Indirizzo e destino / I nomi delle strade: chi era costui?
A molti sarà capitato di arrivare in un luogo sconosciuto e chiedere ai passanti indicazioni stradali: “mi scusi, come faccio per arrivare alla piazza centrale?” (oppure alla chiesa madre, allo stadio, all’ufficio postale…). Il più delle volte ci si sarà sentito rispondere cose come: “sta accanto al supermercato”, “subito dietro la farmacia”, “esattamente dove si trovano le tre croci”… Panico: se non so dove si trova la piazza centrale, la chiesa madre o lo stadio, come posso sapere dove sono collocati il supermercato o la farmacia? Meno che mai “le tre croci”… Insomma, sembra che la maggior parte della gente non sappia fornire i ragguagli stradali corretti usando, poniamo, coordinate geometriche come destra e sinistra, avanti e indietro, magari combinandole con un’elementare numerazione cardinale (“la terza a destra”, “la prima a sinistra”…). Lo smarrimento – in tutti i sensi del termine – è assicurato.
Meno male che adesso c’è il navigatore stradale, si dirà, il famigerato Gps col quale tutto ciò è finalmente superato. Ma ne siamo certi? Avete notato l’incipit di qualsiasi indicazione data da questo malefico strumento per il quale abbiamo definitivamente barattato il nostro senso dello spazio in cambio di una ciotola di rapidità? Quello che uso io, fra i più diffusi al mondo, esordisce ogni volta in modo imbarazzante: “vai verso nord”, oppure “verso sud-ovest”, “nord-est” e simili. E anche qui: se non so dove dirigermi come posso sapere dove stanno il nord, il sud, l’est o l’ovest, e meno che mai le loro combinazioni? Coi navigatori, si sa, litighiamo spesso, trasferendo dentro l’abitacolo dell’auto quelle tensioni che di solito si creavano tra il finestrino del guidatore e il suo immediato al di là, dove l’astante di turno svelava, inconsapevole, il suo orgoglioso senso del luogo. Così, col Gps arriveremo forse a destinazione, a patto di subire la sciatteria e le sadiche approssimazioni di questa tecnologia tanto ambigua quanto eterodiretta, carica di un pacchetto di informazioni spesso più inutili che rare; che è, a ben pensarci, nient’altro che un raccogliticcio sistema di indirizzi, un address book riadattato ad hoc e propter hoc. Se non immettiamo nel Gps il nome di una strada o altra etichetta identificante un preciso luogo, non arriveremo da nessuna parte.
Occorre chiedersi allora – come ha fatto Deirdre Mask, avvocatessa e scrittrice afroamericana, in questo straordinario Le vie che orientano. Storia, identità e potere dietro ai nomi delle strade (Bollati Boringhieri, pp. 395, € 25) – che cosa è esattamente un sistema di indirizzi, quando e per quali scopi è stato inventato, e soprattutto quali effetti provoca sulla vita sociale e politica nelle diverse parti del mondo. Il libro di Mask (titolo originale, giustappunto, The Address Book) prova a fornire risposte adeguate, mescolando storia e geografia, politiche sociali e, soprattutto, differenze culturali. Gli indirizzi si danno in molti modi, e con innumerevoli conseguenze.
Il punto di partenza del ragionamento è costituito da alcune osservazioni di buon senso che mal nascondono abissi di etnocentrismo. Per esempio, un indirizzo – dirà la solita anima bella incline alla semplificazione – è il miglior modo per trovare un’abitazione, un edificio, una casa. “Via Roma 18, 59100, Prato”: cosa c’è di più facile per trovare l’appartamento del mio nuovo amico toscano che s’è trasferito proprio là? Certo. Ma siamo sicuri che un’abitazione, un edificio e una casa siano sempre e dappertutto la stessa cosa? Andando per esempio a Kolkata (l’odierna Calcutta) o a Soweto (la gigantesca township sudafricana) le cose si complicano di molto, non essendo affatto evidente dove cominci una casa e dove ne finisca un’altra, quale sia l’interno di un’abitazione e quale l’esterno, che differenza ci sia tra una camera da letto e un marciapiede; per non parlare dell’idea stessa di alloggio stabile di una persona o, peggio ancora, di una famiglia. Così, spiega l’autrice, i tentativi portati avanti dalle amministrazioni locali per dotare slums e baraccopoli di un sistema di indirizzi sono il miglior modo per assicurare a chi vi abita un minimo di assistenza sociale. Finché non si sa dove abita la gente, non la si può aiutare in alcun modo. Ma anche, a ben pensarci, non la si può rintracciare alla bisogna, tenere sotto controllo, monitorare di continuo.
