Anniversari / Ketchum e l’enigma della morte di Hemingway
Ketchum, Idaho. 7,30 di mattina di domenica 2 luglio 1961: iI sessantaduenne premio Nobel per la letteratura Ernest Hemingway, si alza dal letto facendo attenzione a non svegliare la moglie Mary Welsh con cui la sera prima aveva fatto tardi al Christiania, il ristorante d’elezione, dove aveva ordinato, come d’abitudine, bistecca di controfiletto al sangue, patate al forno e insalata alla Cesare, annaffiando il tutto con Bordeaux della casa.
Sul pigiama blu indossa la vestaglia, quella rossa che chiama scherzosamente “da imperatore”, e scende con passo felpato in cantina. Passa in rassegna la sua numerosa collezione di fucili e opta alla fine per una doppietta da piccioni W&C Scott & Son calibro 12 a canne lunghe parallele (e non, come fu frettolosamente scritto da cronisti poco attenti, una Boss & Co. che non aveva neanche mai posseduta). Sceglie con cura le cartucce, carica, risale in soggiorno, si appoggia le canne alla fronte e preme il grilletto svegliando Mary Welsh di soprassalto.
Fra i primi ad accorrere è l’amico Chuck Atkinson, proprietario del Motor Lodge cittadino e del negozio di alimentari del paese, che si prende cura di “Miss Mary” accompagnandola all’ospedale in stato di choc e dettando, a suo nome, una dichiarazione per la stampa in cui informa – bugia pietosa – che Mister Hemingway si era ucciso accidentalmente pulendo un fucile da caccia. Persino il cronista tuttofare di The Haley Times, il foglio locale, nota l’assenza di tutti quei paraphernalia – olio lubrificante, solvente, scovolini, pennelli, stracci e quant’altro – necessari a pulire un’arma. Sorvolando sul fatto che lo scrittore di armi se ne intendeva, eccome.
Lo sceriffo Frank Hewitt e il coroner Ray McGoldrick, che era anche il direttore delle locali pompe funebri, sono unanimente d’accordo nel rinunciare a qualsiasi indagine, anche perché quel 2 luglio del 1961, come riporteranno i giornali, faceva più caldo del solito e con il caldo, si sa, la gente perde la testa.
Dai microfilm del succitato Haley Times (ha chiuso i battenti nel 1968, per cui niente archivio digitale online) si apprende che il servizio funebre, officiato dal reverendo Robert J. Waldman il venerdì successivo (si aspettava l’arrivo del figlio Patrick impegnato in un safari in Africa), durò 20 minuti, che Clifford Goicoechea [sic], uno dei due chierichetti, svenne durante la cerimonia, e che il signor Hemingway venne sepolto accanto a una famosa guida locale, tale Taylor Williams (quella era la “vera” notizia). L’estensore dell’articolo lascia altresì intendere una velata sorpresa per il fatto che il Papa, Radio Mosca e il presidente Kennedy, tutti, all’unisono, si fossero fatti vivi con dei messaggi di condoglianze per quel loro concittadino.
“Uomo immagine” della Union Pacific
L'idea del Grande Scrittore americano del Novecento che si era formata nella nostra cultura tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, scriveva Romano Giachetti nell'introduzione a un suo celebre libro di ritratti: Lo scrittore americano (Garzanti, 1987), era quella del “non letterato” il cui modo di narrare era sempre appena un passo dietro la vita. Un anticonformista, uno a cui non si chiedevano attestati accademici, che anche fisicamente lo si immaginava allo sbaraglio, squattrinato prima di essere celebre, un paio di pantaloni sgualciti, spesso veniva dal giornalismo, le donne le amava brevemente, ma appassionatamente. Se poi faceva parte di quella generazione che si era bevuta la vita nei caffé e bistrot di Parigi, tanto meglio.
