Immagini nutrienti

18 Luglio 2015

Il testo è tratto dalla dal primo volume della collana IMM, Not Straight. Documento, piega, inganno, a cura di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni, Moretti&Vitali editore.

 

 

Si dice da ogni parte che viviamo nell’epoca e nella società delle immagini, il che vuol dire non solo che ne siamo immersi ma anche che viviamo della società delle immagini, che ce ne nutriamo, che le immagini sono il nostro cibo quotidiano. Ma che cosa significa nutrirsi di immagini? Che cosa ci danno in pasto? Che cosa mangiamo di esse?

 

 

Quello della fotografia è un bacio di Giuda, dice Joan Fontcuberta, proprio quando cerca di farti credere di essere oggettiva e documentaria, ti sta tradendo e consegnando agli imbrogli della manipolazione. Compito dell’artista è quello di svelare tali manipolazioni, innanzitutto gettando il dubbio sulla presunta innocenza e neutralità del mezzo. In che modo? Certo non contrapponendovi, secondo Fontcuberta, né l’espressione, lo stile, la soggettività, l’originalità, l’autorialità, né la specificità del medium, la sua altrettanto presunta verità, fondamento del modernismo, tutti “miti”, questi, che vanno anzi rimessi a loro volta in discussione perché in realtà stanno alla base di quelle concezioni della verità e della finzione. Non si tratta cioè di opporre verità a verità o finzione a finzione, ma di costruire un ibrido o un terzo tra le due, qualcosa che è palesemente inventato ma potrebbe essere vero, che attraverso la sua indecidibilità non solo decostruisce l’opposizione ma apre su un versante ulteriore.

 

Geoffrey Batchen la chiama “truthiness”, un termine, dice, che non esiste nel dizionario ma in uso nell’inglese parlato. Naturalmente deriva da “truth”, verità, ma ha piuttosto a che fare con “ciò che ti aspetti che i fatti siano, come opposto a ciò che sono”, ovvero “uno scherzo su verità e falsità che è a sua volta una bugia, una bugia che si dice per rivelare una verità più grande sotto di essa”. Per Batchen è una sorta di carattere della fotografia che in realtà ne sottende tutta la storia, che Fontcuberta non ha fatto che portare in primo piano e trasformare in strategia, ripercorrendola peraltro lungo i suoi progetti artistici in forma di rimandi e citazioni. Così l’Herbarium (1984), che è naturalmente un erbario di false piante e fiori composti di elementi vegetali e oggetti di vario genere, fotografate alla maniera “scientifica” della Nuova Oggettività, rimandano non solo a quest’ultima, a Karl Blossfeldt in particolare, ma anche indietro alle origini stesse della fotografia, al primo libro fotografico The Pencil of Nature di William Henry Fox Talbot e attraverso di esso alla distinzione tra rappresentazione e “disegno fotogenico”, come lo chiamava, o impronta diretta; altrettanto la Fauna (1987), sempre immaginaria, rimanda alle prime applicazioni della fotografia alle scienze naturali e ogni progetto, insomma, rinvia a un capitolo della storia e dell’uso della fotografia, dall’astronomia (Constellations, 1993) alle conquiste spaziali (Sputnik, 1997), dalla fotografia di fantasmi a quella della Sacra Sindone (Karelia: Miracles & Co., 2002), agli ultimi ritrovati della tecnologia (Orogenesis, 2002; Googlegrams, 2005).

 

 

“Fontcuberta è qui per testare il punto di rottura della fede” nella fotografia come strumento di rappresentazione, conclude Batchen, e si intende fino al di là della sua veridicità, “rifiutando di concedere qualsiasi distinzione tra natura e cultura, fatto e finzione”. Jorge Wagensberg rincara la dose e insiste: “Per Fontcuberta puoi solo aver fede nel dubbio”.

 

L’artista, quanto a lui, prima ha parlato della categoria del “vero-falso”, che ha definito come “il no man’s land tra l’incertezza e l’invenzione”, specificando paradossalmente: “forse la categoria più pura della nostra epoca”, e più recentemente ha fatto giustamente appello a quella di mimetismo, una nozione che ci interessa doppiamente qui non solo perché introduce una visione ulteriore del rapporto tra verità e finzione, ma anche perché riguarda gli animali, su cui l’artista ha recentemente aperto un fronte nuovo nella sua opera e nel suo percorso che è quello che ci preme illustrare qui.

