Il thriller morigerato di Niccolò Ammaniti
A volte, leggendo romanzi, mi capita di sovrapporre mentalmente al rapporto fra autori e personaggi quello fra il regista e gli attori (s’intende, quale può figurarselo un non addetto ai lavori). Alcuni sembrano trattare i personaggi con un rispetto simile alla deferenza: li accolgono con cerimoniosità, concedono loro il tempo necessario per ambientarsi, cominciano a farli recitare solo previo il loro consenso. Altri, invece, li trattano in modo più spiccio e diretto. Niente formalità o convenevoli: appena arrivano sul set si comincia a girare. «Presto, muovetevi», sembra vogliano dire, «c’è una storia da raccontare, non c’è tempo da perdere, mica abbiamo tre mesi per fare le riprese».
D’accordo, io non so nulla di cinema, e in fondo sto solo descrivendo l’impressione che possono fare i romanzi d’azione. Ma non è detto che nella storia narrata accadano fatti clamorosi o insoliti – non subito, comunque. Si tratta, né più né meno, di un effetto della scrittura. È il risultato di un certo atteggiamento assunto dal narratore, che mette gli avvenimenti, vistosi o modesti che siano, davanti a tutto. Quando ciò che racconta è un’inezia, lo fa in modo tale da lasciar intendere che da quell’inezia, per via di inattese combinazioni di circostanze, nasceranno grandi cose. Crimini commessi o scongiurati, scandali, incidenti, catastrofi: basterà quel nulla a farli accadere o a impedire che accadano.
Niccolò Ammaniti appartiene a questa categoria di scrittori: che è la stessa (fatte salve le debite differenze) dei grandi intrattenitori, degli autori di bestseller come John Grisham o Frederick Forsyth. Il primo, basilare messaggio che invia ai lettori è: Ho una storia da raccontare, ascoltatemi. E ovviamente il meccanismo funziona. Andiamo avanti a leggere perché vogliamo sapere cosa succede dopo – e dopo, e dopo (qui sto facendo il verso a Edward M. Forster e alle memorabili conferenze di Aspetti del romanzo): perché vogliamo sapere come andrà a finire.
Questione di mestiere, si dirà. Senza dubbio. Però è un dato di fatto che Ammaniti (classe 1966) è uno degli scrittori più affermati della sua generazione: con Io non ho paura (2001) è riuscito perfino a entrare stabilmente nel cruciale canone delle letture consigliate a scuola. Inoltre, vale la pena di notare che questo suo ultimo romanzo – La vita intima (Einaudi, pp. 302) – arriva otto anni dopo il precedente: Anna (2015), distopia profetica, in cui l’umanità è devastata da una pandemia misteriosa che colpisce tutti quanti varcano la soglia dell’adolescenza. Non commetteremo quindi l’errore di prendere alla leggera il contenuto della nuova storia. D’altro canto, non si può riassumere la trama di un romanzo d’azione senza rovinare ai lettori la sorpresa. Basterà dire che al centro della vicenda è una donna bellissima, addirittura la più bella del mondo, secondo un centro studi americano: un’ex-modella palermitana di nome Maria Cristina Palma, dall’esistenza costellata di lutti e di privilegi, ingabbiata nel duplice ruolo di reginetta del gossip e di moglie del presidente del consiglio.
I nomi doppi di quelle che Gadda chiamava «le Marie proclitiche» suscitano facilmente parodie: e infatti questa Maria Cristina viene chiamata, a seconda del contesto e del mood, Maria Tristina, Maria Cretina, Maria Pompina. Detto molto all’ingrosso, e sempre per via dello scrupolo di cui sopra, la trama della Vita intima consiste del tentativo della protagonista di recuperare, o meglio di acquisire finalmente un’identità autonoma, oltre i luoghi comuni, i ruoli imposti, gli interessi altrui.
Attorno a lei si muove un gruppo abbastanza folto di comprimari: una figlia, un marito noioso e anodino, un amico d’infanzia nel ruolo di devoto tuttofare, un asfissiante entourage fatto di assistenti, autisti, domestici, parrucchieri, personal trainer – a tacere di un misterioso onnipotente social media manager che nessuno ha mai visto di persona.
