Chiesa e storytelling / Il racconto di Papa Francesco

4 Gennaio 2018

Chi ha orecchi per intendere, intenda. Detta così, ha l’aria un po’ losca, quasi intimidatoria. Eppure la frase in questione ha tutt’altro senso e tutt’altro valore. Si ricorderà che sta nel Vangelo di Marco (4, 9), e chiude la celebre parabola del Seminatore: una delle più note, e delle più complesse, nella pur variegata, ed estremamente efficace, predicazione di Gesù raccontata nel Secondo Testamento. Chi è il buon seminatore? È, diciamo, una figura al quadrato, un personaggio che rappresenta chi lo rappresenta, se si vuole una specie di meta-immagine, ossia la metafora di cosa significa predicare la Parola di Dio.

 

Come il buon seminatore deve sapere trovare il buon terreno dove gettare i suoi semi, analogamente un buon predicatore deve preventivamente selezionare il suo pubblico; e come il primo deve arare il terreno prima di seminarlo, allo stesso modo il secondo deve predisporre il suo uditorio a comprendere ciò che andrà a dirgli. Che è proprio quello che fa la parabola in quesitone. Se difatti Gesù, in un primo momento, racconta la storiella alla moltitudine raccolta sulle rive del lago per ascoltarlo, subito dopo spiega agli apostoli il modo di interpretare la storiella stessa. A ogni uditorio, insomma, un discorso differente, sulla base degli orecchi diversi che ognuno di essi ha per intendere. Non siamo molto lontani, come si vede, dell’odierna pratica comunicativa dell’individuazione del target verso cui ‘sparare’, come dicono maldestramente i tecnici del settore, i messaggi pubblicitari.

 

Perché ricordare tutto questo? Beh, quando si parla della comunicazione della Chiesa cattolica, e del suo Papa in particolare, bisogna volare alto, e tenere a mente, senza alcun intento dissacratorio (anzi…), che se un ottimo comunicatore è mai esistito nella storia non solo occidentale, quello è stato senz’altro Gesù, che di storytelling, per usare un termine oggi assai in voga, era maestro quant’altri mai: raccontava storie per credere e far credere, facendosi lui stesso protagonista di altrettante storie da tramandare nel futuro alla comunità dei credenti o aspiranti tali. E siamo ancora qui a parlarne.

 

Questa parabola torna pertanto alla mente quando si prova e riflettere sulle capacità comunicative e sulle sorti semiotiche di Papa Francesco, di cui si occupa il recente, ottimo volume collettivo curato da Anna Maria Lorusso e Paolo Peverini intitolato Il racconto di Francesco. La comunicazione del Papa nell’era della connessione globale (Luiss University Press, pp. 204, €  22), che raccoglie saggi di estrema raffinatezza critica a partire da un preciso interrogativo di fondo: sulla base di quali processi di senso questo Papa come personaggio pubblico, eroe religioso e mediatico insieme, è molto diverso non solo dai pontefici che lo hanno preceduto, Woytila compreso, ma anche dalla maggior parte dei leader politici attuali, alla fin fine molto simili l’uno con l’altro, e dallo star system in generale, per quanto variegato al suo interno? La risposta non è evidente, anche perché passa dall’esame minuzioso di eventi e fenomeni, testi e rituali, congiunture e strategie anche in apparenza molto diverse, e apparentemente irrilevanti, come quelle, per esempio, riguardanti l’abbigliamento e dintorni.

