Habitué
Il primo bar che incontro uscendo da casa, non è dietro l’angolo, piuttosto di là dal ponte che oltrepassa il naviglio pavese nel suo tratto periferico.
Ci prendo i biglietti del tram, i fiammiferi da cucina e un caffè frettolosamente, a volte imbuco una lettera nella cassetta della posta che c’è di fianco all’ingresso, raramente mi fermo. Gli habitué invece sono sempre lì e sanno stare seduti al bar. Conoscono il loro quartiere, i nomi degli altri avventori e quello che fanno; raccontano storie osservate dai tavolini che si affacciano sullo spettacolo della strada.
A Palermo, la mia famiglia aveva un bar conosciuto. Frequentato da una clientela tra il popolare e il borghese; immancabili gli habitué stavano lì a godersi la reciproca compagnia, chiacchere e sigarette e certamente qualcosa da bere. Li ho visti da che ero bambino finché sono diventato ragazzo, erano sempre presenti (per vocazione e bisogno) come parte dell’arredamento del bar. Credo ci fosse una forma di reciproca considerazione tra essi e i titolari del bar. Questi ultimi accettavano la loro presenza quotidiana, nel rispetto di un equilibrio tra il diritto di stare in luogo pubblico e il dover consumare; tra l’essere visibili e invisibili. L’habitué si colloca tra l’avventore e il cliente e in questo spazio bisogna saperci stare.
Mi ricordo i soprannomi di alcuni di questi signori: c’era lo Sceriffo di professione infermiere, il maestro Pupella di professione artista, il signor Catalano impiegato all’Enel gran viaggiatore e conoscitore del mondo e certi malandrini di cui non faccio i nomi.
P.S. Ringrazio i due signori che si sono lasciati fotografare, seduti in un bar della periferia milanese.