L'ardesia e la rete
A circa 200 anni dall’introduzione della lavagna di ardesia, usata per la prima volta a West Point nel 1809, nel 2006 l’allora ministro dell’istruzione Fioroni annunciava l’introduzione della LIM (Lavagna interattiva multimediale) nelle scuole italiane attraverso un piano, poi rilanciato nel 2008, che prevedeva 10.000 esemplari. Il comunicato stampa annunciava un investimento da 20 milioni di euro, che sarebbe entrato a regime per l’anno scolastico 2008/2009: i ministri Gelmini e Brunetta, per l’occasione insieme al premier Berlusconi promettevano che nel mese di dicembre 2009 il progetto avrebbe riguardato circa 4000 scuole, “il 40% degli istituti scolastici principali”, contestualmente a un piano di formazione per 24.000 docenti: “le scuole potranno così sviluppare contenuti didattici digitali, fruirne in rete e utilizzare strumenti di collaborazione come blog, wiki e videoconferenze”.
Anche per l’assenza di dati disponibili e a fronte di numeri vaghi e approssimativi, non è mia intenzione fare il punto della situazione sull’attuazione del piano e sulla retorica della nuova tecnologia (ricordate “le tre I”, internet, informatica, inglese?); devo però considerarlo ancora in atto, visto che io stesso, docente di storia e filosofia in un liceo di Torino, rientro in un piano di formazione che si sta svolgendo in questi giorni.
Ma cosa è una LIM? Tecnicamente si tratta di un computer connesso a uno schermo touch, attraverso il quale è possibile trasmettere contenuti multimediali (immagini, powerpoint o dvd) e collegarsi alla rete; ma è qualcosa di più di un video-proiettore perché la superficie della lavagna è attiva e su di essa è possibile scrivere per poi salvare testi, formule matematiche, figure geometriche, un brain-storming o i risultati di una ricerca web in tempo reale. In termini operativi (parlo da docente di storia) usando lo stesso strumento per trattare la Grande Guerra posso proiettare cinque minuti di Niente di nuovo sul fronte occidentale o di Uomini contro, far partire una linea del tempo, mostrare carte geografiche tematiche, colorate a seconda degli schieramenti e con gli spostamenti di confine, seguire i movimenti delle truppe, commentare le fotografie dal fronte, vedere in video Ungaretti che legge le sue poesie, mostrare documentari (il mio preferito è Scemi di guerra). Analoghe possibilità si aprono per ogni altra materia, tenuto conto di una flessibilità per cui ogni docente può usare lo strumento nel modo che più trova funzionale, dalla semplice funzione di lavagna tradizionale (con un pennarello colorato su fondo bianco), fino alla eclettica combinazione di tutte le altre potenzialità, in una gamma che unisce le modalità della classica lezione frontale a quelle del laboratorio di informatica.
Parlare di LIM oggi significa anche aprire uno spaccato sul mondo dell’educazione per vederne i punti di frizione, i problemi, le possibilità, i risultati e soprattutto la metamorfosi, la mediazione e la negoziazione con la realtà che ogni giorno si affronta in quel particolare luogo di concentrazione delle contraddizioni del presente che è la scuola. Nel mio istituto, popolazione scolastica di circa ottocento studenti e ottanta docenti, c’è una sola LIM, arrivata nel novembre 2010 dopo una lunga attesa. Circa cinque i docenti che ne fanno un uso continuato e sistematico, dieci se consideriamo quelli ‘avventizi’ e oltre venti con simpatizzanti e curiosi; certo c’è anche un limite oggettivo: il bene prezioso è custodito in un aula chiusa, si risponde personalmente dell’uso delle chiavi e si è stabilito la priorità di uso per i ‘pionieri’, divisi per aree disciplinari, che poi formeranno gli altri. Al momento il buon senso, la cortesia e lo spirito di collaborazione permettono di gestire una situazione che altrimenti potrebbe essere fonte di malumori. Perché è già chiaro a tutti che una sola LIM è insufficiente.
Per i ‘miei’ studenti, sedici-diciannovenni cresciuti con la televisione commerciale e satellitare, la rete, le chat e i lettori mp3, oggi fidelizzati di wikipedia (che preferiscono ai libri di testo) e dannati di facebook (che preferiscono a qualsiasi scambio relazionale che non sia quello intimo e privatissimo), la LIM è uno ‘spettacolo!’. La tecnologia è un valore di per sé, l’attenzione è conquistata immediatamente e ha picchi e durata maggiori; lo schermo touch sembra essere davvero fonte di un piacere straordinario e il professore che lo anima, con le mosse da prestigiatore di quart’ordine che ha imparato a usare nel corso del tempo per interrompere la routine, acquista immediatamente qualcosa in più rispetto al professore ‘fenicio’ che si ostina a fare lezione frontale magari stando seduto.
