Le parole fanno male
Per reggersi in piedi la democrazia deve trovare un equilibrio. Spesso però è incerto e malfermo, come dimostra, tra gli altri, il diritto alla manifestazione del pensiero, segno distintivo del vivere collettivo, spesso dalla vita accidentata di cui è esempio l’attuale dibattito sul “politicamente corretto”. Esso è sceso in campo ripetutamente, come nella polemica sulla punizione di alcuni comportamenti (ad esempio le proposte di legge Zan), oppure intervenendo su linguaggi e contenuti dai temi sensibili (razzismo, colonialismo, religione, sessismo) per renderli ‘corretti’ e ripuliti secondo rigidi canoni predeterminati. Non a caso Orwell in 1984 usa la “neolingua” come pretesto del potere per governare attraverso regole rigide e ottuse.
Come valutare quest’approccio? se criticabile come reagire? È il quesito che si pone un contributo recente (Parole cattive, La libertà di espressione tra linguaggio, diritto e filosofia, a cura di Di Piazza e Spena, Quodlibet, 2023). Taluno ha notato come questo approccio si presenti come sovversivo in quanto assegna alle minoranze una doverosa “arma immateriale” di pressione. Come nelle riforme religiose il terrore che incute, proprio perché proviene da un’area subalterna, si manifesta talora difettoso o eccessivo con la forma dell’iconoclastia, in lotta contro le immagini, con statue abbattute e memorie cancellate (Ronchi, in questa rivista, 2021). Il volume in esame critica invece senza distinzioni il “politicamente corretto” ritenendolo il risultato di un conformismo perbenista che impone un accordo appiattito, accecante nell’assenza di colori e intransigente verso i disturbatori. Incline alla censura nell’imporre una direzione unica, esso declama ostracismi, sbandiera supposti crimini del pensiero, colpisce discorsi imbarazzanti, propone un’ortodossia manichea che fa e disfa carriere di artisti e studiosi. Nel mondo dell’arte, ad esempio, le opere non sono più valide per le qualità estetiche ma per la natura del discorso, e gli artisti, se convinti di trovarsi dalla parte del bene, si atteggiano a sciamani e salvatori dell’umanità (I. Barbéris, L’art du politiquement correct, Presses Universitaires de France, 2019). Purtroppo il controllo sociale che punisce le deviazioni dalla norma e pone all’indice il colpevole è una storia antica che ci si augurava dimenticata. Il pensiero liberale è infatti intriso di dubbi, in perpetuo movimento nel mettere in discussione le apparenti certezze, si scontra con le ideologie che intendono cambiare il mondo secondo un modello rigido sui principi etichettando chi la pensa diversamente come un nemico da bandire.
Criticato il ‘politicamente corretto’, il volume tratta un successivo profilo: tutelare le parole comunque anticonformiste, “cattive” (p.75) che consentono di difendersi dal pensiero irrigidito, dalle verità ufficiali inseguendo la trasparenza, oggi però valore in corso di aggiornamento. Sono scolorite infatti le battaglie degli anni 60-70 quando l’opinione pubblica era il mezzo per sfondare i vetri oscurati del Palazzo del Potere che impedivano di vedere all’interno. È vero che Freud aveva già segnalato le “perdite di godimento” subite dall’uomo quando questi si è inserito nei legami sociali per ottenere tutela. Oggi la comunicazione presenta nuovi volti svincolati dai legami tipici del dialogo faccia a faccia, trasformando la sfera pubblica in un’arena (non a caso una trasmissione di successo), schiacciata dal bisogno del “realismo trasparente”. Domina incontrastata la richiesta della verità ad ogni costo, sostenuta da una folla anonima in cui tutti sono giudici e pubblici ministeri, popolata da forum e social network che pretendono di sapere tutto di tutti, spesso invadendo senza rispetto la riservatezza individuale in nome dei valori della libertà. In quest’epoca di trionfante nudismo psicologico “il segreto cede davanti al diritto alla conoscenza concepito ora come diritto assoluto… mentre era nato dall’esigenza dei cittadini di controllare il potere. Oggi invece lo minaccia con i suoi eccessi divenendo ideologia.” (Olivennes e Chichportich, Mortelle transparence, Albin Marcel, 2018).
