Gilles Clément, L’Alternativa ambiente

22 Dicembre 2015

Abbiamo a lungo vissuto credendoci esseri fragili e inermi di fronte alla potenza delle forze naturali. Ed eccoci ora sempre più consapevoli del ribaltamento dei ruoli: l’attributo della finitudine, che credevamo esclusiva pertinenza della condizione umana, lo riconosciamo adesso alla Natura stessa. L’umanità, ha scritto Michel Serres, ha assunto le proprietà di Dio, si è fatta totipotente e universale, ma non ancora misericordiosa, e governa dispoticamente il Pianeta Terra, ormai ridotto a terreno di sfruttamento e discarica globalizzata. La fragilità degli ecosistemi chiama ad una responsabilità nuova sotto il Sole: farsi garanti della vita sul pianeta. E mentre i potenti del mondo ne discutono a Parigi, cercando di rimediare ai danni delle Lobby che li hanno insediati, agli uomini di buona volontà restano possibili altri percorsi di custodia della Terra, o di quello che il paesaggista francese, ingegnere agronomo e botanico Gilles Clément (1943) chiama il Giardino planetario.

 

Clément aveva esposto nel Manifesto del terzo paesaggio (Quodlibet 2003) i principi che presiedono alle sue realizzazioni: il Parc André Citroën e il Parc di Quai Branly a Parigi, i giardini ultramoderni della Grande Arche alla Défense e André Matisse a Lille, in Italia il Parco vivente di Torino. Il termine “Terzo paesaggio” si ispirava al proclama di Sieyès nel 1789: “Cos’è il Terzo Stato? Tutto. Cosa ha fatto finora? Niente. Cosa aspira a diventare? Qualcosa”. Terzo paesaggio sono tutti quei luoghi – parchi, grandi aree disabitate, spazi industriali abbandonati, anfratti quasi invisibili dove crescono rovi e sterpaglie – accomunati dall’assenza di ogni attività umana. Frammenti di paesaggio che racchiudono biodiversità, rifugio per molte specie animali e vegetali, luoghi o non luoghi ai margini delle strade, dei campi, come le “erbacce” ai bordi delle ferrovie, che sembrano esprimere la voglia della natura di riprendersi quanto un tempo era suo. Una natura zombie, in cui i cittadini di oggi vedono solo abbandono e pericolo, ma anche revenant di quella Wilderness, di quegli ambienti selvaggi che attraevano i preservazionisti del Nord-America, da Thoreau ad Aldo Leopold. Luoghi di soglia e dell’incertezza, al crocevia degli assi di comunicazione e di passaggio, essi non appartengono né alla luce dei campi arati né all’ombra della boscaglia: ma in essi, “terzo incluso” dove si producono mescolanze e ibridazioni, sopravvivono le specie scacciate dai diserbanti, “parassiti” indesiderati che un parassita più potente, l’uomo, ha tolto di mezzo per tracciare confini di proprietà e fare pulizia (il francese usa lo stesso aggettivo, propre, per indicare quel che è proprio e quel che è pulito). Luoghi improduttivi rispetto ai criteri dell’immediata efficienza delle nostre economie e alle gestioni patrimoniali del territorio, ma in realtà per Clément “spazio del futuro”, riserva genetica del pianeta, in cui si mantiene la biodiversità che condiziona l’avvenire dei viventi.

 

Questi luoghi indecisi, ai bordi delle strade e delle coltivazioni, sono il giardino in movimento (titolo del complemento del Manifesto, edito sempre da Quodlibet nel 2011), libero dalle forme imposte dall’uomo, dall’uniforme monotonia del prato all’inglese. Se quest’ultimo esprime il monoteismo del locale invasivo che si è fatto globale, il “politeismo vegetale” del giardino in movimento riscopre il senso etimologico dello spirito neo-pagano: pagus, la porzione di terreno, sacra alle divinità del luogo. Qui le erbe trasportate dal vento e gli scavi delle talpe producono opere imprevedibili di land art. L’imperativo di Clément è accogliere e non scacciare: altro modo di formulare il principio della saggezza stoica e di Montaigne, “lasciamo fare un po’ alla natura”. Ed anche dell’antica saggezza taoista, ispirata al principio del dell’azione minima: forma di rispetto nei confronti dei tempi e dei modi di crescita delle entità che compongono il complesso mosaico della biodiversità, non per sfruttarle ma per lasciarle fruttare. È scritto nel Mencio: “Non bisogna tirare i germogli per farli spuntare, bisogna limitarsi a sarchiare in attesa della crescita delle piante”, ma forse Clément rinuncerebbe anche a sarchiare.

 

La nuova tappa della riflessione di Clément, L’Alternativa ambiente, ribadisce il principio per cui, nel Giardino planetario in cui siamo ospitati, bisogna fare il meno possibile contro, e il più possibile con. Farsi garanti dello spazio chiuso e recintato che è ormai la vita sul pianeta impone un nuovo giardiniere; istruito dalla scienza sovversiva dell’ecologia, e consapevole che tutti gli ambienti si fanno sempre più sterili e improduttivi, egli sa che l’ecologia stessa, non più ridicolizzata o giudicata passatempo di minoranze settarie, subisce l’ultimo assalto da parte dei suoi detrattori. Il modo migliore per farla sparire è infatti diventato recuperarla, cioè assimilarla al sistema produttivistico, nella certezza che esso soltanto possa risolvere i problemi dell’umanità. Tutto ormai si fa in nome dello sviluppo, sostenibile sì, ma pur sempre sviluppo; lo ha dimostrato il summit di Kyoto, dove si è deciso che le industrie potevano continuare a distruggere comprando diritti d’inquinamento quotati in Borsa. Una tassa pensata per limitare la deriva verso il disastro si è trasformata in un affare per gli speculatori della finanza.

