Giochi / Il funambolo

19 Settembre 2021

Verso la fine del 1956 Jean Genet conobbe un giovane artista del circo, Abdallah Bentaga, figlio di un acrobata algerino e di una tedesca. Lo scrittore francese si legò a lui in un rapporto che lo indusse a peregrinare per l’Europa. Nel corso dei loro spostamenti Genet cercò di convincere Abdallah, che lavorava come giocoliere e acrobata al suolo, a salire sul filo da funambolo. Lo plagiò sino a indurlo a sottoporsi a un estenuante allenamento. Su un foglio di carta disegnò anche un numero segnandone i passi. Il giovane algerino cadde dal filo una prima volta nel 1959, ma vi risalì. Si unì alla compagnia del Circo Orfei per una tournée in Kuwait. Ma ricadde una seconda volta e fu la fine della sua carriera. Genet era convinto di aver realizzato con Abdallah, suo doppio narcisistico, una sorta di capolavoro che l’imperizia e la debolezza del ragazzo mandò in malora, come scrisse a un amico. Nel febbraio del 1964 Abdallah inghiottì un barbiturico e si tagliò le vene. Sette anni prima Genet aveva scritto per lui e su di lui un piccolo poema in prosa, Il funambolo (Adelphi) apparso in rivista e poi raccolto in volume. È uno dei testi più belli dello scrittore, uno dei suoi più sfavillanti, dove mette allo scoperto la sua estetica ma anche la sua erotica. Si tratta di un grande inno alla Morte, compagna ma anche madre del funambolo: “La Morte – la Morte di cui ti parlo – non è quella che seguirà la tua caduta, ma quella che precede la tua apparizione sul filo. È prima di scalarlo che muori. Colui che danzerà sarà morto – deciso a tutte le bellezze, capace di tutte”.

 

Quattro anni prima della pubblicazione del Funambolo uno studioso di lingua francese, lo svizzero Waldemar Deonna, aveva editato un piccolo studio sull’acrobazia antica che Genet probabilmente non ha mai letto ma che è perfettamente convergente con il suo poema: Il simbolismo dell’acrobazia antica. Deonna, che è uno dei più straordinari e misconosciuti studiosi dell’antichità classica, aveva registrato nei testi visivi scritti dell’Antico Egitto, del mondo greco e romano, sino ad arrivare al Medioevo cristiano, la presenza della figura dell’acrobata intento a compiere le sue prodezze mantenendosi dritto sulle mani o sulla testa. Scrutando vasi, affreschi, disegni, segni calligrafici e geroglifici, Deonna, autore di un bellissimo studio su Il simbolismo dell’occhio, aveva descritto il legame che esiste tra questi esercizi e i temi funebri. Dietro ai numeri eseguiti da uomini, ma anche donne, in banchetti, cortei, cerimonie religiose, funerali, c’è infatti una precisa simbologia della morte e rinascita che si definisce nelle figure dell’inarcamento, del cerchio, dell’inversione, del contatto tra piedi e capo, e che riprende temi e posture attribuite a Ra e a Osiride, a Nut e a Geb. Sui sarcofagi egizi sono dipinte le figure acrobatiche degli dei: figure ricurve, giochi con sfere, scarabei sacri, figure falliche.

 

 

Deonna, docente a Ginevra, scomparso nel 1959, allarga la sua indagine al mondo dell’acrobazia coi tori, alla tauromachia greca, e ritrova le figure dei kybisteteri, gli acrobati, nell’Asia minore. Il libro, composto di brevi testi corredati da lunghe note bibliografiche e citazioni di oggetti, è tempestato di piccole suggestive immagini di corpi eretti o ripiegati, di esercizi con le spade, di equilibristi e contorsionisti per lo più nudi o coperti da un piccolo perizoma. La sua indagine scruta i testi di Artemidoro e di Nonno di Panopoli, le sue Dionisiache, dove l’acrobazia si unisce alla danza, si sposa alle pratiche di satiri che a loro volta alludono alle contorsioni della morte e dell’ebbrezza, del piacere e del dolore, del rischio supremo e della gioia piena. Sono tutti acrobati della morte: “Tra la danza acrobatica e la morte vi è una stretta unione, la prima imitando l’altra”. Non si può non ammirare le immagini delle acrobate donna che in alcuni vasi custoditi al British Museum camminano sulle mani, a seno nudo e con le gambe protese in avanti, figura ibrida incerta tra l’umano e l’animale. Deonna, che scandaglia a fondo tutte le immagini della morte presenti nell’acrobazia, non si addentra nella zona incerta in cui la morte si lega all’eros, cosa che è invece evidente nel testo di Genet. Nelle pagine dello studio sono invece i Sileni a tenersi in equilibrio sui loro sessi prominenti. Queste figure sessuate arrivano sino alle chiese romaniche e gotiche, ai capitelli e ai portali di Avallon e di Modena.

