Jano, fotografare le architetture barocche

14 Dicembre 2022

A volte l’editoria fotografica riesce a compiere dei veri miracoli: non soltanto per la qualità della fattura del libro o la resa dei toni sulla carta, ma anche per il suo riuscire a riportare a galla tesori sommersi, scoperti a volte troppo tempo fa perché il pubblico ancora se ne ricordi. È così che quest’anno, sotto l’ala dell’associazione giapponese di Kyoto Paragon Art Lab e del suo coordinatore Toshiaki Tsuyama, è tornato in vita Piedmont Baroque Architectures, il monumentale lavoro del fotografo torinese Giorgio Jano, classe 1948, che tra gli anni Ottanta e Duemila ha svolto sulle architetture barocche piemontesi.

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Jano rappresenta in fotografia l’indipendenza e l’innovazione totali. Il suo percorso non si compie nel mero sguardo tradotto in immagine dai mezzi comunemente concessi, ma, prima ancora, nella necessità di dar vita ai propri, costruendo materialmente gli strumenti ottici e meccanici in grado di plasmare ciò che l’occhio già vede a priori. Così Giorgio Jano inventa e costruisce il proprio sguardo, materializza una visione che appartiene a lui soltanto: per affrontare la meraviglia barocca del suo Piemonte decide allora di adottare un metodo preciso, costruendo una macchina che gli permetta di montare l’ottica tedesca Goerz Hypergon, una lente super-grandangolare con un’estensione di 135 gradi. 

In questo modo l’approccio di Jano diventa l’eccezione alla regola secondo cui l’eccesso di attenzione alla tecnica faccia diminuire l’efficacia poetica e comunicativa di un lavoro: il bisogno di costruire deriva infatti dall’osservazione di una mancanza, di un limite imposto dalla disponibilità dei mezzi comunemente offerti e reperibili nel mercato fotografico. Il potenziale dell’occhio è esponenzialmente superiore in confronto alla protesi tecnica che talvolta gli avviciniamo, e perché sia possibile vedere ciò che lui vede è necessario addentrarsi nella meccanica e sfidarla. Ecco allora cosa produce un simile processo: il grandangolo, quando puntato in alto in prospettiva zenitale, allunga e tende i punti più alti che tocca, tanto da rendere irrimediabilmente lontane le volte dipinte, e drastica la caduta delle colonne che sembrano ferirci i bordi degli occhi, intrappolandoli in una morsa ineludibile di marmo e affreschi.

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Una peculiarità dell’Hypergon è la marcata caduta di luce ai bordi molto difficile da contenere, e per arginare questo fisiologico difetto analogico sono state necessarie esposizioni lunghe anche un’ora; la lente diventa allora simbolo perfetto di una visione lenta da far avverare, e dell’occhio che, lentamente aperto dal risveglio, resta in una dimensione alterata da un sogno rivelatosi concreto.

La grande complessità tecnica per la realizzazione di questo lavoro, in cui sono state documentate più di un centinaio di chiese, pare iniziare dal semplice impulso di guardare in su, da un umano atto di meraviglia, dalla voglia di contenere in un solo sguardo l’intera struttura che lo imprigiona. E proprio in virtù di questa radice basilare la fotografia di Jano cede ogni proprietà argomentativa o narrativa, confessando così di non voler dire, bensì di voler mostrare, di rendere disponibile ad altri occhi una visione impossibile che altrimenti rimarrebbe del tutto privata. 

L’unica idea da argomentare è il soggetto reso infine visibile, distorto in un’immagine che quasi pare più verosimile, più corrispondente all’impressione che realmente si ha abbracciando con gli occhi l’estetica barocca, rendendo la distorsione grandangolare in fondo più realistica della visione che l’occhio è in grado di registrare. 

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Il libro, monolitico, riprende in parte la prima edizione di questo lavoro, uscita nel 2007 per Agorà Editore di Torino col titolo Fotomorfosi del Barocco, e vede alternarsi alle volte in visione zenitale alcune fotografie panoramiche sempre realizzate all’interno delle chiese con altre creature tecniche di Jano.

Vedere l’architettura per il significato che assume nell’occhio, oltre alla sua forma che viene impressionata sulla retina, rappresenta un metodo totalmente innovativo in quello che risulta essere un settore fotografico molto ancorato ad alcuni dettami formali difficili da mettere in discussione. La fedeltà alla proporzione, soprattutto, è comunemente un tassello fondamentale per approcciarsi alla rappresentazione architettonica. La necessità di Jano di trovare uno spiraglio verso l’astrazione e lo stravolgimento formale significa rompere uno schema ormai calcificato, intendere la materia solida ed edificata come entità modellabile, trasformabile, immaginabile diversa da come appare, ma più simile a come realmente viene assorbita da chi la osserva.

