Le donne di Carla Cerati
Se si potesse tracciare la forma originaria da cui tutto prende corpo, quell’immagine latente e fantasmatica che si deposita nello sguardo, da seguire come il filo d’Arianna lungo vie impervie e tortuose, per poi vederla materializzarsi inaspettatamente, nel caso di Carla Cerati, sarebbe un volto femminile. “Questo è il lavoro che io avevo portato all’esame a Brera (…) è un bassorilievo, una ragazza di Genova che era sfollata dove ero sfollata io. Era piaciuto abbastanza, mi si era solo obiettato che la treccia era un po’ troppo grande rispetto al resto”. Il volto di quella fanciulla era destinato all’esame di ammissione al corso di scultura.
Avrebbe passato l’esame, ma non avrebbe mai frequentato l’accademia, né sarebbe diventata una scultrice. Era la fotografia, con un altro volto femminile, l’incontro che attendeva. Nel 1967, al teatro Durini di Milano, l’Antigone/Judith Malina del Living Theatre è illuminante. La scena è spoglia, non ci sono effetti di luce o costumi particolari e la colonna sonora è ricavata dalle voci e dai corpi degli attori. È da questo spettacolo che nascono le Elaborazioni sull’Antigone, ingrandimenti sgranati ed intensi del volto di Antigone con occhi spalancati, lacrime annerite dal trucco, tratti alterati. Volto che collega la Cerati a Paola Mattioli, un’altra “sorella”. Donna professione fotografa del 1974 è lo specchio in cui riflettersi, in cui vedere un’altra madre come lei, che accudisce la figlia e contemporaneamente lavora.
La faccia della Mattioli-fotografa seria e concentrata mentre si china sui provini a contatto, che viene accostata al suo doppio materno, mentre fa delle smorfie affettuose alla figlia, rendono bene l’idea di cosa significa “imboccare, agitare, frullare, solarizzare”. Come rende bene l’idea della condizione femminile un altro dei suoi lavori, Percorso. Racconto in dieci stazioni della vita di una donna, realizzato nel 1977. Qui c’è sempre un volto, ma senza un nome. L’intento è quello di rappresentare la condizione femminile in generale.
Non soltanto una donna-fotografa-madre, ma un volto e un corpo che mettevano in discussione i luoghi comuni associati al femminile: la bellezza, la giovinezza, l’ingenuità. Insomma la donna-bambina incarnazione di un’asimmetria, di una sproporzione tra il mondo maschile, predatorio, e quello femminile, asservito, tra il bisogno maschile di controllare e quello femminile di essere al riparo dai pericoli. Tutto questo sgorga dall’accostamento tra fotografie e parole: Un sigaro è solo un sigaro ma la donna è…, si legge nel Pannello n.3, accanto a una donna sdraiata al sole, in bikini.
Donne che in un altro lavoro hanno invece un nome, Cristina suonatrice di viola, Antonietta collaboratrice familiare, Pamela attrice e la possibilità di esprimere il loro pensiero. Su grandi pannelli di cartone, la Cerati incolla i loro ritratti e scrive le risposte a queste domande: Pensi che la maternità sia il momento più importante nella realizzazione di una donna? Come pensi al tuo futuro? Sei femminista? Mossa dalla curiosità di conoscere un universo complesso, ricco, sfaccettato a cui lei stessa apparteneva, nonostante il suo controverso rapporto con il femminismo. Ricordo una recensione che mi riguardava, un po’ beffarda, apparsa sul Manifesto, diceva: “Carla Cerati col taglio Vergottini, eccetera”, come se io fossi la signora che si mescola agli operai, la cosa mi indignò. (…) Avevo il taglio Vergottini e che sarà?.
Si delinea dunque anche il volto della Cerati, reporter, madre, anticonformista con un taglio di capelli alla moda, tanto impegnata quanto indipendente. Libera e disinibita come la Valentina di Crepax con i capelli rossi, perfettamente a suo agio, ma con un occhio spietato verso quel Mondo Cocktail milanese a cui apparteneva, fatto di vernissages, arte, intellettuali, modelle, bicchieri scintillanti e lunghe sigarette in bocca a donne bellissime. Ma anche di facce distorte, maschere che mostravano il volto di un’altra Milano, quella da bere, del craxismo e dell’individualismo rampante, che di lì a poco sarebbe entrata nell’obiettivo di altri fotoreporter.
