Il disagio di Enzo Consolo
La prima volta che l’ho incontrato, secoli fa, era in un albergo a cinque stelle proprio al centro della Valle dei Templi di Agrigento, dove si trovava per ritirare non so quale premio letterario. La lunga intervista, quasi due ore di chiacchierata sul suo lavoro (la narrazione, la lingua, lo stile, i media…), si è svolta in un’elegante terrazza da cui il Tempio della Concordia distava non più di duecento metri. Consolo è stato tutto il tempo seduto al sole (“me ne bevo il più possibile – diceva –, a Milano mi manca da morire”) e, benché fosse già la fine di ottobre, dopo un po’ i raggi picchiavano in testa. Lui cercava di raggiungere la beatitudine climatica siciliana che tanto gli mancava, ma si capiva che era inquieto. Ogni tanto gettava l’occhio su quello straordinario monumento a un tiro di schioppo, e si percepiva il suo profondo imbarazzo a essere ospitato in quella specie di ecomostro ammazzapassato.
Ecco, se c’è una cosa che mi ha sempre colpito in Enzo Consolo, quando lo vedevo e quando lo leggevo, era questo costante imbarazzo, questo non sentirsi mai del tutto al suo posto, questo disagio sottile e perenne nei confronti d’ogni aspetto del mondo e degli esseri, delle persone che lo circondavano e della società in cui la sorte l’aveva catapultato. A ripensarci, adesso che non c’è più, credo che questo disagio sia la cifra profonda della sua persona e della sua opera. Un disagio, contagiosissimo per chi gli stava accanto, che lo portava a essere terribilmente umorale nei rapporti con gli altri – odi e amori, litigi e riappacificazioni, rigide prese di posizione e repentini cambiamenti d’idea erano all’ordine del giorno. Ma che al tempo stesso lo conduceva a essere esasperatamente attento nel cesello stilistico, scrupoloso sino all’esasperazione nella ricerca del mot juste, e parallelamente impacciato nella conversazione orale, timidissimo, e perciò pronto a sbottare per un nulla alla difesa di chissà quale Valore Ideale.
Il suo libro più arioso, forse non il più riuscito ma certamente quello più ardito nello stile e nella sperimentazione letteraria, è secondo me Retablo, storia di un pittore illuminista nella Sicilia settecentesca, sorta di silenzioso omaggio al più bel libro di Leonardo Sciascia, Il Consiglio di Egitto. Varrebbe la pena, oggi, di rileggerli insieme. Una lettura che ci procurerebbe non poco disagio – che è forse il destino e il fine d’ogni buona letteratura.