Speciale

Un antropologo racconta la scuola di oggi / La scuola di Gulliver

26 Novembre 2015

Le conversazioni sulla scuola proseguono con Marco Aime, antropologo e scrittore. Aime insegna Antropologia culturale presso l'Università di Genova: come attesta la sua vasta bibliografia ha svolto ampie ricerche sulle Alpi e sull'Africa occidentale e numerosi viaggi – in Algeria, Libia, Tunisia, Marocco, Mauritania, Senegal, Mali, Burkina Faso, Benin, Togo, Ghana, Etiopia, Tanzania, Congo, Botswana, Namibia, Sudafrica, Yemen, India, Nepal, Pakistan Myanmar, Thailandia, Ecuador – hanno nutrito il suo sguardo di studioso e viaggiatore. Attivo sul fronte della divulgazione e della comunicazione, ha dedicato molti lavori ai temi della diversità, del razzismo, dell'appartenenza e dell'identità. Tra i suoi lavori più recenti, un libro illustrati per ragazzi, I piccoli viaggi di Beppe Gulliver, EMI 2014 e Senza sponda. Perché l'Italia non è più un paese di accoglienza, UTET 2015.

 

 

 

 

Una prima domanda che ci stiamo ponendo tutti. Chi è l'insegnante oggi e qual è la sua funzione?

 

Paradossalmente credo che in un mondo sempre più complesso e interconnesso, gli insegnanti abbiano il ruolo di formare individui aperti e non troppo specializzati. Sebbene la tendenza di pressoché tutti gli ultimi governi sia di aziendalizzare la scuola, rendendola strumentale al mercato, è proprio il mercato che poi rifiuta la specializzazione. I percorsi scuola-lavoro del passato non esistono più, occorrono persone che più che nozioni possiedano un metodo. Il paradosso è che mentre da un lato si punta sempre di più sulle materie tecniche, spesso sono quelle umanistiche a fornire quel metodo.

 

Adulti e soprattutto docenti sono in difficoltà nel capire il mondo degli adolescenti, stili di vita e consumi culturali. La scuola è un luogo di congiunzione dei mondi dove la frizione si fa più intensa. In questo senso, a me sembra, il docente dovrebbe essere un “mediatore culturale” non solo in senso 'etnologico'...

 

Siamo in un’epoca di forti mutamenti e non è semplice stare dietro alla “surmodernità” che ci avvolge. I parametri sono cambiati e spesso viene scaricata sulla scuola l’incapacità dei genitori nel seguire i figli. Mediatore? Forse sì, soprattutto perché è proprio nella scuola che si formano i nuovi cittadini. Nella scuola pubblica. È qui che si realizza il vero interculturalismo, con i bambini e con i ragazzi, abituandoli a convivere nella differenza. Il tutto alla luce dei sempre maggiori tagli alle scuole portati avanti con metodica regolarità dai governi di entrambi gli schieramenti.

 

Un suo lavoro recente, La fatica di diventare grandi (con Gustavo Pietropolli Charmet, Einaudi 2014) affronta le conseguenze della scomparsa dei “riti di passaggio”. Cosa significa questo riferito alla scuola?

 

Soprattutto nell’età adolescenziale è importante che ogni società aiuti a costruire il percorso di crescita dei giovani con alcuni punti fermi. Non fosse altro affinché vengano contestati. Il venir meno di questi “gradini” crea una fluidità sicuramente più piacevole, ma anche foriera di incertezze e insicurezze. I riti di passaggio costituiscono eventi collettivi in cui la società degli adulti riconosce ed evidenzia ritualmente, i diversi ruoli dei giovani. Oggi questi riti sono scomparsi o indeboliti e spesso il percorso non è più una scala, che prevede anche gerarchie diverse, ma un piano su cui spesso gli adulti si comportano da giovani e i giovani non riescono a diventare adulti per mancanza di riferimenti.

 

Cosa comporterebbe una ipotetica didattica 'liberata' che ridimensioni drasticamente la richiesta di performance agli studenti e la dimensione istituzionale degli esami conclusivi?

 

Credo che l’esame di maturità sia uno dei pochi riti di passaggio rimasto in vita. La sua pregnanza è però indebolita rispetto al passato. Alcuni decenni fa per molti il diploma era il traguardo finale del percorso scolastico. Dopo iniziava il tempo del lavoro, quello vero, reale e quell’esame rappresentava la spaccatura tra il periodo della formazione e quello della messa in pratica. Oggi, per fortuna, molti giovani proseguono gli studi e pertanto la formazione continua, ma anche la laurea non segna più un passaggio così netto tra scuola e lavoro a causa della mancanza di quest’ultimo.

