La Roma di Dolores Prato

5 Gennaio 2023

Per molto tempo ho fatto delle passeggiate letterarie per le vie di Roma. Sceglievo un quartiere e ci andavo a camminare per un’ora circa. Di solito in quell’ora non succedeva niente, ma il bello veniva dopo, quando mi proponevo di raccontare per iscritto quel niente. Calandomi nei panni del flâneur mi affiorava sempre in mente una domanda che reputavo insensata, e cioè: Roma sa di essere Roma?

Poi qualche giorno fa mi sono imbattuto per caso in un’intervista di Osvaldo Ferrari a Jorge Luis Borges in cui Borges dice che nel suo ultimo viaggio in Giappone ha sorvolato per due volte il Polo Nord: “È una esperienza strana, che consiste semplicemente nel sentire che si vola sul Polo Nord, perché non si nota niente. Sebbene Maria Kodama mi ha detto che si vede qualche iceberg, ma questo è tutto. E poi, sapere che si sta volando sul Polo Nord, che non sa di esserlo”. E all’improvviso quella domanda mi è sembrata la più importante di tutte.

Per capire se Roma sa di essere Roma bisogna innanzitutto mettersi d’accordo su cosa intendiamo per Roma. Intendiamo la città architettonica? La sua storia? I suoi abitanti presenti e passati? Probabilmente Roma è l’entità ineffabile risultante dalla somma di tutte queste cose, un organismo multiforme senza una testa e senza un cuore. Se fosse un animale apparterrebbe alla specie dei poriferi, le spugne, animali acquatici privi di simmetria che non possiedono organi. Le sue forme, come quelle delle spugne, si adattano per la massima efficienza del flusso d’acqua che la attraversa depositandovi gli elementi che la nutrono.

Stabilito questo, ci si chiederà se una spugna sa di essere una spugna. La filosofia cartesiana attribuisce alla capacità di formulare un pensiero la certezza indubitabile che l’essere ha di sé stesso. Se non si è soggetti pensanti non si è. Quindi l’entità che noi definiamo “Roma” per principio non è, perché priva di res cogitans, ossia di realtà psichica. Tuttavia, nel caso di una città come Roma e, per estensione, di tutte le città e di tutti i luoghi del mondo, potremmo dire che una certa res cogitans le viene di volta in volta prestata da soggetti pensanti che in un certo momento della loro vita si mettono a speculare su di essa e per conto di essa. Tali riflessioni riguardano quella che Cartesio definiva res extensa, la realtà fisica, ampia, ma limitata e inconsapevole. Dunque, Roma sa di essere Roma solo nel momento in cui una mente esterna si innesca nella realtà fisica rappresentata dalla città nell’insieme delle sue tre componenti: architettonica, storica e sociale.

È il caso di questo libro di Dolores Prato che si intitola Roma, non altro, curato da Valentina Polci e pubblicato da Quodlibet. Un libro che a sua volta non possiede un’unità di partenza, ma che è il frutto di un assemblaggio, e che quindi per sua natura assomiglia al soggetto che si impone di trattare. Sono infatti 33 pezzi giornalistici su Roma, scorporati dal loro contesto e scritti in diversi momenti della vita di Dolores Prato, scelti tuttavia nel rispetto delle sue ultime volontà. Di questi 33 articoli, 29 erano già stati pubblicati, la gran parte su «Paese Sera», i 4 restanti risultavano inediti.

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L’interesse di Prato per il racconto della città di Roma si manifesta fin dagli anni Cinquanta, ma trova la sua massima attenzione in vista del centenario (1971) della promozione di Roma a capitale d’Italia. Giunta alla soglia degli ottant’anni di età, Dolores Prato propone a Fausto Coen, già dimessosi da qualche anno dalla direzione di «Paese Sera», una rubrica settimanale che sia, come scrive in una lettera del 9 novembre 1969, “tutta orientata su Roma. Risorgimento, unità, capitalato (!) romano sempre sotto il punto di vista di Roma”.

Il punto di vista di Roma, e non su Roma, dunque. Come se il suo sguardo fosse l’ideale res cogitans da mettere al servizio della città in quel particolare momento storico. E del resto la personalità stessa di Dolores Prato era quanto di più somigliante al carattere multiforme della capitale d’Italia: cattolica e comunista, antimonarchica e antifascista. Scrive Valentina Polci nella postfazione: “L’oscillare fra istanze cattoliche e pensiero laico di impostazione comunista fu una costante della vita della donna, scrittrice e giornalista, tanto che nel ventennio 1950-1970 scrisse contemporaneamente per «Paese Sera», quotidiano nato su iniziativa del Partito Comunista Italiano, e per l’«Osservatore Romano», oltre che per altri giornali cattolici”.

L’intento della rubrica sarebbe stato quello di andare contro la retorica delle celebrazioni. La sua proposta però fu respinta. “Probabilmente proprio a quel punto” – scrive la curatrice – “si fece più spazio il progetto di un vero e proprio pamphlet «sulla distruzione in tutti i sensi che ha subito Roma per averla costretta a diventare capitale d’Italia»”. Dolores Prato a questo proposito scrisse un appunto inequivocabile: “Ragione di questo libro è che un velo bugiardo è su tutte le commemorazioni”. E ancora, in un’altra nota: “da extra corum cantare degli antifonari ho dedotto il titolo: VOCE FUORI DAL CORO”. Il coro ottuso dei commemoranti, contro il quale si sarebbe levata la voce della verità, ossia della città. Una verità che riguardava, si legge ancora nella postfazione, “una visione senza veli delle devastazioni, delle distruzioni che si verificarono a Roma quando la si scelse come capitale del nuovo Regno”.

Tra le pagine si susseguono scritti sul nome segreto di Roma, sul flavus Tevere, sugli sventramenti giustificati dall’edificazione dei muraglioni, sullo smantellamento della spina di Borgo per fare spazio a via della Conciliazione, una strada “nuda come i gambi delle rose ottenute scientificamente: alte fredde, dure, senza odore e senza spine”.

In questa raccolta, allora, Roma sa di essere Roma, o meglio, sa di essere qualcosa di diverso da ciò che è diventata, dalle innumerevoli violenze perpetrate “con la calata degli architetti torinesi subito dietro ai bersaglieri, alle prostitute e ai più furbi speculatori”. Un canto di Roma per Roma. E non per altro.

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