Alfabeto Pasolini / La Grecia secondo Pasolini

16 Maggio 2022

Dal mondo antico in poi, “barbaro” e “greco” hanno avuto il senso di termini antitetici. Agli occhi dei Greci, “barbari” erano quelli che parlavano male e storpiavano la lingua greca, “gli altri”, gli incivili, quelli privi di cultura. Una “Grecia barbarica” sembra dunque una contraddizione irrisolvibile, eppure è così che Massimo Fusillo introduce il suo saggio La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema (Carocci, 261 pp.). Il libro, apparso nel 2007, viene ora riproposto con una nuova prefazione, in cui l’autore spiega la scelta di non aggiornare il saggio (un’impresa difficile, vista l’enorme bibliografia accumulatasi su Pier Paolo Pasolini in questi quindici anni, compresa l’opera completa uscita sui Meridiani Mondadori); in compenso, nella prefazione alla nuova edizione, Fusillo ne approfitta per segnalare come il poeta e regista friulano stia diventando ormai una sorta di icona, tanto forte è il fascino che la sua figura esercita sulla cultura contemporanea, nell’arte e nel teatro in particolare.

 

Al centro del saggio di Fusillo ci sono tre opere di Pasolini che hanno come sfondo la Grecia antica, Edipo re (1967), Medea (1969) e Appunti per un’Orestiade africana (1968-1969), due film e l'idea, come diceva il regista, di "un film su un film da farsi". In realtà il saggio non parla solo di questo, visto che quello di Pasolini per la Grecia non è un innamoramento improvviso e circoscritto alla fine degli anni Sessanta; la letteratura greca, e in particolare il teatro, contrappuntano, sin dagli anni dell’università, tutta la sua opera. Per questo nel libro troviamo una lunga sezione dedicata al dramma Pilade (1966-1967), e la lunga discussione sulla traduzione – richiesta da Vittorio Gassman (1959) – dell'Orestea, la trilogia di Eschilo (Agamennone, Coefore, Eumenidi).

In che senso quella di Pasolini è una “Grecia barbarica”? Rivisitando la Grecia del mito nel teatro tragico egli metteva in contrapposizione mondi diametralmente opposti e chiamava di fatto in causa il proprio tempo: da un lato il pensiero magico e primitivo, l'angoscia davanti ai fenomeni inspiegabili della natura, il silenzio del sacro e la inderogabile fissità del rito, dall’altro il razionalismo tecnologico, la logica pragmatica del neocapitalismo, il sentimentalismo borghese e la sua inautenticità. 

 

 

Una “poetica della barbarie”, scrive Fusillo; il mito greco diventa il luogo in cui purezza e genuinità smascherano ogni forma di classicismo e idealismo. Era lo stesso regista a ribadirlo: “La parola barbarie – lo confesso – è la parola al mondo che amo di più”. E si potrebbe aggiungere la "barbarica spavalderia padana" di alcuni "ragazzi del popolo" in un'idea del 1962 non più sviluppata (Viaggio a Citera).

La ricerca di “primitività”, spiega Fusillo, si riflette nel tecnica cinematografica, basata “sulla fissità ieratica dei primi piani, sull’impianto figurativo delle inquadrature frontali, sull’uso insistito dei campi e controcampi, sull’assenza di movimenti di quinta, sulle lunghe panoramiche, sul procedere per frammenti, sul predominio di immagini semisoggettive (la “soggettiva libera indiretta”) e soprattutto (...) sull’uso di attori non professionisti e sul rifiuto della ricostruzione nel set (...), in favore della ripresa in luoghi esotici”.

 

Va letta in questo senso anche la ripartizione del piano verbale e del piano visivo, insomma la nuova relazione tra parola e immagine a favore di quest’ultima, con la conseguente insistenza sul ruolo del gestualità: il sorriso e la risata, l’urlo, il mordersi la mano, il guardare di sottecchi, la rigidità ripetitiva del gesto ritualizzato; quanto alle mani che coprono il volto, Fusillo fa osservare che si tratta di un “gesto che condensa metaforicamente la volontà di non sapere e tutta la dialettica sapere/vedere alla base della lettura pasoliniana dell’Edipo re”.