Proprio come Ernest Hemingway, Grande Scrittore americano – epitome di quella generazione narrata postuma in Festa mobile – con alle spalle un curriculum letterario da capogiro, con titoli come E il sole sorge ancora, Addio alle armi, Verdi colline d’Africa, Avere e non avere, che, quarantenne, sbarca la prima volta a Ketchum il 19 settembre 1939, raggiunto dalla futura terza moglie, la corrispondente di guerra Martha Gelhorn – mentre era ancora sposato alla seconda, Pauline Pfeiffer, e mentre in Europa si addensavano venti di guerra. Il primo di settembre la corazzata Schleswig-Holstein della Kriegsmarine, la marina militare nazista, in “visita di cortesia” al porto polacco di Danzica, aveva aperto il fuoco sulla città e sulla vicina fortezza di Westerplatte dando il fischio d’inizio alla seconda Guerra Mondiale.
Hemingway era capitato in questo posto sperduto dell’Idaho su invito della Union Pacific, la compagnia ferroviaria che aveva deciso di sfruttare la bellezza selvaggia della valle per costruire, dirimpetto alla cittadina di Ketchum, un lussuoso centro di villeggiatura invernale, battezzato Sun Valley, sul modello di resort europei come Davos o St. Moritz, i cui ospiti, oltre alle velleità sciistiche, potessero dar sfogo ai loro istinti di caccia, pesca e a qualsiasi sport all’aria aperta possibile e immaginabile.
Messa giù l’ultima traversina e terminato l’albergo, il presidente della Union Pacific, W. Averell Harriman, futuro governatore di New York, futuro ambasciatore e futuro personaggio chiave della politica estera americana, chiestosi come attirare villeggianti facoltosi, aveva incaricato di occuparsi del problema un genio del marketing, Steve Hannagan, colui che aveva trasformato una squallida distesa di dune di sabbia in quel paradiso per pensionati che diverrà Miami Beach. Hannagan stilò una “lista della spesa” che, accanto al resort, prevedeva la presenza di una pista del ghiaccio, piscina riscaldata all’aperto con vista sulle montagne, sale da biliardo, di bowling, skilift (un marchingegno allora pressoché sconosciuto in America), insomma un ambiente dove le star di Hollywood, e celebrità affini, avessero un posto dove ammirarsi l’una con l’altra, e i comuni mortali si sentissero in dovere di ammirarli, e soprattutto imitarli, spendendo fior di quattrini per frequentare lo stesso luogo.
Il resort aprì nell’inverno del 1936 e, da subito, vennero invitate “esche” irresistibili come Errol Flynn, Clark Gable, Rita Hayworth, Gary Cooper le cui gesta, più o meno sciistiche, finivano nelle avide cronache dei rotocalchi. Ora, però, il responsabile delle pubbliche relazioni del resort, Gene Van Guild, fece notare che accanto a prevedibili star hollywoodiane mancava «qualcuno come Ernest Hemingway». E fu così che cominciò il corteggiamento e le telefonate.
Lo scrittore cedette all’assedio mentre si trovava in Wyoming dove stava passando una vacanza disastrosa con Pauline e decise, pur senza molta convinzione, di andare a vedere di cosa si trattava. Arrivò senza avvertire, alla guida di una Buick decappottabile con un bagaglio ridotto all’osso, la sua fida macchina per scrivere e il dattiloscritto quasi terminato di Per chi suona la campana. Sebbene l’albergo fosse chiuso perché in bassa stagione, fu riaperto e il futuro premio Nobel venne sistemato nella suite 206 (oggi trasformata in 338) che, pur essendo la migliore disponibile, era arredata in modo talmente spartano che gli amici pensarono bene di prestargli un tavolino per poter appoggiare le sue cose e lavorare.
Sulle prime, alla proposta di diventare “uomo immagine” della Union Pacific, lo scrittore se ne stette un po’ sulle sue, ma si sciolse quando gli fecero visitare un vicino specchio d’acqua – il Silver Creek – abitato da migliaia di anatre di cui avrebbe potuto fare allegramente strage. A detta di testimoni dell’epoca, quella fu la molla che lo spinse ad accettare il contratto di due anni stipulato con la Union Pacific per pubblicizzare Sun Valley. Per la cronaca, questi dettagli, e molti altri relativi al soggiorno a Ketchum di Hemingway, sono narrati da Mathilda “Tillie” Arnold, moglie di Lloyd Arnold, l’allora fotografo ufficiale della Union Pacific, in un’intervista i cui nastri sono conservati presso il dipartimento di storia orale della locale biblioteca civica.
