a rianimarci, ora come allora. Carlo Presotto e Paola Rossi hanno fatto del teleracconto una parte fondamentale del loro lavoro sul palcoscenico, della loro estetica, arricchendolo e variandolo con sempre nuove tecnologie, ma rimanendo saldi all’idea che non bisogna soffermarsi sullo strumento ma sull’immaginazione che da questo può scaturire.
Che il teleracconto fosse anche un “discorso politico”, Verde lo aveva affermato in varie occasioni, ricordando che “La televisione non esiste, sono solo figurine”, ovvero che le immagini della televisione sono create da chi vuole imporre per noi, un punto di vista sul mondo. Bisogna imparare a “mettere mano a quelle immagini”: usare la tecnologia per cambiare l’immaginario, per cambiare il mondo.
Anche la Banda Magnetica fondata da Verde con Frank Nemola e Flavio Bertozzi, che scatenava folli e adrenaliniche performance musicali ed elettroniche nelle strade, ha diritto di cittadinanza nella mostra: appartiene alla storia quell’iconica tuta grigia da Ghostbuster indossata dal gruppo con gli amplificatori in spalla come zainetti, così come il vinile rosso di Document’azione 86-87: anche in questo caso la telefonata in diretta di Infante a Frank Nemola oggi trombettista di Vasco Rossi, scatena il ricordo di un periodo davvero esplosivo. Sempre ai margini del sistema dell’arte, Giacomo errava vagabondando tra i media e tra i linguaggi, frantumandoli, ricombinandoli insieme, mai esaltandosi di fronte all’ultima tecnologia sul mercato: nel suo ultimo testo del 2020 (pubblicato su Leggere uno spettacolo multimediale) scriveva rammaricato che i nuovi computer non hanno più certe funzionalità, ed era diventato impossibile per lui utilizzarli per i suoi videofondali ricchi di manualità: gli automatismi del mezzo hanno rimpiazzato e definitivamente cancellato ogni creatività. Oggi gli effetti creati da Verde per realizzare il suo video Fine fine millennio nel 1987 con una vecchia telecamera con titolatrice stanno dentro la library di qualche App del cellulare, ma quell’opera iconica è in grado di attraversare il tempo, a differenza degli snapchat di qualche tiktoker.
Nelle tre sale al piano terra del Museo troviamo tv rotte dall’artista nei primissimi anni Ottanta, il famoso video-loop con la telecamera Sony rimessa in funzione per l’occasione con cui far giocare il pubblico, e vecchi televisori a tubo catodico sventrati dell’involucro e riempiti di muschio per un’improbabile Col.Tv.Azione.
Siamo investiti dall’energia di quell’ormai lontano mondo tecnomilitante e di quell’arte mediattivista che ha tentato di scavalcare domini, economie e culture negli anni Novanta e Duemila, creando pratiche artiviste dal basso e firmando manifesti a cui Verde credeva profondamente, facendosi portavoce di slogan hacker che erano il suo lasciapassare per il mondo: tutta la tecnologia al popolo, condividere saperi tecnologici. Che la lotta era a far vincere le idee e non le tecnologie era chiaro a quegli artisti artivisti che avevano creato addirittura la prima televisione interattiva dentro un centro sociale a Milano e poi al Festival di Santarcangelo.
Il progetto Piazza virtuale, firmato da Van Gogh Tv e da Giacomo Verde, è destinato a rimanere nella storia, una storia fatta di fanzine, di cultura underground e cyberpunk, di hacking. Stava esplodendo il fenomeno delle realtà virtuali e Internet era ancora una promessa in via di attuazione: suo, e di uno sparuto gruppo di tecnoartisti visionari come Paolo Rosa e Michele Sambin, il merito di un’instancabile ricerca sul piano delle potenzialità espressive di ogni nuovo media, a testimoniare che c’è sempre una quarta parete da squarciare e un teatro da inventare.
Può sembrare paradossale la presenza di Verde, l’artivista che ha sempre rifiutato modelli culturali istituzionali, in un Museo cittadino, ma proprio il testamento dell’artista ha legittimato i curatori a questa operazione espositiva pubblica. L’archivio non doveva diventare archeologia ma materia viva, da vedere e toccare, da usare e riciclare, da distribuire agli amici o al limite da distruggere: “I libri, le riviste, le foto, i miei scritti, decidete voi se creare un fondo per qualche istituzione (…) se pubblicare i diari oppure eliminare tutto. Ma senza sbattervi troppo. Se vien facile bene altrimenti lasciate perdere”.
Non abbiamo “lasciato perdere”, e dopo un primo restauro e una complessa digitalizzazione, quasi tutto il materiale video è oggi a disposizione sulla piattaforma YouTube dell’artista, mentre è stato pubblicato, a cura di Dalila D’Amico, Anna Monteverdi e Vincenzo Sansone, il primo volume in open access dei suoi Disegni per videoteatro e videoinstallazioni 1986-1992 (Milano University Press). Di questo lavoro collettivo di inventario c’è ampia traccia nella mostra dove i primi video di Verde (e relativi disegni, allestiti da Andreina Di Brino) dialogano perfettamente con un vero televisore firmato “Paik” (Tv candle) di proprietà del Museo CAMeC; e inoltre tutti i suoi video on line o su drive hanno ‘alimentato’ un algoritmo che sceglie per i visitatori, la sequenza di proiezione. Questo, insieme alla scelta di ospitare omaggi di artisti e giovani studenti di Accademia (Guido Segni, Massimo Cittadini; Lorenzo Antei e Elisa Squarciapino), è un esempio del re-enactment messo in atto dai curatori per sfuggire alla “trappola dell’archeologia”.
All’inaugurazione della sezione Teatro, il Museo ha ospitato una tavola rotonda aperta e coordinata dalla giornalista Simona Frigerio, con amici artisti e curatori. Oltre ai già citati Massimo Marino, Dario Marconcini e Carlo Presotto, erano presenti Alessandra Moretti per Aldes che ha ricordato l’impegno suo e di Roberto Castello per produrre gli ultimi spettacoli di Verde, tra cui il commuovente Piccolo diario dei malanni, e Angela Fumarola, direttrice artistica di Armunia, presente a Castiglioncello all’epoca delle Giornate di Etica e tecnologia volute da Massimo Paganelli quando venne presentato Storie mandaliche, il primo ipertesto drammaturgico italiano ideato come scrittura da Andrea Balzola e che ha visto l’approdo come tecnonarratore di Giacomo Verde. Il 13 gennaio la mostra chiuderà con un finissage significativo: la proiezione integrale del Piccolo diario dei malanni.