È in tutto un tipo di sguardo, si potrebbe dire, “barocco” come il soggetto che raffigura: ciò che è per sua natura immobile viene slanciato e reso dinamico, sottoposto a metamorfosi, allontanato dal dato di realtà per avvicinarlo a quello di una più soggettiva verità percettiva. Jano dimostra, in sintesi, che la fotografia può inventare ed essere inventata, amplificare il senso del suo soggetto pur rimanendo – anzi, sfruttando – rigidi confini geometrici e meccanici, come la musica di Bach.

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Come in Bach, la proposta di un unico tema visto e riabitato innumerevoli volte dà vita a delle vere e proprie variazioni fotografiche che l’occhio vedrà comporsi davanti a sé all’insegna di una magnificenza caleidoscopica, del vero dispiegarsi delle forme e dei volumi tesi in una pericolosa vertigine verticale. Il lavoro di Jano sintetizza in un’immagine la moltitudine silenziosa da cui si viene assorbiti approcciandosi all’arte barocca, all’assenza di fughe possibili una volta entrati, alla ridondanza visiva spinta all’eccesso di un inquieto horror vacui. Entrando nelle immagini di Giorgio Jano, tutte realizzate senza mirino, appoggiando la macchina fotografica per terra, prendendo le misure a occhio e aspettando di poter vedere cosa questi fattori aleatori hanno prodotto, si fa esperienza, paradossalmente, del vuoto: un vuoto di coscienza, dal momento che le immagini vengono a tutti gli effetti realizzate – altro paradosso – “alla cieca”, e un vuoto fisico, in cui i volumi scolpiti tendono a sottolineare anziché contrastare lo spazio ampiamente sgombro che li ospita e in cui rende possibile all’occhio di vagare senza ostacoli.

Come afferma anche Bruno Zevi nel suo Saper vedere l’architettura, il concetto fondante della visione architettonica è lo spazio, in particolare lo spazio interno, rendendolo l’idea che ne definisce per antonomasia l’esistenza: non vi è architettura senza spazio, e solo là dove esiste un concetto di spazio, può esserci architettura. È così che Jano pare voler fotografare questa radice d’intendere tutto ciò che nello spazio e grazie a esso l’occhio in seguito ha potuto cogliere e registrare: per questo motivo l’intero corpus di immagini non pare tanto il resoconto estetico di uno stile, né vuole essere didascalicamente messaggero di informazioni relative a un argomento specifico, bensì vuole cogliere una certa spazialità, tendendola ed estraniandola da se stessa, portandone all'estremo i limiti fisici in cui può essere vista e contenuta.

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Ansel Adams diceva che “il mondo esterno non è fatto che di forme, ma noi ne comprendiamo la configurazione, il peso, l’equilibrio, i princìpi. E vediamo e percepiamo anche ciò che è misterioso e intangibile.” Adams rappresenta forse l’esempio massimo in cui controllo tecnico e poetica possano entrare in sinergia potenziandosi a vicenda generando immagini immortali: l’idea di spazio di Adams, fortemente legata al mondo naturale e all’estensione delle conformazioni boschive e rocciose, non è per nulla dissimile a quella che Jano approfondisce fotografando in visioni zenitali e panoramiche le chiese barocche.

Appiattendo nella bidimensione ciò che occupa un volume e che l’occhio è in grado di cogliere in più momenti e non in un solo sguardo, includendo quindi ciò che fisiologicamente gli sta di fronte, di lato e dietro, anche gli archi e le colonne saranno naturali propaggini degli affreschi, segni astratti che comporranno l’immagine ulteriore e onnicomprensiva di ciò che viene impressionato. Ed è in questa vertigine che si compie quel salto che andrà a disorientare a tal punto da far perdere a ogni elemento il proprio nome, la propria funzione – e, quindi, il proprio significato – per trasformarli in elementi grafici per un’opera che ne sarà l’allucinatorio dispiegamento.

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Forse è per questo motivo che viene in mente tanta letteratura del secolo scorso che proprio sulla perdita di significato della parola – della sua radice significante – ha basato la propria poetica trasformando il magma lessicale in una tavolozza per nuove pitture astratte, ed è per questo che Giorgio Jano pare poter dire, dopo gli anni di lavoro alla ricerca delle innumerevoli forme di un’unica immagine, e rubando le parole a T. S. Eliot e al suo Alfred Prufrock che comunque “ [...] ne sarebbe valsa la pena,/ d’affrontare il problema sorridendo,/ di comprimere tutto l’universo in una palla/ e di farlo rotolare verso una domanda opprimente [...]”, quella domanda che vuole indagare la forma, e la forma che prende vita nel tempo di un’immagine e negli occhi che la plasmano, “finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo”.

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