Il volume sviluppa gli argomenti basandosi sulla distinzione classica tra i fatti (verità) e le opinioni (valutazioni), anche se nella vita politica maggior credito della verità ha avuto l’opinione in quanto riconosciuta tassello fondamentale della democrazia. E questo per la rilevanza del pluralismo ed anche per essere le decisioni dell’attore politico frutto di ragionamenti mai definitivi. Il discorso, in realtà, oggi è più problematico in quanto, in una società frammentata e senza intermediazioni, le opinioni non dovrebbero circolare, come invece spesso avviene, a briglia sciolta, ma avrebbero il compito di rispettare le verità fattuali che ne sono alla base, anche se non di agevole recepimento.
Lo schema d’indagine del libro è stimolante. Innanzitutto si occupa della “parresia” desunta dal Gorgia di Platone, intesa come verità e franchezza nell’esporre le proprie ragioni confidando che la parola consenta di giungere alla “rivelazione” (p. 20). Questa parte del saggio esamina il paradosso del cospirazionista che svela verità nascoste, non evidenti, e ricorda anche la figura dell’“assumiste”, quel teorico della cospirazione che rivendica la sua condizione di complottista e quindi le proprie idee anche se contrarie all’opinione comune (Dieguez, Au coeur de la post vérité, PUF 2018).
Il secondo capitolo è dedicato alla “verità” sempre in rapporto alla libertà di parola. Il problema è delicato in quanto si relaziona al progresso scientifico: la verità acquisita deve essere tutelata oppure deve confrontarsi con i nuovi risultati della ricerca e con il rischio di soccombere? Se esiste una richiesta democratica alla verità, nel contempo è necessario immunizzarsi da quelle fallaci e devianti che intaccano la costruzione dell’opinione collettiva. Costituisce un esempio scolastico, in tema di negazionismo, lo scalpore per la posizione di Chomsky, intransigente radicale ed ebreo dichiarato, quando presentò nel 1980 il libro di Robert Faurisson che contestava le camere a gas nei campi di concentramento. Chomsky, ammettendo di non aver letto il testo, sostenne il principio che l’autore poteva esprimere qualunque idea anche su quel tema specifico (Mémoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire. La question des chambres à gaz, La Vieille Taupe, Paris, 1980]. Alle numerose critiche obiettò con le “Réponses inédites à mes détracteurs parisiens”. Al proposito il volume presenta un dibattito articolato. Taluno (Maniaci) ricorda l’insegnamento della giurisprudenza italiana secondo cui occorre rispettare la verità nel discorso pubblico quando questa si è formata in modo corretto e propone l’intervento di un arbitro per estirpare credenze false su temi sensibili. Altri invece (Schiavello) ricordano che esistono verità non solo scientifiche ma anche morali, che occorre abituarsi alle controversie soprattutto rifacendosi a scienziati indipendenti e attenti al valore della tradizione. Infine sono dedicate alcune riflessioni pungenti (Cimatti) sulla discussione aperta da alcuni filosofi in tempo di Covid (Agamben e Cacciari), i quali si espressero con riflessioni molto controverse, quasi si contestasse la legittimità a dirle e non il loro contenuto. La conclusione è che “si ammette la libera discussione solo a patto che non si metta in discussione la paura,… pulsione in azione quando qualcuno cerca di portarla alla luce” (p.75,76).
Quindi il volume si occupa del “riso”, di quella manifestazione satirica non basata sulla verità ma sulla parola paradossale che sdrammatizza, deride, dissacra, rompe “tabù”. Provocatoria per eccesso, può dileggiare o assumere toni grotteschi anche verso personaggi pubblici o autorità religiose. Ma la parola che suscita il riso è una forma di violenza, può toccare ogni argomento e ogni persona senza limitazioni? Per cominciare, secondo gli autori, il riso richiede la “disponibilità” dell’interlocutore, cioè deve rivolgersi a un pubblico individuato, a un “target” dotato di capacità di tolleranza per evitare che il riso si tramuti in offesa, questa mai consentita.