 

Sull'identità: la scuola è luogo di trasformazione, crescita e costruzione del sé e non è un caso che nell'età delle migrazioni sia anche teatro principale di incontri reali di persone e scontri di civiltà, spesso enfatizzati dai media su questioni come simboli religiosi e calendari tradizionali. Eppure i nostri canoni scolastici sono ancora, nel migliore dei casi eurocentrici, e molti li vorrebbero (come sembra avvenire in Francia francese) più “nazionali”...

 

Purtroppo benché gli stati-nazione siano in crisi e sempre meno forti di fronte al potere delle organizzazioni economiche sovranazionali e delle multinazionali, l’ideologia nazionalista permane. Continuiamo a studiare storia nazionali e mai globali. I nuovi testi scolastici non sono andati al di là di semplici cosmesi, aggiungendo qui e là qualche annotazione su un popolo diverso, su una religione diversa, ma senza mai cambiare davvero il punto di osservazione. Si dovrebbe abbandonare l’uso del “noi” inteso come italiani, francesi, tedeschi, ecc. per usarlo nell’accezione più ampia: “noi umani” e di lì costruire una nuova narrazione della storia, della filosofia, dell’arte e di altre discipline.

 

I suoi libri (come Eccessi di culture, Einaudi 2004 o Cultura, Bollati Boringhieri 2013) sono illuminanti sugli equivoci del multiculturalismo e i rischi dell'identitarismo. Un nodo irrisolto del nostro sistema scolastico è l'insegnamento della religione cattolica (IRC nello scuolese burocratico). Una domanda secca: cambierebbe l'ora di religione con l'ora di storia delle religioni o l'ora di antropologia, facendola diventare materia curricolare?

 

Assolutamente sì e non per una particolare avversione alla religione cattolica, premesso che sono agnostico, ma perché se ero convinto che capire le religioni (al plurale) era importante anche in passato, ne sono ancora più convinto oggi, visto che conviviamo con fedeli di culti diversi, l’occasione di conoscere meglio gli altri è il modo migliore per imparare la tolleranza e per trovare il piacere della differenza.

 

Su Doppiozero si è discusso molto di “nativi digitali”: l'idea di una “mutazione antropologica” o “cognitiva” che riguarderebbe i ragazzi, in senso profondo e neurologico, pare una sopravvalutazione mitizzante e infondata. Qual è la posizione dell'antropologo?

 

Al di là delle spesso facili retoriche comunicative che parlano disinvoltamente di mutazioni (a volte anche di quelle genetiche) come se fossero fenomeni percettibili nell’arco del tempo breve, è innegabile che anche la rete, come ogni importante innovazione tecnologica, porta a modificare molti dei nostri comportamenti e delle nostre relazioni. Oggi siamo in una fase embrionale di questo sviluppo, benché abbia pervaso le nostre vite, la diffusione di massa del web risale a circa quindici anni e i veri “nativi digitali” sono ancora giovani. Inoltre, per il momento, non dimentichiamo che anche i nativi studiano su testi cartacei e adottano ancora modalità di comunicazioni del passato. Siamo in un’epoca ibrida ancora per potere analizzare i mutamenti indotti dalla rete. Per gli antropologi comunque la nuova tecnologia apre altrettanto nuovi terreni di ricerca. La rete, infatti serve alla ricerca ed è essa stessa campo di indagine. È importante analizzare le nuove forme di aggregazione e di comunicazione indotte dai social networks, ma è anche interessante vedere l’uso che viene fatto di una certa tecnologia di matrice occidentale, da persone appartenenti ad altre culture. Pensiamo all’uso del cellulare in Africa, che permette di rompere l’isolamento di chi abita villaggi remoti o dei nomadi. O ancora il modo in cui i migranti mantengono relazioni con famiglie e parenti rimarti in patria grazie a strumenti come skype o simili. Un altro campo d’indagine, sebbene si sia ancora in una fare iniziale, è la trasformazione del linguaggio in forme nuove, spesso più semplificate, ma più adatte ai nuovi media.

 

Lei ha anche scritto sulla propria esperienza scolastica di studente degli anni Settanta: e lì quello che marca la differenza con la scuola di oggi è la dimensione collettiva...

 

I questo caso più che una questione riguardante la scuola, si tratta di diversità sociali, storiche, economiche e politiche. La generazione che ha vissuto da giovane gli anni Sessanta e Settanta era una generazione estroversa, che dava del tu al mondo, collettiva, grazie a idee che circolavano per tutto il pianeta e alle grandi speranze generate dal dopoguerra e dal benessere del tempo. Oggi i giovani mancano di punti di riferimento, sono più introspettivi e meno collettivisti e il loro orizzonte, per colpa della generazione dei padri (la mia) è molto più ristretto a causa del pensiero unico, quello del mercato, e della crisi economica che non consente loro di sognare un futuro diverso.

 

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