Il 1978 segna l’anno preciso della rottura. L’omicidio di Aldo Moro è la causa scatenante, una scintilla nera a cui corrisponde l’insight della Cerati, l’illuminazione, la presa di coscienza repentina: smette di essere fotoreporter. Per anni ho realizzato un lavoro, intitolato “Milano metamorfosi”, che mostra il cambiamento della città dagli anni Sessanta fino alla morte di Moro. Dopo ho smesso di raccogliere materiale. C’è stata come una evoluzione/involuzione. (…) Mi è sembrato una campana a morto. La fotografia che chiude quel lavoro su Milano condensa in un istante le sue parole.
Un ammasso di sacchi di immondizia gettati sotto alcuni manifesti su cui si legge: Aldo Moro è stato assassinato. Vive nei nostri cuori la sua fede nella libertà. I sacchi neri e informi evocano il corpo inanimato del leader democristiano raggomitolato nella Renault 4. L’omicidio ha riaperto la voragine di Piazza Fontana, il buco nero dove sono precipitate le speranze di una generazione, insieme alle foto che di quella generazione erano frutto e riflesso. Sono tappe di un lungo e tortuoso itinerario che la Cerati ha tracciato: i “matti” di Morire di classe, le lotte studentesche, i funerali di Giangiacomo Feltrinelli e degli studenti uccisi negli anni Settanta, il processo Calabresi-Lotta Continua, il mondo della scuola, quello delle balere degli immigrati nella vecchia Milano.
Le parole che chiudono il suo secondo romanzo “Un matrimonio perfetto”: per anni ho sentito parole agitarsi dentro di me (…) ubbidienza, sacrificio, gratitudine, lavoro, onestà, castità, maldicenza, verginità, educazione (…). Ora questa montagna di parole si è condensata ed è esplosa: non sarò mai più la stessa, ma voglio essere me stessa”, aprono alle possibilità di una verità romanzesca contro la menzogna romantica.
Il 1978 chiude un’epoca e ne apre un’altra. La mostra Forma e movimento, in corso alla Leica Gallery di Milano, illustra questo passaggio. Come due binari che corrono paralleli, su una parete si vedono alcune foto del libro Forma di donna pubblicato nel 1978 e sull’altra le immagini dell’Antigone rappresentata dal Living al teatro Durini di Milano nel 1967. Da un lato il corpo bianco, perfetto, levigato, dall’altra una scena animata e collettiva, dove una magnetica Judith Malina, con lo sguardo allucinato, si muove sul palco circondata da una folla di attori. Da una parte solo questo corpo muto e distante, dall’altra un roboante tumulto di vita, dei corpi e delle mani gesticolanti degli interpreti del Living.
Il cambiamento è radicale, l’atelier dell’artista si sostituisce alla strada della fotoreporter. Dal corpo corale di Antigone, dal suo movimento e dal Movimento che agitava quegli anni, si passa al corpo immobile e individuale; dal volto intenso e segnato di Antigone/Judith Malina, su cui si voleva concentrare l’attenzione dell’osservatore, si passa alla sua totale elisione. Fare fotografie di nudo per Carla Cerati rappresentava una sfida. Era stata una fotoreporter perfettamente a suo agio nel ritrarre i corpi delle donne, dei ragazzini, degli operai, dei malati mentali, degli intellettuali. Le mancava proprio un “corpo a corpo” con il corpo femminile.
Ci aveva provato nel 1960 quando un’amica accetta di farle da modella, ma il risultato è deludente. Tutto ciò che avevo visto (…) era svanito, sommerso dalla mia incapacità ad andare oltre, a cercare, a trasfigurare, a inventare. Ci prova di nuovo nel 1972, quando un amico pittore, Anselmo Francesconi, le chiede di realizzare delle foto di nudo che avrebbe poi ritagliato e inserito in quadri-collage. Insieme cercano degli esempi a cui ispirarsi. I nudi di Bill Brandt, le sculture di Hans Arp e Henry Moore, sembrano un buon punto di partenza. Per pura coincidenza, scrive la Cerati fra le pagine del libro, avevo capito da tempo che da lì volevo partire.
