Sergio Luzzatto / I bambini di Moshe

19 Febbraio 2018

Secondo una leggenda il re David non sarebbe morto, ma solo addormentato in una caverna il cui ingresso è però segreto. Attende che qualcuno lo svegli per tornare sulla scena e salvare il Popolo eletto. Due ragazzi si mettono a cercare la grotta e dopo varie peripezie la trovano. Entrano e vedono re David sdraiato su un letto d’oro. Sono però abbacinati da tutte le cose che scorgono lì intorno. Il re allunga le braccia verso i due affinché gli versino l’acqua raccolta nei giardini dell’Eden contenuta in una bottiglia; questo potrebbe finalmente svegliarlo. I due imbambolati da quello che hanno visto non reagiscono in tempo; re David si stringe le spalle e non succede niente. Scoppia improvvisa una tempesta e i due sono costretti a uscire dalla caverna. Si trovano proiettati in un luogo sconosciuto e per quanto facciano molti tentativi, non trovano più la caverna.

 

Intorno al 1939 Adele Liberman deve aver ascoltato questa storia alla scuola ebraica di Rovno in Polonia. La raccontavano i sionisti e il suo significato simbolico sta proprio nell’Estote parati, il “siate pronti” predicato dal movimento: il viaggio verso la Terra promessa. Tocca a voi. A chi? Ai giovani, agli orfani.

Sergio Luzzatto torna sulla storia del sonno di re David nei primi capitoli del suo libro, I bambini di Moshe (Einaudi), dedicato agli orfani della Shoah. La storia che racconta – il libro ha l’andamento di un romanzo, con un esordio che è quasi un epilogo – si svolge in tre luoghi geografici: l’Europa Centrale durante la Seconda guerra mondiale, la Palestina del mandato inglese e l’Italia postbellica. Sono tre territori abitati da un gruppo di ragazzi e ragazze che transita da un quadrante all’altro. Uno di loro, quello a cui è dedicato il libro, il principale protagonista, Moshe Zeiri, è l’unico che va e che viene dall’Europa prima dello sterminio e dopo la sconfitta del nazifascismo. Nato a Kopycynce nel primo decennio del XX secolo da una famiglia ebraica di condizioni economiche modeste, finirà per diventare il creatore del più grande orfanatrofio dei bambini scampati alla strage nazista e collocato nelle montagne della bergamasca, a Selvino, dentro un’ex colonia fascista. Ma prima di arrivare lì, alla parte centrale del racconto, Sergio Luzzatto intreccia le storie dei ragazzi che andranno a comporre la trama di questa narrazione, tutti elencati nella prima pagina, come se si trattasse dei personaggi di una commedia. In effetti il racconto storico ha l’andamento di una commedia, e ovviamente anche di una tragedia. Ci sono i membri della famiglia Kleiner, cognome originario di Moshe, con il capostipite commerciante di foraggio, poi i Liberman, farmacisti, quindi la famiglia del fabbro Lipkunski, e quella del macellatore rituale Wexler, e infine quella del direttore della distilleria, che di cognome fa Weisz. Sono loro, i ventisei personaggi, a campeggiare nel libro insieme a altrettanti uomini e donne che compongono i vari punti notevoli – in senso geometrico – della geografia di questa storia.

 

A Luzzatto interessa narrare, da storico, naturalmente, ma pur sempre di narrazione si tratta, perché come un romanziere è lui che estrae dal novero delle sue carte le singole storie e le mette in sequenza, in una successione cronologica, e tuttavia con ampie anticipazioni, e persino agnizioni, come si usa in un vero romanzo. Tutto è vero e certificato, a partire dalle immagini che costellano il volume, che per quanto presentate alla stregua di documenti storici, non lo sono completamente, poiché il loro scopo è quello di fornire l’atmosfera dell’epoca e aiutare il lettore a immaginare. Le fotografie appartengono per lo più alle storie private dei singoli personaggi, sono un album di famiglia che l’autore estrae da cassetti, archivi, donazioni, da internet, dovunque possa trovare qualche lacerto del passato per poterlo mostrare. Legge le immagini, così come fa con i documenti storici, seppure in un modo diverso, poiché le fotografie, a differenza delle parole, richiedono un sovrappiù di narrazione per farle parlare. Le immagini sono mute e, anche quelle in apparenza eloquenti, necessitano di una voce che le dica. L’intonazione è la prima cosa che colpisce in questo libro, sin dal primo capitolo, che è in prima persona. Luzzatto si rappresenta all’inizio, entra in scena con “io”, quasi volesse certificare che tutto quello che scrive è vero, e che la verità appartiene al suo corpo e alle sue gambe, alla sua capacità di spostarsi, non solo nel tempo, ma anche nello spazio.

