Il nulla a convegno
Un convegno sul nulla. L’idea è venuta allo scrittore Paolo Nori, che l’ha organizzato, con la complicità della rassegna CentoCage, promossa dal comune di Bologna per i cento anni dalla nascita di John Cage, nella biblioteca Sala Borsa del capoluogo emiliano. Si è parlato di tutto e di niente, entro confini che Nori aveva così sfrangiato: “Quando non c’è niente da dire, o quando non si sa cosa dire, o quando non si sa cosa fare, o quando non si vede niente, o quando non si capisce niente, o quando non si sente niente, o quando non si riesce a dormire, o quando non si vuole mangiare: le astensioni di tutti i tipi, le scene mute, le fotografie sbagliate, le macchine che restano senza benzina, i sans papier, i sanculotti, i frigo vuoti, i film muti, i buchi neri, la menopausa, le notti in bianco, quando si cerca in tutte le tasche e non c’è neanche una sigaretta; i digiuni, gli anestetici, gli astemi, gli anoressici, gli scioperi; le pianure, le steppe, i deserti, la siccità, la crisi energetica, i black out, gli annulli filatelici, le amnesie, la crescita zero, le tinte unite. La calvizie. La sterilità. Il celibato e il nubilato. L’inappetenza e l’incontinenza. Il buio. Il silenzio. Il niente. Il nulla”.
Nori, che cosa è successo il 15 dicembre nel Convegno sul nulla?
“È successo che per sei ore abbiamo parlato del nulla. Dovevano essere dodici relatori e sono stati undici, non è venuto Alessandro Bonino, che doveva parlare degli ebook, cioè dei libri senza carta, perché si è ammalato. Abbiamo parlato per sei ore del nulla visto da diversi punti di osservazione, con l’elogio dell’ignoranza di Alfredo Gianolio, oppure della materia mancante dell’universo di cui ha parlato un astrofisico che si chiama Luca Valenziano…”
Quindi dei buchi neri?
“No, la materia mancante. Con dei calcoli, gli astrofisici hanno capito quanta dovrebbe essere la massa dell’universo. Però, andandola a cercare, ne manca. Ce n’è una parte che non si capisce bene cosa sia: non è né niente né roba; è la materia che manca. Guido Barbujani ha parlato del fatto che le razze non esistono, ossia una delle cause delle cose peggiori successe nel secolo scorso, la divisione in razze, è frutto anche questo dell’ignoranza. Biologicamente non è possibile parlare di razze diverse”.
E la menopausa, cosa c’entrava?
“Io credo che noi da ragazzi – io sono del ’63 – noi abbiamo subito una delle cose più dementi nella nostra istruzione, nei programmi scolastici, l’assoluta mancanza di elementi di educazione sessuale. Ecco, questa cosa non vale solo per quando eravamo piccoli, ma anche per adesso che cominciamo a diventar vecchi. Io, che pure non sono direttamente interessato alla cosa, ho trovato l’intervento di Anna Pasi uno dei più interessanti, anche se era uno dei più strampalati in tutta questa strampalatezza”.
Altri interventi strambi?
“Tutti. Quello sugli zero a zero nelle partite di calcio, di Stefano Andreoli. O, per esempio, quello di Guido Leotta, che è l’editore di Moby Dick, che ci ha parlato del best seller della sua casa editrice, che ha venduto circa 150.000 copie, che si intitola Tutto quello che gli uomini sanno delle donne, un libro di un centinaio di pagine bianche. Ci ha raccontato la storia di come è saltato fuori, e ha a che fare con un portiere di calcio democristiano, e del successo che ha avuto immediatamente: la Cgil di Milano, credo, quell’anno ne ha ordinato 8.000 copie da regalare ai suoi iscritti”.
Materia mancante.
È curioso: come spieghi il successo di un libro con le pagine bianche?
“Non lo capisco bene, però mi ricordo che anch’io, quando facevo l’università, l’avevo trovato sul bancone della Feltrinelli di Parma e l’avevo comprato: l’avevo regalato a delle mie amiche. Leotta, però, dopo un po’ si è stancato di farlo. Gli sembrava poco serio vendere tante copie di un libro su cui non c’era scritto niente. È stato molto bravo a raccontarci questa cosa, anche partendo da un’esperienza autobiografica, cioè dal fatto che lui era innamorato di una ragazza che l’aveva iniziato alla pratica politica di estrema sinistra e però dopo un po’ questa ragazza l’aveva lasciato e si era sposata, appunto, con un portiere di calcio democristiano e aveva fatto 3 figli nel giro di pochissimi anni. Questa vicenda ha generato l’idea del libro”.