 

Di fatto il regista spoglia la Grecia antica di tutte le incrostazioni arbitrarie che si sono depositate nell'immaginario occidentale sin dal Rinascimento, una Grecia di marmi e modanature, di statue bianchissime e rocchi di colonna; per non parlare dell’atmosfera “swords and sandals” che i pittori accademici di secondo Ottocento (Jean-Léon Gérôme per citarne uno) avevano suggerito ai registi dei film peplum; c’era stato poi il dionisismo prudente di certa Art Nouveau, penso prima di tutto alla rivista “Jugend”. 

 

Quello di Pasolini è uno sforzo tanto più significativo se si considera che nell’abbozzo giovanile per Il giovane della primavera (c. 1940) – oggi nel "Meridiano" Mondadori dedicato al cinema del regista friulano – aveva immaginato anche lui una "bianca acropoli", "bianchi colonnati", e uno "stadio con le bianche gradinate"; nell'abbozzo di sceneggiatura, però, aveva espressamente indicato tre statue – "Efebo dell'Acropoli di Atene", "Apollo di Tenea", "Nike di Delo" – tutte e tre statue arcaiche.

Pasolini sceglie di sfrondare il mito greco da tutte le superfetazioni posteriori e iscriverlo in una dimensione contadina i cui ritmi determinano pratiche di vita, visioni religiose e concezione del tempo: così facendo il regista si incammina su un percorso parallelo a quello compiuto dalle ricerche antropologiche del Novecento, a loro volta impegnate a recuperare un’antichità senza idilli e senza orpelli neoclassici. È significativo che tra i consulenti di Pasolini per Medea ci sia anche Angelo Brelich, che però chiede al regista di non comparire nei titoli di coda (Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, p. 3140): Brelich aveva scritto Gli eroi greci. Un problema storico-religioso (1958), un saggio corposo e rigoroso che giustamente Adelphi ha riproposto nel 2010.

 

Un esempio di questa attenzione alla dimensione antropologica è il lungo e coloratissimo rituale del sacrificio umano officiato dalla protagonista stessa in Medea. E le ruberie degli Argonauti, che si comportano come aggressivi predoni (“quasi fossero dei ragazzi di vita” scrive Fusillo), assomigliano senza volere alle scorribande che, secondo alcuni studiosi, i Greci – altro che pacifici colonizzatori – compirono in età arcaica ai danni di altre popolazioni costiere.

Il saggio di Fusillo non ci offre tanto una descrizione dello svolgimento dei tre film, quanto un’analisi della loro stratificata complessità. Lo studioso si muove sostanzialmente su tre piani che fa dialogare l'uno con l'altro. Il primo è quello della riscrittura del mito e del rapporto con i drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide, ora accolti, ora lasciati da parte; non di rado si propongono nuove configurazioni narrative (una per tutte il sorprendente episodio della Sfinge in Edipo re), senza contare che un conto sono le sceneggiature, un altro le varianti inserite durante le riprese.

 

Il secondo piano è il parallelo tra le scelte di Pasolini e le interpretazioni dei drammi greci offerte da filologi e filosofi, le riletture e le riscritture di altri scrittori moderni, del Novecento (Hofmannsthal, Cocteau, Anouilh, Testori per fare solo alcuni nomi a proposito del mito di Edipo) e della contemporaneità; non manca il confronto con le proposte di altri registi (ad esempio Lars von Trier per Medea). 

Il terzo piano è il tentativo (particolarmente riuscito) di riannodare i tre film al resto dell'opera di Pasolini (a cominciare  dal teatro), e mostrare come il lavoro sulle tre tragedie sia solo un momento (certo il più evidente) della sua relazione e della sua familiarità con il mondo classico. Fusillo propone anche, in appendice, la traduzione in friulano di tre frammenti di Saffo.

 

Un’analisi serrata delle tre opere che non si dilunga sulle trame, non lascia alcun spazio ad aneddoti sulla lavorazione e sugli attori, parla delle location ma solo per spiegarle all’interno della poetica pasoliniana, un’analisi che si concentra unicamente sui meccanismi che regolano i tre film di Pasolini. Ingranaggi più e meno delicati che vengono sapientemente smontati e studiati in un ambiente asettico, così che quasi li possiamo vedere ordinatamente disposti come sul tavolo di lavoro di un orologiaio; e allo stesso modo riusciamo a distinguere, per così dire, gli inappuntabili arnesi del mestiere. 

 

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