Il tronco dai seni candidi e prosperosi, che sarà l’immagine di copertina, le cosce lunghe e piene, la schiena arcuata, il busto rovesciato all’indietro, la curva del ventre leggermente rigonfia, un ciuffo di peli pubici, le natiche perfettamente tondeggianti, costituiscono la forma di una donna ideale, liscia, pura, distante dall’idea di erotismo. Lontana tanto dal corpo dei surrealisti, dall’Anatomia ambigua di Man Ray dove il collo rovesciato di una donna ricorda anche un membro maschile, o dalle Distorsioni di André Kertész dove il corpo viene deformato ed alterato come fosse un elastico.
Lo scultore prende la pietra e cerca di renderla viva, il suo intento è trasformare la pietra in carne, ma Carla Cerati, con la fotocamera, va nella direzione opposta e trasforma la carne in pietra. Rifugge da una corporeità calda e palpitante per approdare ad un’astrazione algida e immobile, traduce la realtà contingente e accidentale di un nudo nella purezza assoluta della forma. La fotografia è lo strumento alchemico di un processo che parte dal particolare per distillarne l’universale: dall’individuo alla specie, dal genere alla forma di donna, e da questa alla pura forma. La figlia Elena e l’amica che le fanno da modelle non hanno un nome, ma solo una forma. Carla Cerati le rende astratte. La natica bianca che si staglia nel centro del fotogramma è un sasso levigato dall’acqua e dal tempo. È puro candore. È di ghiaccio come le belles dames sans merci ottocentesche, tutte immerse nel frigido, nell’insensibile, nel fatale, nell’idolo, come scriveva Mario Praz.
Miravo alla perfezione come punto massimo di non-corporeità, di astrazione dal corpo-soggetto per trasformarlo in corpo-oggetto soltanto per me; per impedire che diventasse oggetto di consumo per gli altri. Analizzarlo, frammentarlo, eliminare il più possibile ogni relazione con la vita (...) privarlo del senso che fino a quel momento aveva avuto il nudo femminile, scrive Carla Cerati alla fine di Forma di donna. L’ideale estetico si ricongiunge così con l’idea etico-politica di un corpo strappato al mercato e al potere, una sintesi kalòs kai agathòs che è la finalizzazione personale dell’esperienza femminista e di tante stagioni di lotta così traumaticamente concluse.
Le foto del corpo della figlia Elena, magro, abbronzato, bagnato, agli antipodi del corpo marmoreo dell’amica, sono la testimonianza visiva del processo che ha portato al suo esito, un prima che è tanto più esplicitamente fisico quanto più contrasta con un dopo totalmente mentale. Lo scarto tra le foto della figlia e quelle dell’amica, sua alter ego, assume così il segno di uno scarto tra due generazioni e due modi di vedere il mondo. Una cesura talmente netta da evocare il taglio di un cordone ombelicale, la prospettiva di una piena autonomia contrapposta alla contiguità carnale o alle diverse sfumature di una “sorellanza” comunque declinata. Nell’intimo dialogo della donna-fotografa con sé stessa, la dimensione “egoista” prevale progressivamente su quella sociale.
Le mani levate al cielo delle performances del Living, giocate interamente sui corpi e nei corpi degli attori, stanno di fronte a foto di forme che ne discendono, ma non vi hanno parentela né somiglianza. L’allestimento della mostra ricalca sostanzialmente il percorso artistico della Cerati, approdata al fascino della forma dopo essere stata affascinata dal movimento. Non si può certo parlare di abiura del sociale, ma di una lenta maturazione di qualcosa che, a ben vedere, è già presente in giovane età. Le foto di Forma di donna ripropongono l’antico amore per la scultura, riportata a due dimensioni sulla carta fotografica, mentre la sua ricerca estetica, nutrita di buone letture e ottime conoscenze, la conduce al primo amore. La testa imperfetta della giovane fanciulla proposta per l’ammissione a Brera, di cui la Cerati per anni ha seguito il fantasma, ha finalmente trovato il suo corpo.
Carla Cerati
Forma e movimento, a cura di Elena Ceratti, Fabio Achilli e Denis Curti
Leica Gallery Milano, 25 gennaio – 8 aprile 2023
Nell'immagine di copertina, Carla Cerati, Living Theatre, 1967.