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AstraZeneca & co. / Le incertezze dei vaccini
La Commissione europea sostiene la scelta dell’Italia di bloccare l’esportazione di forniture di vaccini AstraZeneca verso l’Australia. Lo ha annunciato l’8 marzo Ursula Vor der Leyen, spiegando che la casa farmaceutica anglo-svedese sta distribuendo nel continente meno del 10% delle dosi pattuite. In altre parole, se un’azienda non onora i propri impegni, non ha il diritto di vendere i propri prodotti ad altri interlocutori. È inoltre necessario che la produzione venga avviata prima di avere le autorizzazioni al commercio per essere sicuri di soddisfare adeguatamente la domanda.
Il conflitto fra ragioni economiche e ragioni sanitarie diventa quindi sempre più forte. Ormai si è rivelato decisivo nel far saltare i piani vaccinali dei paesi dell’Unione, che fronteggiano la terza ondata senza avere strumenti adeguati per arginare la diffusione del Covid-19. Alcuni Stati membri hanno già annunciato l’intenzione di provvedere in autonomia, anche a rischio di non avere una strategia omogenea. Questa irrequietezza ha spinto Stefan de Keersmaecker, portavoce della Commissione, a chiarire le normative in vigore, riconoscendo il diritto dei singoli paesi a siglare accordi individuali con i produttori, ma anche sottolineando con forza la centralità dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali), ovvero l’unico organismo ad avere procedure di controllo che garantiscono l’efficacia e la sicurezza dei rimedi adottati.
In Italia la frammentazione arriva anche a un livello più profondo, con diverse regioni che si impegnano in trattative private per garantire l’approvvigionamento ai cittadini. Accade soprattutto nel Nord della penisola, dove il Veneto si è detto disponibile a comprare le dosi aggiuntive offerte dal mercato, seguito da Emilia Romagna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Liguria. È quasi superfluo sottolineare che un orientamento del genere aprirebbe un nuovo fronte di contesa fra poteri locali e governo centrale, aggravando una delle principali debolezze mostrate dal nostro paese durante l’epidemia.
Più in generale, i meccanismi di produzione e distribuzione dei vaccini stanno ingigantendo le incertezze che già tormentano i cittadini da molti mesi, facilitando la diffusione della sfiducia nel sistema economico-politico, ma anche nel funzionamento della ricerca medica e scientifica, evidentemente subordinata alle esigenze di profitto di grandi operatori. Il tutto risulta anche abbastanza paradossale, alla luce del fatto che le formule immunizzanti sono state trovate in tempi strettissimi, a pochi mesi dall’isolamento del virus. Dal canto suo, l’informazione risulta essere molto difettosa, contribuendo a veicolare al pubblico messaggi imprecisi, facilmente fraintendibili e talvolta strumentalizzabili.
Al centro di uno dei più grandi equivoci c’è proprio AstraZeneca. Su questo vaccino, sviluppato con la collaborazione decisiva dell’Università di Oxford, circolano da giorni molte notizie inesatte, nonostante il Ministero della Salute abbia recentemente approvato la somministrazione anche agli over 65. Giovedì 11 marzo c’è stata inoltre la sospensione di un lotto AstraZeneca in Italia, mentre la Danimarca ha sospeso le inoculazioni per sospetti coaguli di sangue, in attesa di accertamenti.
Oltre a essere rallentata, la campagna vaccinale rischia di subire un grave danno sul piano della credibilità. I problemi vanno anche oltre. L’immunologa Antonella Viola (spesso presente su canali televisivi generalisti) ha ad esempio dichiarato nelle scorse settimane che la scelta del prodotto potrebbe rivelarsi non “strategica” ai fini del contenimento del contagio, perché consente di bloccare l’insorgere dei sintomi della malattia, ma non di spezzare “la catena di trasmissione del virus”. Tuttavia il margine di incertezza – come ha sottolineato Martina Platone, esperta di statistica medica – “caratterizza anche le situazioni in cui abbiamo una buona comprensione di ciò che stiamo osservando”. In altre parole, siamo chiamati a usare anche i ragionevoli dubbi a nostro vantaggio, partendo dal presupposto che l’analisi dei dati sulle reazioni dei pazienti è in continua evoluzione e le risposte assolutamente certe negano la natura più profonda del procedimento scientifico.
L’affidabilità di una ricerca o di una scoperta resta quindi strettamente subordinata al grado di trasparenza delle informazioni a nostra disposizione, dentro e fuori dal mondo degli specialisti. In tal senso, risulta utile l’analisi di un fenomeno che ha trasformato le modalità con cui la ricerca biomedica viene realizzata e comunicata. L’urgenza di condivisione dettata dall’emergenza ha infatti contribuito a far esplodere le pubblicazioni in “preprint” negli archivi online disponibili. I singoli studiosi o i gruppi di lavoro sono spinti a intraprendere questa pratica per valorizzare il proprio operato, alimentare legittime ambizioni di carriera, mostrarsi competitivi, nonché salvaguardare gli interessi economici dell’istituzione o dell’azienda per la quale lavorano. Da un lato, questa veloce condivisione ha risvolti positivi perché mette a disposizione di tanti operatori i risultati parziali della ricerca in tempi strettissimi. Dall’altro lato, tuttavia, viene a indebolirsi uno dei cardini del meccanismo di valutazione del lavoro scientifico, la cosiddetta “peer review”, vale a dire la revisione incrociata degli articoli da parte di altri studiosi che verificano la correttezza del metodo adottato, il rispetto dei passaggi richiesti e l’attendibilità della tesi proposta. Non sono mancate denunce riguardanti la diffusione fraudolenta di dati inesatti e in fondo era preventivabile: le regole stanno rapidamente cambiando e, di conseguenza, si stanno moltiplicando i rischi annessi.
