Speciale

Kamikaze: un’interpretazione impropria del raid aereo

6 Novembre 2011

 

L’aereo può essere utilizzato come mezzo per penetrare in aree altrimenti irraggiungibili, paracadutando i raiders oltre le linee nemiche. Si tratta di azioni assai frequenti che però vedono un utilizzo meramente strumentale dell’aereo, laddove il raid vero e proprio comincia con l’atterraggio degli uomini. Quaranta paracaduti italiani furono per esempio lanciati il 14 giugno 1943 nella zona dell’aeroporto inglese di Bengasi; gli aerei sarebbero tornati dieci giorno dopo in una località deserta a sud di El Carruba per il recupero. Tra i due transiti in volo, peraltro indispensabili, si svolge il raid vero e proprio. Sentendosi individuati gli incursori distrussero i paracadute e si divisero in squadre di due, tre elementi per sfuggire ai rastrellamenti; una sola di esse, nascondendosi di giorno nel Gebel e marciando di notte, raggiunse l’obiettivo e fece funzionare le bombe a scoppio ritardato piazzate sotto i serbatoi dei velivoli inglesi. E però anch’essi vengono più tardi scoperti cosicché l’appuntamento con gli aerei va a vuoto e nessuno conclude il raid con il ritorno.

 

Il rientro resta dunque fondamentale anche per il raid aereo nonostante la difficoltà palese in caso di abbattimento. Eppure sono molte le storie di piloti creduti morti e riapparsi quasi miracolosamente sul teatro di guerra. Buscaglia, per esempio, è colpito dagli inglesi nella rada di Bougin il 12 novembre 1942 e, con gran stupore degli ex-compagni, si ritrova nel 1944 a combattere in Italia con gli Alleati: in mezzo uno sganciamento, un ripescaggio e una prigionia negli Stati Uniti dove medita di continuare la lotta restando fedele al re. Antonio Locatelli, uno dei piloti dannunziani del volo su Vienna e asso dei mitraglieri da caccia che passavano a bassa quota sulle trincee, fu protagonista di un rocambolesco episodio di rientro che racconta in Le ali del prigioniero (1924). Mentre a settecento metri sorvolava Fiume per una ricognizione viene centrato da uno schrapnel della contraerea che danneggia serbatoio e fusoliera. Caduto sulle alture vicino alla città, e soltanto claudicante per una ferita al ginocchio, il pilota viene individuato otto ore dopo tra le rocce dove si era rifugiato e di lì portato a Vienna nel campo ufficiali di Sigmundscherberg. Dopo dieci giorni di internamento, travestendosi con l’uniforme di un soldato morto di spagnola e sfruttando il poco tedesco conosciuto, tra marce a piedi, strappi su veicoli militari e tratti in ferrovia raggiunge Innsbruck. Scoperto e arrestato quasi al confine, fugge di nuovo gettandosi dal treno in corsa e riprende la via di casa mentre già da tempo i giornali lo avevano pubblicamente pianto e celebrato; in senso opposto alla propria marcia incontra ora austriaci sbandati e laceri, poi autoblindo e cavalleria italiane che li inseguono, si fa riconoscere – è il 4 novembre -: ha così completato, seppure con un certo ritardo, il suo raid di sottrazione.

 

Ecco perché l’estrema risorsa degli sconfitti escogitata dal Giappone per fermare l’avanzata americana sul Pacifico, i kamikaze, rappresentano un’interpretazione impropria, monca se non addirittura contraria al raid sinora considerato. La “strategia speciale” proposta con forza dal viceammiraglio Onishi a fronte della prossima invasione statunitense delle Filippine, dopo che erano già cadute la Guinea del Nord e le isole Marianne, aveva avuto un precedente forse meno celebre. Proprio in Nord Guinea, nell’estate del 1942, si era assistito al debutto dei nikudan, uomini proiettile che si lanciavano imbottiti di esplosivo contro i tank americani. Tale arma, alla fine dimostratasi scarsamente produttiva, fu abbandonata; dal canto suo il contrammiraglio Arima il 15 ottobre 1944, proprio poco prima del definitivo varo della “strategia speciale”, s’era lanciato in volo solitario contro la portaerei Franklin poco distante da Manila.