 

Il libro si apre con la visita di Sergio Luzzatto il 17 giugno 2015 a Gerusalemme allo Yad Vashem, dove stanno per essere depositate le lettere che il soldato Moshe Zeiri ha scritto alla moglie dall’Europa, dove è andato a combattere volontario tra i soldati ebrei della British Army il mostro nazista che sta sterminando il suo popolo. Moshe è un sionista polacco, emigrato in Palestina prima della guerra per creare la nuova patria. Le sue missive costituiscono la colonna vertebrale del libro. Occupano solo una parte del racconto, quella importante, ne sono la casella piena, mentre quella vuota – le storie dei ragazzi ebrei e sionisti partiti per la Palestina o diretti lì dopo la guerra – costituisce la casella vuota che lo storico Luzzatto metterà in conto di ricostruire. A guidare la mano dell’autore romanzi e racconti. In particolare quelli di Amos Oz (Una storia di amore e di tenebra) per la storia del passato in Europa e di Aharon Appelfeld, il grande scrittore appena scomparso, per i sopravissuti fanciulli nella patria di cui non conoscono neppure la lingua, a cui aspiravano dopo il diluvio e la strage (Il ragazzo che voleva dormire), ma anche David Grossman e Shmuel Yosef Agnon. La letteratura riempie i vuoti che le cronache, i memoriali e i documenti non riescono a colmare. Luzzatto si affida agli scrittori per descrivere un mondo che non c’è più, cancellato dall’avanzata delle armate hitleriane. Non solo alla letteratura, ovviamente, tuttavia quando entra nella pagina un passo, o anche solo un’atmosfera tratta da uno scrittore, il racconto sale di tono, e il lettore si ritrova immerso in uno spazio che le pagine documentali non sono sufficienti a descrivere. E qui l’autore stesso si fa narratore a sua volta in osmosi con il testo letterario. I romanzi e i racconti citati hanno il medesimo scopo delle immagini che l’autore ha inserito nel libro: 74 immagini in bianco e nero in un libro di 393 pagine. Il tema centrale del libro è quello dell’orfano. La parola “bambini” che sta nel titolo ha questo significato.

 

 

Non poteva il volume intitolarsi Gli orfani di Moshe. Non era bello, e forse neppure giusto. Ma la parola “bambini” qui contiene anche “orfani”. Di che orfani si tratta? Ci sono due tipi di orfani di cui il libro si occupa, non a caso identificabili proprio nella figura duale del protagonista, Moshe. I primi orfani, in senso metaforico, sono i ragazzi che vanno in Palestina per fondare il nuovo stato prima della guerra, quando già le persecuzioni antiebraiche hanno avuto inizio. Sono i sionisti che abbandonano lo shtetl, il villaggio o paese natio, in Polonia, negli stati dell’Europa Centrale. Lasciano le loro famiglie, le comunità d’origine e si fanno orfani rispetto a padri e madri che non emigrano. Trasformano, come scrive Luzzatto, “il sogno di Herzl – l’emigrazione di massa in Palestina, e la nascita di uno stato ebraico – da vertiginosa fantasia in laboriosa realtà”. Moshe è uno di loro. Molto belle le pagine che descrivono le famiglie d’origine, il clima dei paesi e delle case dello shtetl. Per farlo l’autore ha mobilitato un numero enorme di memorie, autobiografie, ricordi. La generazione del protagonista del racconto deve compiere lo strappo rispetto ai genitori, affrancarsi da loro, lasciare il vecchio mondo: orfani volontari. Nel romanzo di Lion Feuchwanger, I fratelli Oppermann (1933), pubblicato ad Amsterdam, è detto in modo efficace lo stacco: “I nostri padri hanno fatto il loro tempo”. La Prima guerra mondiale ha creato la frattura e ora i giovani ebrei se ne vanno dalla patria che non sentono più come propria: verso la nuova Patria, la Palestina. Anche Hannah Arendt, già in Francia, in un testo pubblicato in “Le Journal Juif” analizza la spaccatura generazionale che si è creata in Germania: da un lato gli adulti, gente con “la vita dietro le spalle”; dall’altro i figli: disperati ma non distrutti.