Questi problemi risultano inevitabilmente legati anche alle enormi contraddizioni che oggi osserviamo intorno all’universo dei rimedi anti-Covid. Nel momento in cui l’accaparramento di fiale rimette al centro del discorso pubblico il concetto di sovranità – in questo caso si parla di “sovranità vaccinale” – emerge un’evidente incapacità di promuovere l’uso socialmente utile della conoscenza. Il virus è un nemico comune per l’intero pianeta: negli ultimi 12 mesi abbiamo imparato a conoscerlo, a temerlo, ad affrontarlo, a frenarlo, ma non riusciamo a formulare un piano di attacco comune, capace di superare i particolarismi territoriali ed economici. L’epidemia diventa al contrario un terreno di contesa geopolitica, e rimette al centro del discorso pubblico l’asse atlantico che lega l’Unione Europea agli Usa, il ruolo della Russia o quello della Cina. Uno dei tanti esempi possibili è dato dall’Argentina, che ha vissuto un pesante aggravamento della sua crisi economica e, soprattutto grazie alla spinta propulsiva della comunicazione peronista, ha letto l’arrivo del vaccino russo Sputnik come un passo importante dell’emancipazione del paese (e di conseguenza dell’intero continente sudamericano) dall’egemonia statunitense.
Il nodo fondamentale resta comunque il sistema di proprietà intellettuale dei brevetti, che non consente di produrre fiale in un numero maggiore di stabilimenti farmaceutici. Di recente l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha accolto un’istanza dei paesi in via di sviluppo, chiedendo di sospendere temporaneamente i diritti delle aziende per accelerare sia la produzione che la distribuzione dei vaccini. Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Regno Unito si sono opposti con fermezza. Le motivazioni dei sostenitori di questa scelta sono facilmente spiegabili, almeno in apparenza: sottrarre ora possibilità di profitto ai privati – affermano – potrebbe disincentivare in futuro il finanziamento della ricerca e compromettere i potenziali progressi tecnologici. In altre parole, la chiave dell’intero sistema starebbe nella disponibilità imprenditoriale al rischio e gli investimenti resterebbero strettamente subordinati alle possibilità di guadagno delle aziende (proprio in questi termini si è espresso il noto quotidiano conservatore The Telegraph).
Queste tesi non tengono tuttavia conto dell’enorme impiego di risorse pubbliche a sostegno delle case farmaceutiche che hanno sviluppato gli stessi vaccini. La sola BioNtech ha ricevuto 375 milioni di euro dal governo tedesco e 100 milioni dalla banca europea per gli investimenti. Moderna, AstraZeneca e Pfizer hanno beneficiato di aiuti ancora più ingenti, sia in termini di supporto diretto alla ricerca da parte degli Stati, sia nella stipula di contratti di acquisto delle dosi prima ancora che i brevetti venissero sviluppati. In altre parole, ci sono sufficienti elementi per affermare che uno dei principali incentivi verso l’innovazione, anche nel settore privato, derivi dall’uso massiccio delle entrate garantite dai contribuenti. Il discorso si rivela ancora più stringente di fronte a una crisi globale, con diversi paesi ricchi che sembrano sempre più aggrappati alla convinzione che basterà pagare i produttori per uscirne.
Non sono bastate negli scorsi mesi le richieste provenienti dalle aree più povere del pianeta – sostenute anche dall’ufficio per i Diritti umani delle Nazioni Unite – per sospendere l’accordo TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), finalizzato alla protezione di copyright, marchi, brevetti, i layout per i circuiti integrati e segreti commerciali. Il grido di allarme è rimasto inascoltato: i trasferimenti di tecnologia rimangono difficili e i prodotti medici necessari per affrontare l’emergenza restano una pesante fonte di disuguaglianza. Una soluzione intermedia potrebbe essere la concessione volontaria delle licenze da parte delle case farmaceutiche e il sostegno a Covax (Covid-19-Vaccine-Global Access Facility), un progetto congiunto che coinvolge fra gli altri l’OMS e l’UNICEF. Ma queste piattaforme stentano a decollare e le conseguenze delle incertezze mostrate dagli operatori sono devastanti anche sul piano strettamente epidemiologico. Mentre la politica e l’economia sembrano persistentemente legate al concetto di confine e interesse territoriale, il virus non conosce barriere nella sua diffusione. Inoltre è utile sottolineare, anche se dovrebbe essere ormai scontato, che la distribuzione non omogenea dei vaccini mette a repentaglio il raggiungimento di quello che dovrebbe essere l’unico obiettivo comune: l’immunità globale. È di fatto miope garantire ad alcune aree una completa copertura, mentre altre rimangono a secco.
I problemi sul tavolo sono dunque enormi e riguardano il complessivo rapporto fra scienza e società, nonché la nostra idea di progresso. Bisogna chiedersi, prima di tutto, se il mercato da solo può essere sufficiente a definire obiettivi collettivi, che prevedano una corresponsabilità profonda da parte delle forze politiche e dei cittadini, soprattutto in settori cruciali come la sanità e l’istruzione. È utile ribadirlo ora più che mai: la ricerca scientifica è un’impresa collettiva, fondata su una comunità ampia e transnazionale che si muove sulla base di regole ben definite, grazie a diversi esperti che lavorano in enti di controllo, che si sorvegliano a vicenda e che coprono tutti insieme ruoli di cruciale importanza per la vita pubblica, facendo in modo che il bene della comunità venga prima del bene dei singoli. Deve quindi innestarsi su basi istituzionali solide e su un radicale rispetto di principi democratici, senza sostanziali ambiguità. Legare i destini di miliardi di persone a un ristretto gruppo di individui, di aziende, o di interessi particolari non è una scelta lungimirante, né minimamente plausibile.