 

Del mimetismo l’operazione di Fontcuberta ha molto, non è infatti una simulazione, perché la falsificazione resta evidente e un sorriso affiora sempre sulle labbra dell’artista, ma è piuttosto un assumere le forme e i colori del contesto per confondere il predatore, l’osservatore, e metterlo nella posizione a sua volta di osservato, forse anche di minacciato, rovesciamento della piramide della visione, come ha mostrato Jacques Lacan sulla scorta di Roger Caillois. Non si tratta cioè né di sentirsi preda della manipolazione né di illudersi di diventare il predatore che svelando la manipolazione crede di averla vinta. Si tratta piuttosto di cambiare la tattica, di mostrare che le cose non stanno come dovrebbero o sembrerebbero stare. Che sia questa la “verità più grande sotto di essa”?

 

Si noterà che la modalità operativa stessa di Fontcuberta è mimetica: intorno alla figura – pianta, animale o altro – l’artista costruisce infatti una raccolta di materiali che non simula ma imita la documentazione di un caso, le metodologie delle discipline che lo riguardano – botanica, zoologia, archeologia, astronomia… e fotografia – e le loro modalità espositive, secondo una prassi oggi diventata di grande attualità e che potremmo chiamare una versione mimetica dell’archivio, una sua interpretazione post-fotografica, come pure si usa dire.

 

Ora, dicevamo, Fontcuberta ha iniziato nel 1987 con una fauna vera-falsa – potremmo a questo punto anche dire “fantastica” nel senso di Caillois –, un’estensione del quale progetto è stato poi quello specifico sulle sirene nel 2000. Gli animali in questione avevano una particolarità che ci interessa rilevare, ovvero che erano ibridi, incroci di specie e generi diversi, un felino alato (Felis penatus), una scimmia centauro (Centaurus neandertalensis), un serpente fornito di zampe (Solenglypha polipodida) e via di seguito. La tradizione è quella delle Wunderkammern, in cui appunto a essere collezionate erano quelle “meraviglie” dallo statuto ambiguo, misto di artificiale e naturale, indecidibile se opera di uomo o di natura, d’arte o di altra misteriosa energia e materia. La caratteristica era quella, secondo le parole di Adalgisa Lugli, di “permeabilità delle cose e loro possibilità di trasformazione”. Per Fontcuberta sono in particolare tutte “eccezioni alla teoria evoluzionistica di Darwin”, tutti animali evidentemente ritenuti mai esistiti, ma la cui documentazione fotografica – ritrovata nel prezioso archivio del professor Peter Ameisenhaufen, e per le sirene in quello dell’abate Jean Fontana – costituirebbe invece la prova irrefutabile. La strategia di Fontcuberta è doppia: con l’animale impossibile non solo mette in dubbio la nostra convinzione che quando vediamo una fotografia crediamo ciò che vi è rappresentato deve “essere stato” realmente, ma fa emergere il fantastico che si annida nel documentario stesso. Questa ambizione è così forte in Fontcuberta che l’idea di inventare le eccezioni dell’evoluzione corrisponde in lui a quella di ritracciare un’altra storia, di riscrivere la storia appunto non secondo il modello evolutivo. Così anche per gli altri progetti dell’artista: un’altra storia della conquista dello spazio (Spuntnik), un’altra storia della religione (Karelia: Miracles & Co.), della formazione della Terra (Orogenesis), del terrorismo islamico (Deconstructing Osama, 2007), dell’arte (The artist and the photograph, 2001).

 

 

Ebbene, dopo questo primo stadio, Fontcuberta è passato recentemente a uno ulteriore. L’inventore di animali fantastici è passato a utilizzare animali veri. Il gioco tra verità e finzione, è chiaro, continua proprio nel senso che stiamo dicendo: se quelli fantastici erano spacciati per reali, questi “veri” non saranno a loro volta in altro modo fantastici, se è di quel fantastico nel reale che parliamo? E infatti eccoli fare cose fantastiche.