 


L’abito non fa il monaco, si dice infatti: ma potrebbe fare il Papa. Soprattutto se si estende il vestito agli accessori – scarpe, borse, orologi, occhiali, portafogli, anelli et similia –, dei quali fra l’altro, dato cotanto protagonista, si parla e riparla a più non posso: dai media planetari alle sacrestie di provincia, dai tinelli piccolo-borghesi ai social network più fighi, passando per i quindicinali delle parrocchie, le tv locali, i rumors d’ogni tipo. Facendo il Papa si vive (si mangia, si dorme…) da Papa, certo, ma a quale costo? C’è sempre qualcuno che ti osserva e ti giudica, ti scruta e ti racconta. Nulla è lasciato al caso: e anche i gesti, le situazioni, gli oggetti più banali della vita quotidiana finiscono per diventare segni di chissà quale profondo intento pastorale, per non dire indizi di una possibile volontà divina. Si cambia il cinturino dell’orologio? si sostituisce una lente agli occhiali? si porta da sé un’usurata ventiquattr’ore? si paga il conto dell’hotel con personale carta di credito? Ed ecco scatenarsi le interpretazioni più disparate, le elucubrazioni più varie. Trattasi di destino da star hollywoodiana? di involontario reality show? Ce n’è di che per ritenere che le cose stiano in modo molto diverso, certamente più spirituale, come dire simbolicamente assai più rilevante. 

 

Soprattutto quando abbiamo a che fare col Papa attuale, nemico giurato d’ogni spettacolarizzazione della Chiesa, e che pure subisce – o sembra farlo, con troppo umana rassegnazione – tutto l’ambaradan di telecamere e microfoni, servizi dedicati e dirette televisive, volumi coltissimi e souvenir d’accatto, chiacchiere da bar e pettegolezzi di magazine d’ogni ordine e grado. Da quando è asceso al soglio pontificio, questo navigato gesuita autoribattezzatosi Franciscus ha giocato con una sorta di ambiguità di fondo, paradosso logico o destino ipermediale, rilanciando di fatto la reputazione della Chiesa cattolica, nonché soprattutto la propria identità come massimo rappresentante del Dio cristiano in terra. Da una parte Jorge Mario Bergoglio s’è scrollato di dosso molti orpelli millenari della tradizione ecclesiastica, dai più minuti gesti d’etichetta ai più vistosi rituali liturgici, comportandosi come se i media non esistessero, anzi dando mostra di snobbarli. D’altra parte, ha saputo gestire benissimo, lui e la sua straordinaria equipe di comunicatori coordinata da monsignor Dario Viganò (a cui si deve, fra l’altro, l’ottimo Fratelli e sorelle, buonasera. Papa Francesco e la comunicazione, Carocci, pp. 175, € 14), la propria immagine mediatica, non foss’altro che per tacitare il malcontento suscitato dai troppi scandali erotico-finanziari legati a prelati e pretini d’ogni dove. 

 

Passando al setaccio la gran parte dei segni mediante cui il Papa si esprime – dalle omelie alle encicliche, dai dialoghi alla gestualità, dai tweet all’abbigliamento, dalle forme di comportamento in pubblico alle posture fisiche, dai selfie con i fedeli di mezzo mondo al suo stesso corpo fisico – quel che sembra venir fuori dalla letture del volume di Peverini e Lorusso è la sua grossa capacità di gestione strategica dell’imprevedibilità, ora abbassando al livello comune cose generalmente preziose (il crocifisso al collo è di legno, la ieraticità diviene ironia), ora sacralizzando il banale (la visita ai miserabili delle favelas piuttosto che le messe nelle cattedrali barocche, l’orologio cheap al polso eternamente consultato). Insomma, quelle forti caratteristiche del Papa che molti commentatori hanno subito evidenziato

– semplicità, immediatezza, spontaneità, quotidianità, normalità – sono effetti di senso, non perché artificiali, costruiti ad hoc, ma perché risultano essere perfettamente funzionali agli scopi di riposizionamento (per usare un’orrida parola del marketing) che la comunicazione vaticana si è prefissa dopo – e grazie – la sua elezione. La cura gesuitica per il dettaglio finisce così per coniugarsi molto bene con l’etica (e l’estetica) della frugalità di origine francescana, realizzando quello che in retorica si chiamerebbe un ossimoro, una contraddizione in termini: che, in tempi di liquidità sociale, stupisce molto poco. Resta, cruciale, una domanda: ma lui c’è o ci fa?

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