 

La Chiesa disapprovava nel Medioevo le acrobazie e in generale i giochi circensi. Ne percepiva l’impudicizia di fondo, la medesima che secondo Genet fonda il connubio tra morte e sesso nel suo funambolo. Il Circo, scrive, è insieme alla poesia, alla guerra e alla corrida uno dei pochi giochi crudeli che siano rimasti. E mentre il mondo antico persegue la crudeltà come componente essenziale della vita, il cristianesimo la nasconde o rimuove. Il Circo è il luogo della metamorfosi dove la polvere si trasforma in pulviscolo dorato, e in cui la morte dell’acrobata allude, come ricorda Deonna, un’immancabile rinascita. Anatole France descrive in un suo racconto le imprese del giullare di Notre-Dame che faceva la ruota all’indietro e nel contempo manipola dodici coltelli. La Salomè biblica che danza davanti a Erode è un’acrobata ma anche una portatrice di morte. Di questo legame con la morte, sancita dalle acrobazie per i funerali, abbiamo mantenuto ben poca traccia. Nella loro lunga evoluzione i riti e i motivi religiosi, scrive Deonna, si svuotano del loro contenuto spirituale per diventare giochi o ornamenti. L’acrobazia tuttavia conserva ancora un misticismo di fondo, qualcosa che fa convivere negli esercizi di destrezza qualcosa di regale e insieme di reietto, di sacro e di impudico, come testimonia anche un piccolo libro di Philippe Petit, Trattato del funambolismo (Ponte alle Grazie), scritto da un acrobata che ha teso in passato il suo sottile filo d’acciaio tra le torri di Notre-Dame e tra quelle del World Trade Center.

 

In Egitto il geroglifico che indica il verbo danzare ha la forma del corpo umano rovesciato all’indietro. L’acrobata è imparentato con il ciclo della rinascita del mondo vegetale, ma anche con l’acqua, mentre le sue mosse all’incontrario mobilitano i gesti superstiziosi tesi ad allontanare la morte, l’invidia degli dei e la gelosia del mondo infero. Ma l’acrobata è anche l’antesignano dell’isterica disegnata nei testi clinici di Charcot: l’inarcamento è la loro figura. La prima immagine con cui si apre Il simbolismo dell’acrobazia antica, una serie di piccoli disegni neri, riassume la destrezza della capriola sulle mani in avanti, e quella all’indietro o la sospensione sugli avambracci. Ricorda da vicino le posizioni dello Yoga, dal Titibhasana al Dvipadasirsasana, di cui Deonna tuttavia non parla. Mentre il mondo egizio e greco hanno sviluppato un’arte sacra dell’acrobazia indirizzata alla evocazione del ciclo di morte e rinascita, l’Oriente indiano ha invece descritto le posizioni del corpo umano teso alla meditazione, ma anche all’acrobazia, l’Asanas, accostandole a quelle della respirazione del Pranayama. Nelle acrobazie dello Yoga le due strade della meditazione e dell’erotismo sono prossime. Non identiche, ma ugualmente dirette a governare l’energia come nello yoga tantrico cui sembrano alludere tanti disegni del testo di Deonna: la ritenzione del seme e il governo del piacere. Il Kamasutra è senza dubbio un trattato di acrobazia amorosa che l’Occidente legge invece come un manuale di performance erotiche. 

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