I sentieri degli scrittori. Le montagne di Massimo Mila
Massimo Mila (1910-1988) appartiene alla generazione che vive la giovinezza nel ventennio fascista, con cui dovrà confrontarsi in prima persona, con riflessi drammatici sulla propria vita. Al liceo D’Azeglio di Torino ha per compagni Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Vittorio Foa; è un ambiente colto e liberale, antifascista per coscienza civile e amore di libertà. Negli anni universitari aderisce al movimento Giustizia e libertà dei fratelli Rosselli e di Emilio Lussu e subisce un primo arresto, nel 1929. Rilasciato, nel 1931 si laurea in Letteratura italiana con una tesi sul Melodramma di Giuseppe Verdi. Nonostante la giovanissima età, è già consapevole delle direttrici lungo le quali si muoverà la sua vita futura: musica e impegno civile, alpinismo e montagne. Proprio la dimestichezza con sentieri impervi ed alte cime gli consente di introdurre clandestinamente in Italia, stipate in uno zaino e attraverso il passo del Monginevro, le riviste di Giustizia e Libertà stampate a Parigi. Viene arrestato di nuovo e condannato a sette anni di carcere. Esce nel 1940 a seguito di un’amnistia, ma nel frattempo l’Italia è entrata in guerra a fianco della Germania nazista. Dopo l’8 settembre 1943, si unisce ai partigiani del Canavese, dove diventa commissario politico delle formazioni che si ispirano ai principi dei fratelli Rosselli.
Dal dopoguerra affianca all’attività di docente di Storia della musica al Conservatorio Giuseppe Verdi e all’Università di Torino, quella di saggista con la pubblicazione di numerose opere di argomento musicale, tra le quali: Breve storia della musica, L’esperienza musicale e l’estetica, Mozart e la ricerca della felicità, L’arte di Verdi, Compagno Strawinsky, Wagner e Brahms. È critico musicale di L’Unità, L’Espresso e La Stampa, traduttore di classici tedeschi come Goethe e Schiller. Muore a Torino nel 1988.
Un’attività culturale intensissima, dunque, che però non gli ha mai fatto trascurare la montagna, amore giovanile nato forse guardando quelle Alpi visibili all’orizzonte della sua Torino, che tanto avevano affascinato anche Primo Levi. Scrive, infatti, alla madre dal carcere: "… se non mi mancaste voi e la montagna, direi che è la miglior vita che posso desiderare: niente da fare, leggere, studiare, pensare" (Argomenti strettamente famigliari. Lettere dal carcere 1935-1940, a c. di P. Soddu, Einaudi, 1999)
Montagna per lui è sinonimo di libertà. Una "passione necessaria", nella quale impegnare energie fisiche e psichiche, vivere rapporti umani nel comune impegno per il raggiungimento di una meta. I monti per Mila sono l’equivalente dei mari di Joseph Conrad, sono il campo d’onore dove misurare il proprio coraggio, mai disgiunto da una lucida consapevolezza dell’azione da intraprendere. Farà conoscere i libri di Conrad anche a Giusto Gervasutti, che da ragazzo aveva invece letto Jack London e Rudyard Kipling.
Una palestra di vita, la montagna, alla quale fu iniziato da grandi alpinisti, primo fra tutti Renato Chabod, il quale gli insegnò che nell’alpinismo la conoscenza deve precedere l’azione. È necessario saper “leggere” la montagna prima di affrontarla: i tipi di roccia, le linee naturali di salita, i ghiacciai, le cenge, senza dare spazio a improvvisazione, forzature e superficialità: «L’etica alpina di Chabod non è quella del sestogradista ipnotizzato dalle difficoltà come fine a sé stante (…) Chabod insegnava a giocare d’astuzia con la montagna, prendendola per il suo verso giusto, onde venirne a capo con dolcezza (…) inteso così l’alpinismo diventa un bellissimo gioco di intelligenza anziché un mero sfoggio di doti muscolari», scrive in un articolo del 1969 su La Stampa recensendo La cima dell’Entrelor (Zanichelli 1969), il libro con cui Chabod, ormai anziano, consegna il suo addio alle montagne.
Che il senso dell’alpinismo vada al di là del mero esercizio fisico è una convinzione che traspare anche quando Mila esplora il rapporto tra musica e paesaggio alpino. A proposito del sinfonismo di Brahms, appassionato frequentatore dell’Engadina e dell’Oberland bernese, oltre che delle Alpi austriache, scrive che la montagna suggerisce armonie, un «colloquio ad alto livello, in quell’accesso all’empireo delle idee platoniche dischiuso (dalla) maestà delle Alpi, dalla siderea purezza dei ghiacciai» (Brahms dei ghiacciai, in La Stampa, 7/8/1983).