Come ti è venuta la voglia di fare questo convegno?
“Stavo aspettando l’autobus e mi è venuta quest’idea. Ogni tanto mi vengono queste immaginazioni. Un’altra idea che non sono riuscito a realizzare era quella del festival dei malcontenti, fare un festival dove la gente si lamentasse. Mi sarebbe piaciuto chiamare Kurt Vonnegut – allora era ancora vivo – a parlare della politica estera americana: sarebbe stato bello. Ma non se ne è fatto niente. Invece di questo convegno sul nulla ne avevamo parlato qualche anno fa a Ravenna con quelli del Teatro delle Albe. A loro era piaciuto e avevamo fatto il numero zero a Lido Adriano. Là è venuta Simona Brighetti, che lavora al Comune di Bologna. Le è piaciuto e ha approfittato delle celebrazioni di John Cage di quest’anno per proporlo, e al comune di Bologna sono stati contenti di farlo”.
Perché l’inno del convegno era 4’ 33’’di John Cage, il pezzo in cui il musicista o l’ensemble non suona ma fa ascoltare il silenzio?
“Noi dovevamo eseguirlo in apertura dei lavori. Poi Carlo Boccadoro aveva un altro impegno sul lago di Garda e quindi è arrivato solo alla sera e lo abbiamo fatto in chiusura. È stato per me un momento bellissimo: è stato una specie di preghiera. L’abbiamo suonato nella versione per clarinetto. L’ha eseguito, per così dire, Mirco Ghirardini, un clarinettista che ha anche fatto un intervento sulla musica da ballo. Lui suona alla Scala, suona in Sentieri selvaggi, che è il gruppo di Carlo Boccadoro, e poi suona in un gruppo di liscio. Ha fondato e dirige un gruppo che rifà il liscio delle origini, e però son talmente veloci quei valzer lì che non li balla più nessuno. Lui suona una musica da ballo che in tutti questi anni non ha mai ballato nessuno nei loro concerti. Il pezzo di Cage sono stati 4 minuti e 33 secondi di silenzio in cui abbiamo sentito i rumori della Sala Borsa – è quella la funzione di quel pezzo – ed è stato un momento proprio quasi meditativo. È stato proprio la chiusura ideale”.
Quel pezzo vuole dimostrare che il nulla chiamato silenzio è in realtà pieno…
“Che il silenzio non esiste. Così noi quando l’abbiamo suonato abbiamo sentito i rumori che c’erano di sopra, quelli del riscaldamento eccetera, che prima intanto che si parlava non sentivamo. La cosa bella è che quello lì è un pezzo che, a seconda del posto dove lo fai, cambia tutte le sere, a seconda del silenzio che c’è lì. Perché ogni posto, forse, ha il suo silenzio. C’è un racconto di Heinrich Böll, in Racconti satirici e umoristici, dove c’è uno che lavora alla radio e faceva collezione di silenzi registrati. Quando era con la sua fidanzata registrava i loro silenzi e dopo li riascoltava, che era una cosa che alla fidanzata non piaceva tanto, mi sembra di ricordare”.
Sono molto diversi i nulla che avete esplorato in questa giornata. Tu in un articolo di anticipazione sul Foglio facevi vari esempi letterari di cultori del niente: andavano da certi nichilisti russi ai poeti romagnoli, Nino Pedretti e Raffaello Baldini…
“Baldini nella Fondazione, il suo ultimo testo teatrale, parla delle cose che non servono a niente. È una parte memorabile, in un certo senso un elogio delle cose che non servono a niente. Lui dice: incontri una bella ragazza e la guardi: a cosa serve? In effetti anche il nostro convegno non serve a niente, non è servito a niente, non servirà a niente. E quella è la cosa bella: che undici persone si sono mosse da tutta Italia per venire a questo convegno come se fosse una cosa vera, una cosa seria. E probabilmente lo è stata, alla fine. C’è una frase di Canetti che dice: ogni biografia, se la si guarda, sembra ridicola; se la si guarda un po’ di più, però, sembra terribilmente seria. Anche questa cosa qua è apparentemente ridicola, però ci sono poi diversi modi di accettare il proprio essere ridicoli. Uno che viene a un convegno sul nulla, è uno che accetta di essere ridicolo, mi sembra, e accettare il fatto di essere ridicolo forse, alla, fine, ti mette nella condizione di dire delle cose serie”.