Da cui tutta l’ambivalenza dell’indirizzo, e di quel suo apparato di stato che è il catasto, tipico esempio di una dialettica dell’illuminismo. Se da una parte dare nomi alle strade sembra essere una conquista della civiltà, un modo per localizzare le persone dotandole di un’identità istituzionale, di una soggettività riconosciuta socialmente perché inscritta in uno spazio articolato e condiviso dai più, d’altra parte questa costituzione politica dell’identità ha un suo prezzo, un mellifluo rovescio della medaglia: quello per cui chiunque, ricevendo posta e simili, si fa bersaglio di un potere che ne verifica a ogni istante essenza ed esistenza, desideri e valori. Dimmi dove abiti e ti dirò chi sei, ma anche chi potresti diventare e chi non voglio affatto che tu sia.
Cose da terzo mondo, dirà sprezzante il solito lord inglese mescolando una tenace aspirazione alla civiltà con il surrettizio disprezzo verso l’altro. Macché, il libro di Deirdre Mask – che gira mezzo mondo toccando parecchie epoche storiche (dalla Londra vittoriana alla Roma antica, dai Caraibi post-coloniali alla Vienna fin de siècle, dalla Philadelphia del maccartismo alla Berlino del secondo dopoguerra e così via) – si apre giusto nell’attuale West Virginia dove, per quanto irragionevole possa sembrare, gli abitanti non sopportano l‘idea stessa di un indirizzo, di una strada che abbia un nome, di un’abitazione che sia identificabile grazie a un numero. Da quelle parti la gente sa già come orientarsi e come dare indicazioni agli altri: usa precisi punti di riferimento come la chiesa bianca, la casa di mattoni o la curva larga, ma anche cose che non ci sono più come la vecchia scuola, il murales che è stato rimosso, il cassonetto che avevano dipinto come una mucca. Sembra che in zona vivesse una ragazza bellissima di nome Stacy, da cui Stacy Hollow, denominazione posticcia della valle dove una volta abitava la fanciulla… Analogamente da tutt’altra parte del mondo, ossia in Giappone, la maggior parte delle strade non ha nome. Ma non tanto per disinteresse verso la localizzazione o l’orientamento, quanto perché in quella cultura lo spazio urbano non si articola in vie ma in isolati, non va per linee ma per figure geometriche piane, per blocchi insomma: cosa che, una volta compresa, aiuta assai poco il turista occidentale, il quale – strastufo di sushi e disegnini volanti – mostra perenne nostalgia per la patria lontana fatta di battesimi stradali e numeri civici.
Così, il tema degli indirizzi va in diverse direzioni. Per un verso c’è tutto il problema delle denominazioni delle strade, fonte di sicura memoria storica (chi era costui?) e di periodiche revisioni (perché chiamare questa strada col nome di quel farabutto?); di modo che lo stradario di una città si fa spia dell’accettabilità o dell’inaccettabilità dei personaggi del passato, nonché dei valori di cui essi sono stati inconsapevoli latori. La recente vicenda dei nomi delle strade di Berlino è da questo punto di vista assai significativa. Per altri versi, però, il sistema stesso delle denominazioni contrasta con quegli altri dispositivi d’orientamento che Mask, abbastanza correttamente, chiama sinestetici.
Se la denominazione delle strade, o la loro numerazione successiva (come per esempio a Manhattan), ha un’indubbia funzione pratica, o come s’è detto più di una, per altri versi spegne nelle persone la percezione sensoriale dei luoghi; rivelandosi, a ben pensarci, una specie di Gps ante litteram. Come dire che l’invenzione del sistema degli indirizzi, grosso modo in età napoleonica, non ha garantito alle persone un orientamento sicuro. Ha semplicemente sovrapposto un codice sedicente logico (fatto di nomi propri e numeri progressivi) a un altro, o a una serie di altri, di natura percettiva, e dunque semiotica, significativa.
L’haitiano che compila il modulo per chiedere il sussidio di disoccupazione, alla voce ‘indirizzo’ non ha tema di scrivere: “accanto all’albero di mango”.
Quell’albero, per lui, vale una vita: perché sostituirlo col nome di un colonialista che, magari, avrebbe voluto abbatterlo per costruirci al posto un’ennesima fabbrica di carbone? Un esempio come milioni possibili per ridimensionare l’euforia razionalista che vede dappertutto magnifiche sorti e progressive. Non in nome del bel tempo andato, che come è noto esiste solo nell’immaginario postmediatico, ma per aver chiaro che gli indirizzari, come tutti i codici, sono arbitrari sistemi di regole. Utili ma anche peregrini. Democratici e tuttavia sottilmente autoritari. Perdersi, si sa, molto spesso è salutare.