 

La prima rottura tra l’ebraismo tradizionale dell’Europa Centrale e il nuovo ebraismo della Terra promessa si crea qui: la vergogna verso i genitori. Tra il 1934 e il 1935 sono mille i ragazzi autorizzati a emigrare dalla Germania senza i propri genitori. La generazione di Moshe Zeiri è quella degli orfani volontari, più simbolica che reale. Poi arriverà l’altra esperienza, quella terribile e lacerante dei figli che sopravvivono al massacro nazista. Luzzatto racconta diverse storie di questi ragazzi, quelli che poi ritroveremo nell’orfanatrofio di Selvino organizzato dal militare Moshe con l’aiuto delle varie organizzazioni ebraiche che si sono precipitate in Europa per salvare i sopravvissuti dal massacro, soprattutto giovani e bambini, e portarli in Palestina. Sono storie terribili, dalle campagne polacche ai ghetti delle città. Storie di fosse comuni e camere a gas. Lo sterminio sistematico perpetrato dai tedeschi lascia però alcuni sopravvissuti. Storie dolorose e insieme miracolose. La prima parte del libro è dunque quella dell’ambiente ebraico da cui proviene Moshe e quelli come lui. La seconda è quella dei ragazzi scampati. Intanto il giovane falegname è andato in Israele e ha partecipato alla creazione dei primi kibbutz; si è sposato e ha messo al mondo una figlia. Si arruola a guerra iniziata, quando gli inglesi accolgono questi volontari nelle proprie file. Va in Nord Africa; non combatte direttamente, segue il corpo di spedizione e arriva in Italia. Qui la parte italiana riguarda Milano, via dell’Unione, la sede dove nel 1945 arrivano gli sfollati e i sopravissuti e Moshe, aspirante attore ed educatore nato nel periodo trascorso nel kibbutz, partorisce l’idea della colonia degli orfani. La grande storia della prima e seconda parte, in questa sezione del libro, si trasforma in una microstoria.

 

 