 

Le tante piccole azioni di segno ambientalista – isolamento delle abitazioni, raccolta differenziata dei rifiuti, risparmio dell’acqua, ecc., le buone virtù richieste ai passeggeri della Terra – sono il pegno da pagare per consentire che proseguano le grandi opere d’inquinamento, dallo sviluppo autostradale alla coltivazione estensiva di agrocarburanti e alla diffusione di fertilizzanti. L’ecologia viene asservita alla logica del mercato, al criterio quantificante del redditizio, nell’illusione che essa possa convivere con la logica della finanza. Del resto, che cos’è, chiede Clément, il Green Business se non un avatar del diktat del denaro, come testimonia la seduzione crescente dei prodotti che si dicono Bio? Risuonano accenti che erano all’origine della teoria preservazionista di John Muir (fondatore del Sierra Club e difensore dei parchi nazionali negli Stati Uniti), in polemica con i “devoti del rovinoso commercialismo… che invece di alzare gli occhi al Dio delle montagne, li alzano verso il Dollaro Onnipotente”.

 

L’Alternativa ambiente propone una sorta di terza via fra l’ecologismo sedotto e corrotto dal mercato e la deep ecology. Va emergendo una coscienza planetaria, una solidarietà obbligata in cui il nemico non è quello che sconvolge le frontiere convenzionali imposte dalle nazioni al pianeta, ma l’umanità intera che ne minaccia la sopravvivenza. Senza aderire in toto alla decrescita, senza attendersi la salvezza dalle scelte dei politici, l’Alternativa ambiente si affida ai buoni “giardinieri” che stanno saggiando nuovi modi di vita, percorsi in territori sconosciuti, micro-governi locali senza gerarchie. In una sorta di versione rivisitata del principio rizomatico deleuziano, Clément pensa a un’economia non globalizzata che opera in modo atomizzato sul territorio, e fornisce soluzioni immediate di cui esperire il valore concreto. Ad esempio, le associazioni che in Francia conservano l’agricoltura contadina, lavorando a kilometro zero, con una produzione, in armonia con le stagioni, di alimenti diversificati, di buona qualità e non dannosi per la salute. Insomma, il progetto politico (ma si tratta di un progetto che resta irriducibile ad ogni pianificazione) punta a promuovere nuovi valori, “misurabili” in termini di qualità: degli alimenti, dell’aria e dei suoli, dei servizi pubblici, della condivisione dei beni. Progetto politico che forse deve attendere che la crisi giunga al suo culmine, che lo stato poliziesco retto dalla paura compia il suo ciclo perverso di estensione della sorveglianza, perché si possa poi riprendere il progetto sociale: “far avanzare l’umanità nella comprensione di se stessa in seno al vivente e, così facendo, tentare di migliorarne le condizioni”.

 

In Clément si rinnova il vecchio principio di agire localmente e pensare globalmente. Il cambiamento da lui auspicato non è affidato alla tecnica, bensì all’accoglimento di un nuovo paradigma teorico che ridefinisca il posto dell’uomo nel cosmo. Invece dell’atteggiamento della civiltà moderna, per la quale l’ambiente è ciò che sta al di fuori, a distanza dall’umano, occorre pensare invece il paesaggio come ciò in cui siamo immersi, insieme a tutti gli altri viventi: non si tratta più di porsi al centro o al di sopra, di fronte o contro una natura selvaggia da addomesticare, ma dentro e con. Per ora dobbiamo puntare a una Resistenza, ritiene Clément, legittimata dalla coscienza planetaria che si va diffondendo, sperimentando nuove politiche del territorio e della società, ispirate al dialogo con la natura e ad uno slittamento d’interesse che ridefinisca i valori: la Felicità interna lorda sostituisce il PIL, quel che è apprezzabile non ha prezzo e non è quotato in Borsa, come la qualità della vita, le risate e l’amicizia. E si tratta spesso di beni immateriali, non quantificabili, come la cultura, la riqualificazione degli ambienti, le condizioni di salute, il rispetto per la dignità degli altri…

 

Ritrovare i ritmi della natura significa apprendere dai sistemi viventi a produrre senza scarti, riciclando ogni residuo, in fondo un altro modo di “pensare come pensa una montagna” di Aldo Leopold, o del “pensare come pensa la natura” di Gregory Bateson. Uno dei disegni di Clèment, in appendice al suo libretto, mostra come tutto, nell’economia della natura, sia oggetto di riciclaggio permanente: le foglie cadute dall’albero, prodotte dall’energia solare, una volta tornate al suolo servono da nutrimento, da humus, all’ecosistema cui l’albero appartiene (il che non avviene per gli scarti nucleari). L’economia e la politica del nostro tempo funzionano su obiettivi a breve termine, vivono nella prospettiva del profitto immediato, ignorano la lunga durata su cui si edifica la natura (e la storia dotata di futuro). L’economia circolare dei viventi ignora la logica del consumo e dello spreco: ne deriva l’esigenza che l’uomo debba farsi simbiotico, in grado cioè di restituire all’ambiente la totalità dell’energia che gli sottrae. È lo stesso principio che Michel Serres promuoveva ne Il contratto naturale (1992): al comportamento del parassita, dell’ospite che prende senza nulla dare in cambio, dobbiamo sostituire una relazione con la natura di simbiosi e reciprocità.

 

 

 

Il libro: Gilles Clément, L’Alternativa ambiente, Quodlibet 2015, pp. 72, € 10,00.

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