Cavalcava come un sacco di patate
Come passava il tempo Hemingway in quei primi giorni a Ketchum? Tillie ricorda che con Martha Gelhorn andava spesso a cavallo anche se quella era l’unica occasione in cui non volesse essere fotografato. Perché? «Perché cavalcava come un sacco di patate». E, per la cronaca, era una schiappa anche a tennis: di preferenza giocava in doppio con Gary Cooper, l’attore che aveva recitato nel ruolo principale del film Addio alle armi, del 1932, tratto dal romanzo omonimo, e che di lì a poco avrebbe interpretato, al fianco di Ingrid Bergman (altra frequentatrice di Sun Valley) il ruolo del volontario americano Robert Jordan andato a combattere nella guerra civile franchista, in Per chi suona la campana.
La trasposizione cinematografica avrebbe fatto infuriare lo scrittore al punto di essere stato vicino a rompere l’amicizia con Cooper per aver accettato i compromessi della sceneggiatura (comunque i due rimasero sempre vicini e il ventennale sodalizio tra lo scrittore e l’attore è stato raccontato nel film documentario The True Gen, del 2013). Il pubblico fu però di diversa opinione, e il film ebbe un successo strepitoso, con gli uomini che si commuovevano davanti all’eroismo di Cooper (il senatore John McCain disse che il personaggio di Jordan era stato il suo idolo giovanile), e fra le signore divenne di gran moda il taglio di capelli “alla Bergman”. La pellicola ricevette anche ben nove nomination all'Oscar (1944), vincendone solo una per Katina Paxinou come migliore attrice non protagonista, mentre quello stesso anno l’Oscar come miglior film lo vinse Casablanca, pellicola in cui, anche lì, aveva recitato Ingrid Bergman.
“Più di tutto amava l’autunno”
La prima foto “ufficiale” di Hemingway a Ketchum fu presa a pesca sul Big Wood River dove lo scrittore tirò su una trota di discrete dimensioni. Ma quella fu anche l’unica volta in cui si dedicò alla pesca in Idaho. Per il resto fu sempre e solo caccia anche se spesso, mentre Gene, Lloyd, Tillie, Martha e gli altri se la spassano ad uccidere fagiani e anatre, lui era costretto a restare chiuso in albergo a finire di scrivere Per chi suona la campana con l’editore che lo tampinava e gli faceva pressione.
È durante una di queste partite di caccia a cui lo scrittore non partecipa che ci scappa il morto: Gene Van Guilder, con cui Hemingway aveva finito per stringere una buona amicizia, scivola sulla canoa e si spara. Per lui Hemingway scrisse un’eulogia che, anni più tardi, alla luce del suicidio dello scrittore, si adatterà così bene alla sua stessa vicenda che verrà usata come testo per la lapide di un busto eretto in sua memoria nei pressi di un ruscello, poco fuori Sun Valley: “Più di tutto amava l’autunno / le foglie gialle sui pioppi / le foglie che galleggiavano sui ruscelli preferiti dalle trote/ e sopra le colline / il cielo blu privo di vento. / Ora anche lui sarà parte di tutto questo: per sempre”.
Se si esclude questo monumento, defilato dai percorsi turistici, e un librettino amatoriale sui luoghi hemingwayani in Idaho che si vende all’edicola del supermercato locale, il rapporto fra Hemingway e Ketchum sembra essere impacciato e esitante. Forse perché, come ricorda il figlio Patrick in un’intervista, anche questa conservata presso il dipartimento di storia orale della locale biblioteca, Ketchum non ha avuto alcuna influenza artistica sul padre: «Le sue radici erano altrove: Cuba, Spagna, Key West, Parigi». Anche se, poi, questo è il posto che Hemingway sceglie per ritirarsi negli ultimi anni della sua vita tormentati dal demone dell’impotenza creativa, dall’ossessione di essere perennemente spiato dall’FBI che lo sospettava di simpatie comuniste («I federali sono sulle mie tracce», diceva), dall’incubo di inesistenti problemi finanziari che lo spingono persino a fare parsimonioso uso del telefono «perchè costa troppo». Eppure i diritti d’autore gli rendevano più di centomila dollari l’anno, era in credito con le tasse e la 20th Century Fox gli aveva offerto centomila dollari per i diritti cinematografici dei racconti di Nick Adams.