Luzzatto ricostruisce le vicende dei ragazzi e il loro ritornare alla vita dopo le esperienze vissute nei boschi o nei Lager. Se per Moshe era stato possibile rinascere in Palestina come fondatore del prossimo stato ebraico, per i ragazzi passati attraverso la strage “rinascere come ebrei in Palestina” comporta un sovrappiù di lacerazione, di angoscia e di senso di colpa. Perché precisamente la loro vecchia identità, quella che vengono sollecitati a gettarsi alle spalle, è tutto quanto resta ai salvati del mondo dei sommersi: il mondo dei genitori e dei fratelli, dei cugini e dei nonni”. Qui sta la vera linea di separazione tra i primi e i secondi orfani. Luzzatto s’immedesima in questi ebrei diversi dai già-salvati, dai già-rinati. Non sono i vincenti, ma i perdenti, seppur miracolosamente sopravissuti. L’orfano ha una doppia faccia, così come l’ebraismo. Nessun movimento religioso o politico ha mai una sola faccia. Luzzatto qui ne fa comparire almeno due di identità: quella di Moshe, liberamente scelto, e quella dei ragazzi di Selvino, costretti a diventare orfani da altri e quindi a salvarsi. Nella parte finale del libro si racconta la storia del viaggio verso la Palestina, con i trasbordi clandestini sulle navi, la cattura delle imbarcazioni da parte degli inglesi del mandato, la costrizione dei campi profughi in attesa di arrivare in Palestina, che ci rammemora un’altra emigrazione oggi sotto i nostri occhi. Le microstorie dei ragazzi di Moshe, dei suoi bambini, sono messe alla prova della grande storia nello scacchiere del Medio Oriente. Arrivano in Palestina, ma anche qui c’è un nuovo problema. Luzzatto l’ha anticipato nelle prime sessanta pagine: in Palestina ci sono i sabra, ovvero gli ebrei della prima immigrazione, generazione pragmatica e prosaica. Non hanno il carico dell’esperienza dei nuovi emigrati, non hanno la loro sofferenza e il loro dolore. Non sembrano possedere il sentimento di compassione. Sono duri e decisi, spiega l’autore. Nella nuova patria devono contendere la terra agli arabi che la abitano. Sono armati e combattono. In loro l’elemento nazionalista è più sviluppato di quello sociale. I kibbutz si fondano su questo nazionalismo, più che sulle utopie socialiste degli inizi, come scrive Yosef Baratz che Luzzatto cita nel libro. Scrive: “l’elemento nazionale è più sviluppato dell’elemento sociale” (Storia di Degania), aspetto di cui si renderà conto anche Primo Levi nel suo viaggio in Israele nel 1967 e di cui scriverà a una amica tedesca. Ma prima ci sarà l’indipendenza nel 1948, e poi la Guerra dei Sei giorni, argomenti che non entrano nel libro di Luzzatto. Si ferma prima. Moshe è un uomo dalle due identità; si colloca al confine tra queste due vicende della emigrazione in Palestina. La storia dei suoi bambini è perciò anche la storia della integrazione degli orfani della Shoah in Israele. Combattono, come narrano le pagine finali del libro, per conquistare la terra, contro gli arabi nel 1948. Ma poi non si integrano per la maggior parte nel sistema degli insediamenti, dei kibbutz. Usciranno dalle strutture collettive per vivere in città, in una casa tutta loro, per ritrovare un’identità personale e individuale all’interno della nuova patria. Saranno sempre a metà strada tra il vecchio mondo e il nuovo, che pure contribuiscono a creare. Luzzatto è bravo a raccontare questa vicenda di vite a metà. Il libro ci dice che Moshe non è riuscito nel suo intento educativo. Troppe le difficoltà, tra cui quella quasi insormontabile del dolore provato dai ragazzi. Le loro esperienze precedenti l’arrivo a Selvino, il loro essere effettivamente degli orfani, non sono redimibili. L’ha raccontato molto bene David Grossman in Vedi alla voce: amore. La Bestia di quel-paese-là non li abbandona mai. E poi c’è un altro problema: la fine dell’Esilio corrisponde a un altro esilio. Quando decine di migliaia di profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah trovano una patria, centinaia di migliaia di profughi arabi la perdono. Un tema doloroso che Luzzatto evoca, sul margine del suo lavoro. Non è questo lo scopo del libro, tuttavia lo nomina. Uno dei nodi insoluti della nostra storia passata e presente. Che cos’è I bambini di Moshe? Oltre che un libro di storia e un racconto è una riflessione sulla identità ebraica e sulla sua costruzione, identità storica, prima di tutto, ma anche psicologica. Il volume si chiude sulla figura di Shmulik Shilo, nato Shulman, uno dei bambini di Moshe, che evoca le ore di guardia a Tzeelim, nel kibbutz. Rivolto al figlio gli dice: mi sono seduto allora la notte vicino al tuo letto e ho ascoltato il tuo respiro, avevo con me il mio fucile. Se mio padre non ha potuto proteggerti, io lo farò. E bacia il suo fucile, perché è il “fucile della vita”.

 

Un’immagine molto forte che evoca quella dei partigiani ebrei narrati da Primo Levi e Aharon Appelfeld nei loro romanzi di resistenza. Un tema che resta aperto e che coinvolge le vicende su cui si è fondato lo stato d’Israele e la sua complessa e mutevole identità. Prima fra tutte l’Olocausto, pietra angolare dello stato d’Israele a partire dal 1961, dal processo a Adolf Eichmann, che Luzzatto evoca attraverso la deposizione davanti ai giudici di Gerusalemme di uno dei bambini di Moshe. Scandagliando una delle innumerevoli storie dell’emigrazione verso la Terra promessa Luzzatto mostra quanto stratificata, complessa e dolorosa sia stata la costituzione di quello Stato. 

 

Questa sera al Circolo dei Lettori di Torino la presentazione di I bambini di Moshe: con Sergio Luzzatto e Elena Loewenthal. Letture di Fabrizio Falco.

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