Una concezione che allontana il giovane Mila dal “vitalismo guerriero” del ventennio fascista. In Scritti di montagna, curati dalla moglie Anna Mila Giubertoni (con una presentazione di Gianni Vattimo e uno scritto di Italo Calvino, Einaudi, 1997), parla infatti della “concezione demoniaca dell’alpinismo”, presente in un libro molto in voga negli anni Trenta, Fontana di giovinezza di Eugen Guido Lammer, i cui temi sono ripresi con grande ridondanza dalla stampa fascista che esalta la figura dell’alpinista-eroe, che sfida la morte. Lugubre anticipazione del soldato-eroe con la quale di lì a pochi anni i giovani italiani si troveranno a fare tragicamente i conti.
Altri sono gli alpinisti celebri che Mila sente in sintonia con la sua predilezione per le scalate lunghe e lente, con passaggi di quarto e quinto grado: Ettore Castiglioni, Gabriele Boccalatte, Julius Kugy, Giusto Gervasutti. Non esita, sebbene precisi che non si tratta di un giudizio di valore e di merito, a dichiarare la sue preferenza per l’alpinismo occidentale rispetto a quello dolomitico e in quarant’anni sale molti Quattromila e Tremila, tra i quali spiccano nelle Alpi occidentali il Monte Bianco per quattro vie differenti, la Grivola (cresta Sud e cresta Nord), la Becca di Moncorvè (cresta Sud e parete Sud Est) l’Aiguille Noire de Peutérey (via normale), l’Emilius (parete Nord ), le Punte Whymper e Walker delle Grandes Jorasses e nelle Alpi orientali la piccolissima di Lavaredo (via Preuss) e la Marmolada (parete Sud).
I suoi récit d’ascension sono redatti in uno stile asciutto, essenziale, ma dal lessico ricco e preciso. Lui stesso definisce la scrittura una «misurata scelta e disposizione dei vocaboli» e all’accuratezza delle descrizioni di ambienti naturali e scalate unisce un sense of humor, usato e intelligentemente dosato, apposta per allontanare qualsiasi tentativo di esaltazione, e di retorica, dell’impresa (saggi e articoli di Mila sull’alpinismo sono riportati anche in: Montagnes valdôtaines. Scritti dal 1929 al 1987, a cura di G. Mendicino, ed. Domus, 2008; Massimo Mila. L’altra faccia della mia persona, Priuli & Verlucca, 2010, con testi di R. Aruga e G. Montresor; Massimo Mila. I due fili della mia esistenza, a c. di V. Giuliano e G. Montresor, Cai, Milano, 2018). Del resto, era celebre la sua risposta in dialetto piemontese quando era oggetto di complimenti: «Esageroma nen!» (non esageriamo!). Un understatement di stampo anglosassone, in sintonia con il suo senso della misura.
Le sue scelte in tema di scrittura dell’alpinismo sono molto chiare e ribadite in un intervento al Museo della Montagna di Torino, durante il convegno “Montagna e Letteratura” del 1982, dove si incontrano uomini di cultura e di terre alte come Mario Rigoni Stern, Giorgio Bertone, Giorgio Luti, Alessandro Gogna: «Oggi non va più di moda il récit d’ascension umoristico, fondato sulla sottovalutazione dell’impresa (…) l’alpinismo attuale è arrivato a vette tali di difficoltà, ha oltrepassato tali limiti di rischio, che veramente non si vede come si potrebbero narrare scherzosamente certe prolungate sfide alla morte come l’ascensione di Bonatti alla Ovest del Dru (…) personalmente non vedo questa trasformazione con estremo piacere, e resto affezionato al vecchio humor di marca britannica, o piemontese, e al costume morale che esso rappresenta».
Ancora una volta, la sottolineatura della scelta di un alpinismo consapevole e mai disgiunto dai valori etici, che devono sempre accompagnare le sfide e le imprese più prestigiose.
Ammesso nel Club Alpino Accademico, non manca di fare dell’autoironia, raccontando che vi è stato accolto più per meriti letterari e culturali che alpinistici. Cosa in effetti non vera, considerato che uno scrittore del livello di Dino Buzzati vide sempre respinte le sue richieste di entrare tra gli accademici del CAI. Era sicuramente un buon scalatore, ma senza particolari meriti alpinistici, al contrario di Massimo Mila.
L’ironia andava di pari passo con la fermezza nei valori civili, per difendere i quali si poteva anche affrontare il carcere o la morte.
Negli anni del terrorismo cadono anche ex partigiani di Giustizia e Libertà come il giornalista Carlo Casalegno, ucciso a Torino nel 1977. Massimo Mila vede tornare l’omicidio e la paura come strumenti di lotta politica. Commemorando pochi anni dopo Guido Rossa, l’operaio-sindacalista-alpinista ucciso a Genova dalle Brigate Rosse, Mila lo accostò a Carlo Rosselli, il grande intellettuale antifascista fatto assassinare nel 1937 da Mussolini, e aggiunse: «Ma allora, se ci sono queste persone, non tutto è perduto per noi».