 

Gli alleati dimostravano una superiorità militare, quanto a marina ed aviazione, ormai provata da una serie di vittorie incontestabili, mentre sull’altro fronte la disfatta certa si rilevava già alla base, evidenziando la difficoltà produttiva giapponese nello sfornare un numero adeguato di aerei e nell’ormai cronica penuria di benzina. Per invertire la tendenza, con un minimo di spesa e massimizzando i vantaggi, Onishi trovò allora terreno più fertile nelle alte sfere proponendo la ripresa della strategia dei nikudan, applicati però sistematicamente al combattimento in volo. La soluzione era “che il pilota reputasse l’aereo un’appendice del proprio corpo. Occorreva puntarlo contro il nemico, come fa un soldato con il suo mitra […] L’audacia nella collisione si rivelava più determinante della perfezione tecnologica o dell’abilità personale” (L. V. Arena, Kamikaze). Le resistenze furono molte tra i comandanti nipponici, che non accettavano a cuor leggero di sacrificare i propri uomini nell’ammissione di una strategia disperata. I protagonisti stessi, nella quasi totalità molto giovani, sono sempre stati ritenuti dei volontari, ma a volte un sottile condizionamento (i doveri verso l’imperatore ed il sacro suolo della patria, il senso dell’onore che lega ai compagni) scivolava in costrizione come testimoniano le lettere del capitano Seki a capo dell’intera unità delle prime squadre suicide. D’altra parte gli americani non capirono inizialmente – fin dal gesto isolato di Arima – se si trattasse di errore o di malore che portava il pilota a schiantarsi contro le loro navi. Quando il piano divenne chiaro, il disorientamento ed il rifiuto furono le reazioni istintive su cui del resto contavano i comandi giapponesi: qualcosa di incomprensibile e quindi sconvolgente, capace di trasformarsi in un incubo terrificante che si può materializzare in qualsiasi momento nel cielo. Alcune interviste a marinai americani reduci da quelle esperienze confermano tali sentimenti, poi però si cercarono contromosse adeguate e l’esito della guerra non fu mai in fondo messo in questione.

 

Per dar corpo ed anima ad una scelta che abbraccia la morte sicura in combattimento si dovette ricorrere a tutte le possibili suggestioni della tradizione e della poesia, a partire dal nome coniato da Onischi, “il corpo speciale d’attacco del vento divino” (scimpu, o kamikaze, tokkotai). E poi richiami alle figure di età gloriose quale il samurai o al codice di comportamento del bushido, orpelli simbolici come l’hachimaki (la fascia sulla fronte), gli aiku testamentari e la cerimonia del sake prima di salire sull’aereo. I caccia Zero, carichi di 250 kg di bombe, debuttano il 20 ottobre, sono ventisei, divisi, per meglio nascondersi, in squadre di tre colpitori, guidati da piloti piuttosto inesperti, e di due più rodati che fungono da scorta; i loro obiettivi privilegiati sono le portaerei, di cui centrare in particolare le rampe di lancio, che prima di essere riparate potranno così venire aggredite dalla flotta giapponese, la tecnica prescelta è il volo in picchiata a 550 km/h per risultare imprendibili. La Santee e la Swanee subiscono il raid suicida di danneggiamento del primo e del quarto pilota, gli altri falliscono il bersaglio o sono abbattuti dalla contraerea.

 

Da quel momento, per circa un anno fino alla resa finale, 2514 velivoli della marina giapponese saranno inviati in missione tra le Filippine, Formosa e la zona di Okinawa: 1428 (compresi quelli di scorta) saranno perduti, 322 navi americane saranno affondate o danneggiate. L’ammiraglio Onishi confidò al suo collaboratore, il colonnello Inoguchi, “probabilmente non ci sarà nessuno, nemmeno tra cento anni, che vorrà dare una giustificazione a quello che ho fatto io”, ma nel contempo prima di aprirsi il ventre spediva ad un amico il suo ultimo haiku:  

 

Rinvigorita,

dopo il violento temporale

la luna sorse fulgida

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