La biblioteca, pur in possesso di materiali inediti e di una collezione di immagini altrettanto inedite dello scrittore, in effetti non può fare granché per pubblicizzare i materiali in deposito perché i proprietari dei diritti si rifiutano di autorizzarne la pubblicazione: si possono solo sfogliare in loco. Uno fra i tanti motivi? Evitare che con quelle diavolerie della tecnica moderna qualcuno possa fare dei fotomontaggi, sostituire una testa con quella di un altro e annunciare al mondo: «Io conoscevo Hemingway».
Certo quelle immagini amatoriali non sono della stessa qualità di quelle che il celebre fotografo Robert Capa, conosciuto nella primavera del 1937 durante la guerra civile spagnola, scattò a Hemingway, a Ketchum, per il settimanale Life, ma rendono abbastanza l’idea di quella che era la vita quotidiana dello scrittore. Eccolo a tavola con gli amici, elegantissimo in completo da cacciatore bianco, tovaglia a quadretti, bicchieri, bottiglie. Eccolo a caccia al Frees Ranch, camicia a grandi quadri, come quelli della tovaglia, cappellino sulle ventitré mentre fissa un fagiano irrimediabilmente morto. E poi c’è Mary con un esemplare di capriolo maschio dalle bellissime corna, anche questo morto, e in un secondo famoso scatto Hemingway con il figlio Patrick che misurano con grande soddisfazione l’apertura delle corna della bestia. Ed eccolo con Gary Cooper a caccia sul Silver Creek, oppure in vena di picnic con tanto di thermos, bicchieri e fiasco di vino mentre è intento a fissare una salsiccia infilata in uno stecco.
Se il soggetto non fosse Hemingway e si dovesse dedurre la sua professione da questa collezione di immagini, si direbbe che siamo di fronte a un guardiacaccia, un boscaiolo o forse un oste. Da nessuna parte l’ombra di un libro, tantomeno di una macchina per scrivere.
La casa sulla collina
Il 1940 fu l’anno del divorzio da Pauline e il secondo in cui passò la stagione invernale a Sun Valley con Martha. Presero alloggio in una suite da 38 dollari a notte che, grazie ai servigi da testimonial, pagava al prezzo nominale di 1 dollaro. A novembre Ernest e Martha si sposarono. Festeggiarono con amici del posto e Robert Capa, che lo aveva raggiunto, come dicevamo poc’anzi, per lavorare a un reportage per Life (“The Novelist Takes A Wife”), contribuendo così ad alimentare il mito hemingwayano e quello della stazione sciistica. Capa immortalerà, poi, in un secondo reportage, l’anno successivo, le avventure di caccia di Hemingway e (“Life Goes Hunting At Sun Valley”).
Nel 1959, al giro di boa dei sessant’anni, Hemingway decise che era ora di cambiare vita, o comunque panorama, passando dall’umido caos caraibico di Cuba (dove, fra l’altro, con l’ascesa al potere di Fidel Castro le cose non si mettevano bene per i gringos americani) alle più quiete montagne di Ketchum e Sun Valley. Considerando poi il suo carattere di accumulatore seriale, peggiorato con l’età (si racconta che serbasse anche le liste della spesa), il clima secco dell’Idaho sarebbe stato più adatto per conservare il suo imponente archivio cartaceo.