 

Le circostanze sono le seguenti: Fontcuberta vive in campagna e viaggia spesso; quando torna, nelle stagioni umide, trova la cassetta della posta invasa da lumache della specie Gastropoda – che dà il titolo alla serie, avviata nel 2012 – che si sono smangiucchiate la sua posta, perlopiù cartoline di invito a esposizioni con riproduzioni di opere d’arte.  Il fenomeno è di quelli a cui Fontcuberta non può non prestare attenzione: l’uso delle immagini è il tema che sottende tutta la sua opera, mangiarle addirittura è un uso di quelli inusuali che a lui interessano in modo particolare, e che infine siano degli animali a farlo sembra fatto apposta per lui.

 

Due sono le conseguenze più evidenti che ne trae: anche le immagini hanno un ciclo vitale, nascono, vivono, muoiono, vengono mangiate, metabolizzate e trasformate in altro e anche le immagini sono dunque nutrienti. Scrive l’artista: “La biologia stabilisce che le immagini, come qualsiasi altro organismo vivente, hanno una gestazione, nascono, svolgono un loro compito, decadono e muoiono (si trasformano). Gastropoda è un progetto che tratta del metabolismo delle immagini”. Metabolismo qui in senso letterale ma anche metaforico, per continuità con i progetti precedenti: il consumo, l’uso, la circolazione delle immagini. Dunque le immagini, lumache a parte, vengono mangiate dai consumatori che anche noi siamo, da un lato subiscono una degradazione iconica, come mostrano bene le fotografie di quelle prelevate dall’artista, dall’altro lato sono cibo, ci nutrono.

 

Fontcuberta tuttavia non espone le cartoline così come sono, dicevamo, ma le fotografa – o ri-fotografa, se si vuole, perché sono già riproduzioni tecniche, come ci insegna Walter Benjamin – e le espone come opere. Altre due sono così le conseguenze a cui le forza, sottoponendole a sua volta ad altra trasformazione, quella di una fotografia intesa in un modo diverso. Ecco le due nuove conseguenze: di chi sono opera ora? Chi ne è l’autore? E, d’altra parte, che tipo di autore è la lumaca, la natura?

 

Siamo infatti di fronte a un oggetto ibrido sotto tutti i punti di vista, non più solo rappresentazione di un oggetto o situazione ibrida e non solo uso ibrido, per così dire, della fotografia documentaria. Altre lingue che non l’italiano, com’è noto, distinguono con due termini diversi l’immagine come oggetto e l’immagine come ciò che appare sulla sua superficie, per esempio picture e image in inglese. Già a questo livello le lumache, intervenendo sul picture, ne hanno evidenziato la materialità e contemporaneamente hanno trasformato anche l’image, facendo dunque metaforicamente un cibo anche di essa. Non mangiano solo il cartoncino e i pigmenti della picture, ma anche l’image avrebbe dunque un suo carattere nutritivo. Chissà, viene per esempio da chiederci, se le lumache hanno delle preferenze e un gusto estetico? Scelgono le immagini da mangiare? D’altro canto l’oggetto risultante è a sua volta ibrido, sia la cartolina smangiucchiata sia la fotografia che ne ha fatto l’artista. La prima perché diventata altro come oggetto, la seconda perché ritornata immagine. Infine quest’ultima è ulteriormente ibrida perché, come la prima è trasformata da un animale, questa è trasformata da una macchina.

 

Non solo l’autore dunque, ma l’uomo stesso, dov’è finito? In fondo, anche in questo caso, la questione era già implicita nella fotografia stessa: ci si è sempre chiesti che tipo di opera sia questa immagine acherotopa, non fatta da mano umana, e che tipo di autore sia quello che usa una macchina. Si sa che la risposta dell’estetica è del tipo: è un’operazione “concettuale”, un doppio ready-made, prima del lavoro della lumaca, poi del suo prodotto con la fotografia. Una collaborazione? A tre dunque: cioè lumaca-fotocamera-artista, come a rivelare che la fotografia e l’arte – come già aveva ribadito appunto Marcel Duchamp con il ready-made: anche i colori per la pittura sono acquistati pronti – sono già una collaborazione, ovvero che l’autore non è colui che fabbrica l’oggetto, ma… Ma? Colui che concepisce l’operazione? Colui che ha un’idea, una certa idea di arte? La lumaca, la natura non fa arte, lo diceva già Immanuel Kant. È così che è nata la modernità. Fontcuberta dunque torna anche qui sui passi delle origini della modernità, ci chiede: e se non fosse così? Ovvero: e se volessimo pensarla diversamente, visto che già la separazione non è così netta, che già c’è una macchina di mezzo? Ebbene, tutto si rimescolerebbe e saremmo costretti a inventare non animali fantastici ma concetti e modi “fantastici” – fantastici secondo i parametri della modernità.