Qualcuno sostiene che anche l’arte non serve a nulla…
“Può darsi. E poi uno pensa: se non serve a nulla cosa la fate a fare? E ha ragione. Ma è proprio più bello proprio perché inutile. Se fosse asservita a uno scopo immediato sarebbe… In realtà, da un certo punto di vista non serve a niente. Da un altro punto di vista, io non riuscirei, non saprei cosa farei se non ci fossero i libri, per esempio. Sarei fatto in un modo completamente diverso, avrei una testa completamente diversa, sarei vestito probabilmente in un modo diverso, muoverei le mani in un modo diverso. Non servono a niente e mi costruiscono: costruiscono me, che pure non servo a niente”.
Anche i tuoi romanzi qualcuno potrebbe dire che non servono a niente, perché sembrano non portare da nessuna parte: non hanno una trama o perlomeno la trama la capisci e la esaurisci nelle prime pagine e poi le storie girano su se stesse. Eppure qualcosa succede, dentro chi li legge, sicuramente.
“Sì, buona parte dei romanzi che ho scritto sono costruiti così”.
Però, la domanda che rimane sospesa, grande, forte, sul convegno sul nulla è: invece di un convegno sul nulla, non sarebbe stato meglio non fare nulla?
“Quella lì è in un certo senso la perfezione. E però noi siamo consapevoli di essere imperfetti, di essere degli esseri limitati. Del resto, quello che forse ha fatto la cosa più bella è stato Alessandro Bonino, che è stato a casa. In fondo la relazione più riuscita è stata la sua, perché priva di errori. Però, io sono anche abbastanza contento che ci sia della gente che accetta il rischio di sbagliare, anche perché, come dicevo, se non avessi i libri non saprei come fare... Questo fatto di parlare, di raccontare, di trovare una forma non per spiegare il mondo ma per raccontarlo, a me sembra proprio bello, e io personalmente ho bisogno di persone che lo facciano per me. Mi ricordo una volta, un po’ di tempo fa, ero in Sardegna, per 5 anni sono andato tutti gli anni a un festival di poesia, il festival di Seneghe. Quel festival lì era bello anche per la società che si creava: ci si trovava, di sera, alla fine di tutto, al bar, in questo paesino che per 3 giorni cambiava faccia. Una volta ero lì con un ragazzo sardo, Diego Zucca, appassionato di palindromi. Io ho fatto la tesi su Chlebnikov, un poeta russo dei primi del novecento che ha fatto diversi versi palindromi. Diego Zucca è appassionato di Georges Perec, che pare abbia fatto il palindromo più lungo del mondo. E c’era un nostro amico, Luciano Marrocu, che è scrittore e docente di storia contemporanea all’università di Cagliari, e che era stato assessore alla cultura della Provincia di Cagliari e militante dell’ex Pci. Dopo un po’ che sentiva, anche con un po’ di fastidio, ci ha detto: ma voi, invece di far dei palindromi, perché non fate la rivoluzione? Che è una domanda molto bella. Ecco, io, la mia impressione, è che far dei palindromi vuol dire fare la rivoluzione. Essere capaci di maneggiare il linguaggio, essere capaci di parlarsi, di raccontarsi delle cose, noi siam messi in un modo che questo è già una rivoluzione. Una giornata di sei ore dove c’è della gente disposta a ascoltare undici persone che raccontano appunto la menopausa, la materia assente, è quello, in piccolo, naturalmente. Io, come ascoltatore, non mi son mai annoiato, se vado a vedere un film che dura un’ora e mezza mi dico: ma io l’ho già vista questa roba, sembra di averla già vista. Ecco, quella lì è una piccola, microscopica rivoluzione, mi sembra. Certo, parlare non serve a niente, come guardare una bella ragazza, a cosa serve?”.
Paolo Nori. Foto di Mario Murgia