L’occasione arrivò quando un facoltoso residente, Henry “Bob” Topping jr, dovendosi trasferire urgentemente in Arizona per motivi di salute, mise in vendita, per la metà del prezzo di mercato, la casa a due piani – completamente arredata e circondata da diciassette acri di terra – che aveva costruito per la moglie sei anni prima in cima a una strada di ghiaia sul lato di una collina, a un paio di chilometri dal centro della città.
«Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono»
Ma l’Hemingway che tornava in Idaho non era quello di vent’anni prima: sia nell’aspetto, che nell’umore segnatamente depresso, il modo di parlare talvolta sconnesso. Scrive Aaron Hotchner, amico e biografo dello scrittore: «Il torace e le spalle hanno perso la loro forza, le braccia sono macilente e informi, come se gli enormi bicipiti fossero stati assottigliati da un intagliatore inesperto».
Ma era soprattutto sul lato psichico che le cose non andavano bene. Gli amici stentavano a riconoscerlo. Un esempio? L’ultima volta che aveva volato dalla Spagna a New York l’aveva fatto con un aereo a elica perché, diceva, era meno probabile che i suoi nemici lo cercassero a bordo di un apparecchio di quel tipo invece che su un jet. Rientrato poi a Ketchum era ossessionato dall’idea che lo sceriffo lo avrebbe arrestato per aver graffiato un’auto durante una manovra di parcheggio. E poi c’erano quegli uomini che aveva visto lavorare fino a tarda sera in banca: senza dubbio agenti dell’FBI che controllavano il suo conto in cerca di prove, per arrestarlo.
Alla fine del ’60 il suo medico non poté far altro che raccomandare un ricovero in clinica e la visita di uno psichiatra. Fu mentre era ricoverato che Hemingway ricevette il telegramma di invito a partecipare alla cerimonia di insediamento del neo eletto presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy, a cui rispose di non poter attendere a causa di problemi di salute. Salute che, a dire la verità, aveva cominciato a precipitare già nel 1954, all’epoca in cui era scampato, per il rotto della cuffia, a ben due incidenti aerei consecutivi in Africa, tanto che, per un intero giorno la notizia della sua morte si era sparsa nel mondo. L’amica Fernanda Pivano ricorda, seccata, la risposta del direttore dell’USIS quando lei gli aveva chiesto se voleva fare qualcosa per celebrare lo scrittore: “Cosa vuole che faccia? Al massimo potremmo andare tutti a ubriacarci all’Idroscalo” (Diari 1917-1973, Bompiani).
E se sul piano fisico lo scrittore si sarebbe parzialmente ripreso, seppure con difficoltà, lo stato psichico andò peggiorando sia per le sedute di elettroshock a cui fu sottoposto, da cui uscì con grosse lacune mentali (mnesiche, dicono gli specialisti), sia a causa di un’accertata encefalopatia cronica traumatica, nota anche come “sindrome da demenza pugilistica”, una condizione patologica indotta dall’accumularsi, nel tempo, di ripetute commozioni cerebrali.
Il 1º luglio 1961 fu una giornata apparentemente tranquilla per lo scrittore, tranne che per il ricorrente incubo della persecuzione da parte dell’FBI. La sera, rientrato dalla cena al ristorante, cantò insieme alla moglie una canzone che gli aveva insegnato Fernanda Pivano, che era solito canticchiare nei momenti di serenità: «Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri, neri come il carbon». Poi al mattino seguente quei colpi di fucile.
«Questa volta sembra essere vero: Hemingway è morto», scrisse Gabriel Garcia Marquez. «La notizia ha commosso, in luoghi opposti e isolati del mondo, i camerieri da lui incontrati nei caffè, le sue guide di caccia, certi boxeur caduti in disgrazia e qualche sicario in pensione. Nel paesino di Ketchum, Idaho, la morte del buon vicino è stata appena un doloroso incidente locale. Il corpo non rimarrà esposto agli uccelli rapaci, insieme ai resti di un leopardo congelato sulla cima di una montagna, ma riposerà tranquillamente in uno di quei cimiteri troppo igienici degli Stati Uniti, circondato da cadaveri amici».
Un breve filmato del funerale si può trovare su YouTube.