Rete e comunicazione pubblica / I rischi della Postdemocrazia

25 Gennaio 2022
La postdemocrazia
 

Per Colin Crouch, siamo da tempo entrati nell'era della post-democrazia, un regime che mantiene le forme della democrazia ma ne svuota progressivamente la sostanza, riducendola all'ombra di sé stessa (Colin Crouch Postdemocrazia, Laterza, 2003). Nel presentare questa categoria interpretativa, il politologo inglese spiegò che a prendere le decisioni era ormai di fatto una oligarchia di politici e ricchi industriali, che invece di risolvere problemi si concentravano sulla manipolazione dell'opinione pubblica. 

Crouch individuava due ragioni principali dietro alla deriva post-democratica. La globalizzazione aveva trasferito le grandi scelte economiche al di fuori degli Stati-nazione. Il superamento delle tradizionali divisioni di classe e religione, e più in generale l'avvento di quella che Francesca Rigotti definisce “l'era del singolo” (Francesca Rigotti, L'era del singolo, Einaudi, 2021: cfr. la recensione di Mauro Portello), rendeva sempre più difficile ai cittadini sviluppare un'identità politica. Infine, conseguenza di queste due mutazioni, la tendenza dei politici ad allentare i legami con gli elettori a favore di un rapporto più ravvicinato con le élite globali.

 

Nel frattempo sono arrivati il crollo delle borse mondiali nel 2008, i Fridays for Future che hanno smascherato l'inadeguatezza della classe dirigente ad affrontare la crisi ambientale, la pandemia che dal febbraio 2020 ha imposto un lungo “stato d'eccezione” con la sospensione di molte libertà per l'emergenza sanitaria, il seppellimento dell'ambizione USA di “esportare la democrazia” con la rovinosa ritirata dall'Afghanistan nell'agosto 2021. Da anni il Democracy Index curato dal settimanale “The Economist” è in calo: aumentano le “Democrazie imperfette” (nella categoria rientrano anche l'Italia e gli USA), i “Regimi ibridi” e i “Regimi autoritari”, tanto che l'ultimo rapporto, relativo al 2020, si intitola “Una pessima annata per la democrazia globale”.

 

 

Dibattito pubblico e nuovi media

 

Nel sequel del suo profetico pamphlet, scritto appena prima della pandemia (Colin Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza, 2020), Crouch riconosce che oggi la situazione “appare peggiore: non soltanto, infatti, quelle che erano le principali armi nuove di cui la società civile dispone – le armi offerte dalla tecnologia dell'informazione – le si stanno rivoltando contro, ma nelle democrazie consolidate di tutto il mondo siamo di fronte a una profonda messa in discussione dell'ordine costituzionale e a un risveglio xenofobo, perlopiù d'estrema destra” (p. XIV-XV).

Di fronte a questa involuzione, diventa cruciale valutare lo stato del dibattito pubblico, senza il quale “è impossibile immaginare una democrazia” (Mark Thompson, La fine del dibattito pubblico, Feltrinelli, 2017).

 

Secondo diversi autorevoli osservatori, il dibattito pubblico sta vivendo una inquietante involuzione, anche a causa delle trasformazioni determinate dalla diffusione del web e delle piattaforme social, con il declino dei media tradizionali (giornali, radio, tv). Nell'epoca post-broadcast, siamo passati dalla “democrazia del pubblico” alla “democrazia dei pubblici”.  

Le lamentazioni sulla decadenza del dibattito politico non sono nuove: per fermarsi allo scenario italiano, basta rileggere le riflessioni di Guido Piovene (nel 1957) o di Alberto Ronchey (nel 1977), ricordate da Sara Bentivegna e da Giovanni Boccia Artieri prima di confrontarsi con la situazione attuale in Voci della democrazia. Il futuro del dibattito pubblico (Il Mulino, 2021). 