La LIM realizza dunque una pratica differente di insegnamento poiché il docente amplia la gamma di strumenti-vettori di significato a sua disposizione. La crisi del modello di apprendimento ‘frontale’ non è separabile dalla perdita di autorevolezza dei paradigmi sociali che lo sostenevano e il ‘maestro unico’ o il professore gentiliano che da solo attraverso le sue parole dispiega lo spirito davanti alla moltitudine è antistorico, con buona pace di chi pensa che accettare questo voglia dire rinunciare all’educazione trasformando l’insegnante in un tutor-esercitatore.
Se si guarda l’età media della classe docente, considerando ad esempio che nel mio Collegio docenti dopo la cura Tremonti-Gelmini i minori di quarant’anni sono cinque (uno solo a tempo indeterminato o come si diceva un tempo ‘di ruolo’), si comprenderanno i termini di qualcosa di epocale e decisivo come il digital divide, uno iato tra la generazione dei colleghi di lungo corso e quella degli studenti che vivono in un mondo 2.0; e forse gli adolescenti sono qualcosa che ci è già sfuggito. Quello che strega della LIM e che spinge moltissimi docenti di ogni età e materia – sia detto chiaramente – a utilizzare strumenti multimediali (testi, powerpoint e simili, risorse iconografiche, mappe concettuali, tag cloud, video) e a reinventare il modo di fare lezione e vivere la scuola è il potere dell’immagine, che distingue gli stili cognitivi di diverse generazioni, ovviamente con sfumature che derivano dalle storie personali: la lettoscrittura tradizionale e la scuola che abbiamo conosciuto devono confrontarsi con qualcosa di nuovo.
Per restare alle sole discipline umanistiche, penso che fare storia con immagini sia altra cosa rispetto al ‘racconto’ e alla lettura, pratiche che peraltro non scompaiono. Una diversa narrazione del tempo esplorato non necessariamente anacronistica come le simulazioni virtuali di molto documentarismo televisivo ispirato all’eduteinment, ma capace di esporre le fratture temporali mostrando l’iconografia antica e moderna, per poi man mano che si avanza verso l’età contemporanea, utilizzare fotografie e documenti visivi, immagini che esibiscono corpi in movimento e permettono di sentire le voci. Punti di partenza per insegnare a imparare e a selezionare le informazioni, che sono le priorità della nuova educazione alla società.
La visione umanistica della storia e cultura deve tenere conto delle strutture materiali della conoscenza e del modo diverso di funzionare che ha la mente di ragazzi socializzati alla multimedialità fin dalla più tenera età. Uno studente di scuola superiore oggi mediamente vive diviso tra il suo mondo digitale, visuale e ‘liquido’ e quello della scuola, analogico e percepito come arcaico, statico, e, dettaglio non trascurabile, ‘a grafia manuale’. La scrittura nell’era digitale con le e-mail e gli sms è esplosa al posto di sparire, come hanno osservato molti filosofi attenti alle trasformazioni tecnologiche: a scrivere non è la mano che muove la penna, ma le dita su una tastiera. E anche per quelli meno giovani non cambia la sostanza: ogni giorno digitiamo i nostri pensieri per ‘postarli’ da qualche parte, ma quando dobbiamo fare un concorso pubblico con prova scritta, ad esempio nell’università, perdiamo l’uso della mano per un paio di giorni.
La vera sfida riguarda a mio avviso il modo di sviluppare nell’insegnamento il rapporto tra la cultura istituzionale umanistica/scientifica e quella di massa e digitale, che è un aspetto del più generale rapporto tra la cultura alta e quella popolare: una questione che Henry Jenkins ha affrontato in Cultura convergente, un libro di cui si è parlato troppo poco. Il problema della convergenza di culture, nel ritardo storico che l’Italia sconta sul fronte delle nuove tecnologie, si situa soprattutto nella differenza tra crescere nella cultura ‘gutemberghiana’ per poi scoprire quella ‘digitale’ e le sue possibilità immense; oppure nascere direttamente nella seconda senza più essere in grado di comprendere adeguatamente la prima, venendo giudicati spesso da chi si situa solo in quella.
Detto questo, mentre scrivevo la prima versione di questo articolo, nel centro di Torino studenti, docenti e personale di una scuola superiore, con il dirigente scolastico (o la preside, come si diceva una volta) in testa, stavano manifestando per problemi di inagibilità della sede: hanno biblioteca e laboratori chiusi da un anno e nelle aule sono costretti a usare i banchi semidistrutti di qualche decennio fa.