 

L’arte di Fontcuberta, così ammiccante, così ironica, così spiritosa, ha questa ambizione di voler pensare diversamente e di farlo attraverso l’arte, perché non basta dire: esistono altre possibilità; mettendole alla prova della verità, o del dubbio, come Fontcuberta ha sempre dichiarato di fare, si costringe a rivedere, stavamo per dire a ri-vedere, molte cose. L’artista è al tempo stesso uno scienziato e un astronauta e un attore e un monaco, per citare alcuni dei personaggi che ha impersonato nelle sue “finzioni” – qui vorremmo ora dire più nel senso di Jorge Luis Borges che in quello usuale – e anzi deve passare attraverso di essi per chiamarsi artista. L’autorialità è questo ibrido, sempre secondo i parametri della modernità, ovvero è un atto di trasformazione tanto di sé quanto dell’oggetto. Le lumache ce lo insegnano!

 

 

C’è però ancora qualcosa che forse nelle opere precedenti di Fontcuberta non c’era, o non era evidente. Il lavoro delle lumache non ha l’aria di essere costruttivo, ma anzi entropico e deteriorante. Le immagini vengono sì gustate, ma, dicevamo, consumate e rovinate. Della metafora, ancora una volta, della società del consumo di immagini sembra evidenziato di più l’aspetto negativo, il rimando alla degradazione che il consumo comporta – la sostituzione dell’interiorità con le interiora, di manzoniana memoria, è lampante. Sembrano, queste cartoline e queste immagini di Gastropoda, i resti più che l’elaborazione, tanto meno l’abbellimento, dell’immagine di partenza. Fontcuberta evoca quelle abbandonate da recenti catastrofi come l’uragano Katrina o lo tsunami del Sendai o altri. A noi non possono non venire in mente i décollages di nouveaux réalistes come Mimmo Rotella, Raymond Hains e Jacques de la Villéglé. Quegli artisti, come si ricorderà, negli anni cinquanta e sessanta strappavano i manifesti che, essendo incollati a strati, lasciavano allora trasparire imprevisti frammenti di immagini che stavano sotto e ora ammiccano, mimeticamente, tra i brandelli. Il risultato era al tempo stesso una superficie e delle immagini disfate e consunte ma anche un’altra superficie e un’altra immagine, un collage al contrario, per togliere invece che per incollare, ma comunque una nuova composizione.

 

Dunque – il rovesciamento lo troviamo accennato quando l’artista dice di contrapporre questo suo lavoro al “riciclaggio malinconico di immagini d’arte”, sottinteso “di tanta produzione di oggi” – questa immagine risultante è un’altra immagine, una nuova che va guardata anche in sé. Ma che tipo di immagine? Senza stare a far appello alla nozione batailliana di informe rilanciata in anni recenti o quella lacaniana del bello come velo per nascondere l’insopportabile vista del reale, non c’è anche in questa trasformazione un invito a guardare diversamente? Forse in un modo più vicino a quello della lumaca, meno antropomorfo, meno proiettivo, più sganciato da quello dell’abitudine “umana”, ovvero con uno sguardo “naturale”, capace di vedere il nuovo insieme al trasformato, e per questo di fatto più compiutamente umano.

 

La lumaca del resto non è un animale qualsiasi: ermafrodita, con la sua “casetta” sulle spalle, il guscio dalla caratteristica struttura a spirale, è da sempre simbolo di lentezza, ma nel senso di pazienza e di costanza, di inesorabilità del trascorrere del tempo ma anche di pienezza, completezza e rinnovamento. Lascia una bava dietro di sé nel suo tragitto. Sembra veramente un animale improbabile, fantastico, forse anche inutile. Non è una buona allegoria dell’artista?

 

 

 

È possibile visitare la personale dell’artista spagnolo Joan Fontcuberta ai Musei Civici di Reggio Emilia, nell'ambito di Fotografia Europea, la cui apertura è stata prorogata fino a domenica 26 luglio.

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