 

I due studiosi offrono una meticolosa e aggiornata panoramica delle indagini sociologiche svolte in questi anni sull'impatto della rete nella comunicazione pubblica. Sono ormai diverse decine gli studi che hanno provato a misurare l'effetto delle nuove modalità della comunicazione sul dibattito pubblico, in particolare concentrandosi su tre fenomeni che hanno suscitato l'indignazione e i timori degli osservatori.
Il primo fattore è l'inciviltà, ovvero l'irruzione dell'insulto, della rissa, della volgarità nella discussione politica. Il secondo è la disinformazione, con la moltiplicazione delle fake news e lo slittamento verso la post-verità. Il terzo è la polarizzazione generata dalle bolle informative e dalle camere dell'eco, determinata sia dalla nostra propensione a dare credito a notizie che rafforzano le nostre convinzioni (confirmation bias) sia dagli algoritmi “omofilici” dei social network e dei nuovi media “personalizzati” (la pre-selected personalization teorizzata da Nicholas Negroponte negli anni Novanta). È interessante notare che i soggetti che cavalcano questa deriva “operano in un mix tra motivazioni ideologiche, fini economici e dinamiche di intrattenimento, traendo soddisfazione dalla manipolazione del sistema ufficiale dei media”, contribuendo a “diffondere un clima di cinismo nel dibattuto pubblico” (pp. 112-113). 

 

 

I paradossi della comunicazione politica nell'era post-broadcast 

 

La riflessione di Bentivegna e Boccia Artieri è articolata su due livelli. Gli “apocalittici” tendono a sopravvalutare l'impatto di questi fenomeni, che a livello statistico risultano piuttosto contenuti. La nostra “dieta mediatica” risulta abbastanza ricca e variata, abbastanza da attenuare gli effetti della cattiva comunicazione. Tuttavia questi studi suggeriscono anche che la sfera pubblica sia radicalmente cambiata. Fino alla fine del XX secolo, la comunicazione era in gran parte top-down, con poche emittenti (i quotidiani, i pochi canali televisivi) che dettavano l'agenda e i suoi contenuti: era la sfera pubblica unidimensionale teorizzata da Jurgen Habermas. Con il web, la disintermediazione e la crescita di orizzontalità (ma anche i circuiti di feedback tipici della rete) hanno portato alla stratificazione di un “patchwork mediale” assai più complesso e articolato. 

Voci della democrazia identifica quattro livelli, via via più allargati, fino a quello dei “pubblici connessi” “in cui agende personali e mediali si sovrappongono e si intrecciano”: è “il campo di tensioni in cui si gioca il futuro della democrazia” (p. 162). 

 

 

 

Il problema non sono i nuovi media, suggeriscono Bentivegna e Boccia Artieri. È vero che l'ecosistema mediale è cambiato, ma non può da solo imporci polarizzazione e fake news. Questa mutazione non sta azzerando il dibattito pubblico, ma ne sta cambiando regole e modalità, creando paradossi che facciamo fatica a gestire. Ridurre l'inquinamento informativo correggendo le fake news finisce involontariamente per diffonderle (p. 108). Gli utenti “che sono più partecipativi sembrano essere anche quelli più propensi a condividere affermazioni imprecise su affari di governo” (p. 115). La post-verità non è la causa ma il frutto della sfiducia generalizzata nelle élite (p. 122). La polarizzazione porta a essere d'accordo su molte questioni, ma allo stesso tempo porta a coltivare rabbia e pregiudizio nei confronti dell'altro (p. 137). 

Un elemento cruciale, che spesso gli analisti sottovalutano, è l'autonomia dei cittadini, che non sono recettori passivi di una propaganda calata dall'alto, ma che fanno un uso creativo (spesso imprevedibile e a volte perverso) dei contenuti diffusi dai mass media, a partire dalla loro soggettività individuale e di gruppo, dalle loro competenze e dalle loro aspirazioni e obiettivi.

 

Le conclusioni a cui giunge Voci della democrazia da un lato appaiono consolanti (anche se è impossibile accedere agli algoritmi usati dai social network, tanto è vero che “la ricerca più significativa sull'impatto degli algoritmi sulla segregazione ideologica è stata condotta da ricercatori interni alla piattaforma di Facebook”, p. 143). E resta evidente che un uso scorretto o distorto del social media, a partire dall'asimmetria informativa tra le piattaforme e gli utenti, ha cambiato e può ancora cambiare il risultato di un'elezione. Ma in sintesi non sarebbero solo e tanto i nuovi media a spingere verso la postdemocrazia. Bentivegna e Boccia Artieri suggeriscono che il degrado della comunicazione politica è un sintomo e non la causa della malattia.

Se è così, se la crisi della democrazia non può trovare un facile capro espiatorio nei nuovi media, il problema è ancora più grave. È vero, i troll ucraini, l'algoritmo di Facebook, la “Bestia” di Salvini e Cambridge Analytica avvelenano la sfera pubblica. Ma lo slittamento verso la “democratura” ha ragioni più profonde e complesse. E, al di là dei buoni propositi, non riusciamo ancora a trovare gli antidoti.

 

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