A dare avvio alla trama è la ricomparsa di un ex di vari lustri addietro, quando la donna più bella del mondo era ancora una smilza ventenne qualsiasi, soprannominata Secca. Di indole insicura e irresoluta, Maria Cristina è poi abitata da una voce critica interiore, che per lei ha assunto le fattezze di una compagna ruvida e spavalda, la figlia del fioraio della Storta, da cui era stata bullizzata ai tempi del liceo.
In generale, La vita intima può essere ascritta alla categoria dei thriller morigerati. La tensione non manca, ma non diventa mai spasmodica; c’è una certa violenza, ma senza particolare efferatezza; c’è sesso, ma senza esagerare (coi tempi che corrono, signora mia); la dimensione visionaria è circoscritta e non va mai fuori controllo; i colpi di scena sono pochi e ben distanziati. Nessuna ricerca di eccesso, nessuna velleità provocatoria. Rimane, ben riconoscibile, la scrittura diretta e efficace tipica di Ammaniti: il fraseggio semplice, il ritmo veloce, movimentato da spiegazioni tecniche, analogie iperboliche, descrizioni fisiognomiche grottesche. Un inciso sulla distinzione fra memoria a breve e a lungo termine: «Secondo alcuni studi la mente registra la nostra esistenza su due nastri […] Queste due categorie di ricordi vengono elaborate in parti diverse del nostro encefalo. Nell’ippocampo memorizziamo le password, nella corteccia imprimiamo il primo bacio».
Le competenze di una temutissima massaggiatrice thai: «Conosce a memoria i duecentotrentaquattro punti del corpo umano da cui sgorga il dolore e lì infila le sue dita per farlo zampillare». Un dettaglio nell’immagine dello hair-sculptor: «qualcosa nella bocca del parrucchiere non torna. Deve essersi rifatto i denti, ha due archi bianchi e smaltati come un bidè di Richard Ginori». Un assaggio della cucina di un nuovo chef: «Prende una crocchetta dal piatto degli antipasti. Ha il peso specifico dell’osmio» (che è 22,5, il doppio di quello del piombo). L’apparizione dell’irsuto tuttofare Luciano, ingegnoso e infaticabile a dispetto dell’obesità: «Un essere ovoidale si affaccia alla porta. Le spalle sono così spioventi che la testa pare avvitata direttamente sulle scapole. I capelli prosperano come un cespo di scarola. La barba dura come nylon si arrampica oltre gli zigomi. Gli occhi nocciola spuntano da sacchetti di pelle scura, sormontati da sopracciglia che crescono spesse sulla fronte alta e piatta come un muro».
La descrizione di una giornalista televisiva famosa (alla quale Maria Cristina concederà un’intervista): «Quant’è vero che luci, trucco e parrucco sono capaci di miracoli, vista al naturale la donna sembra un orcio pugliese dotato di vita. Non supera il metro e sessanta, una dermatite seborroica le copre la schiena e le braccia e sessant’anni di abusi di grassi saturi, zuccheri, alcol l’hanno erosa come il pilone di un molo». L’intervista coincide di fatto con l’acme della vicenda: è in quell’occasione che si svela la potenziale trama di scandali, delitti e ricatti che alimenta la suspense del libro.
Ma di che cosa parla, nella sostanza, La vita intima? Il vero tema del romanzo, a ben vedere, è la paranoia. O per dir meglio, sono le ossessioni paranoidi che assillano la condizione contemporanea: le curiosità smodate, le chiacchiere gratuite, le vanità maniacali, le paure infondate. Nell’insieme, ciò che ne risulta è l’immagine di una società frivola, molto social e molto infelice, prigioniera dei propri preconcetti, ossessionata dai giudizi altrui. Come gli intrattenitori di qualità, Ammaniti sa parlare del mondo reale, del mondo di oggi, in alcuni dei suoi aspetti più distintivi.
Quando la vita sociale, la politica, la comunicazione pubblica assumono la forma di un ininterrotto, coatto spettacolo, gli equilibri interiori e le relazioni personali sono sottoposte a stress difficili da reggere. Il che, per citare Giovannino Guareschi, è bello e istruttivo. Se La vita intima non è la sua opera migliore, Ammaniti dimostra in compenso di avere ancora molte frecce al suo arco. E non c’è dubbio che anche in avvenire saprà farne uso.