Capitolo successivo, di particolare delicatezza, è come porsi rispetto all’“odio”, a quell’opinione offensiva del potere verso alcune minoranze. Reprimere? Tollerare? Come distinguerlo dall’ingiuria? (di recente sul tema specifico, Tesauro, Parole che separano, Cortina, 2023). Il suo contenuto, secondo gli autori, si deve collocare in una dimensione pubblica perché, anche in questo caso, deve identificarsi in un gruppo disposto ad appropriarsi di quelle modalità espressive. L’Italia dal 1975 ha fornito linee guida e talora sanzioni per discorsi o propaganda fondati sull’odio razziale, su condotte mosse da motivi etnici, nazionali, religiosi e omofobi. Come la recente vicenda del politico leghista punito per alcune frasi rivolte all’allora ministra Kyonge. La Francia, ad esempio, colpita dalla vicenda Charlie Hebdo, non ha il reato di blasfemia, ma pur condanna in Tribunale ripetutamente il comico Dieudonné per frasi che hanno accoppiato sui “social” il nome di Charlie a quello di un attentatore di un mercato kosher (“Je suis “Charlie Coulibaly”, p.93).
La libertà è un bene delicato, da maneggiare con cura. L’impulso di potersi esprimere senza compressioni è vissuto come una conquista, con la conseguente insofferenza per le regole e quindi il generarsi del ribellismo a favore di una libertà libertaria e onnivora. Il tema è sensibile in quanto superare il “politicamente corretto” non significa automaticamente propugnare una libertà senza pastoie, come segnalano Maniaci e Schiavello quando si confrontano sulla nozione di libertà propugnata da Stuart Mill. La libertà di espressione “non è uno stato di eccezione, ma impone di essere calibrata” (p.95), anche perché “il linguaggio è una prassi orientata verso finalità collettive tali da anteporre il noi all’io, e così implica doveri e responsabilità comuni” (R. Esposito, Relazione sul linguaggio, Festival filosofia Modena, Carpi, Sassuolo, 2023).
La libertà di espressione, in Italia come in Europa, non è la libertà all’americana, assoluta e basata sull’autolimitazione del Primo Emendamento del 1791, secondo cui “il libero mercato delle idee”, cioè la concorrenza tra le opinioni è il mezzo migliore per consentire alla verità di imporsi, come osservava il Giudice Holmes nel 1919. Per eliminare ogni vincolo al progresso, il libero mercato delle idee implica “la libertà di pensiero, non per chi condivide le nostre opinioni, ma per coloro che professano idee per noi odiose”. Negli anni ‘70 l’American Civil Liberties Union, ad esempio, difese la libertà del partito neonazista di sfilare in un quartiere popolato da sopravvissuti all’Olocausto. Questa impostazione discutibile era figlia di un contesto influenzato dalla repressione indiscriminata di supposti comunisti, come illumina solarmente la recente pellicola Oppenheimer di C. Nolan. Del resto è monolitico lo scetticismo americano nei riguardi dello Stato considerato più una minaccia che un garante dei diritti, stante la fiducia incrollabile in una mano invisibile che regola il libero mercato, anche delle idee. Tale approccio ha portato a non prevedere restrizioni ai discorsi d’odio o di discriminazione. Nel 1992, ad esempio, la giurisprudenza si schierò a favore dei suprematisti bianchi ritenendo che il regolamento all’origine della loro condanna per aver bruciato la croce in un giardino di afroamericani fosse incostituzionale. E questo perché la sanzione per l’incitamento alla violenza per ragioni di razza, religione o genere si fondava su un assunto ideologico, e dunque falsava “il libero mercato delle idee”.
La nostra Carta Costituzionale stabilisce un principio insuperabile, più volte ribadito, secondo cui ogni libertà “non è una clava da brandire”. Il cittadino deve essere consapevole che non può dire (e fare) quello che vuole come disponesse di un diritto genetico, ma deve relazionarsi agli altri e alla pari dignità che tutti accomuna. La tutela della libertà di espressione occupa del resto un ruolo centrale nella “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (“Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, art. 10). Non solo: quella Convenzione confronta questo con altri diritti relativi alla dignità umana e al principio di uguaglianza: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”. (art. 17). In altri termini per la Convenzione non è possibile avvalersi di una libertà protetta come quella indicata all’art. 10, quando questa mette in pericolo altri fondamentali diritti tutelati.
Secondo alcuni eccentrici intellettuali si dovrebbe applicare in Italia il modello americano in quanto il pensiero viene espresso per lo più tramite i social di paternità oltreoceano, come facebook. Richiamando ancora il volume, l’opinione è inaccettabile perché la libertà, e quella di espressione tra queste, deve essere responsabile e non anarchica. Come osserva Todorov (Nemici interni della democrazia, Garzanti 2012) ci si deve guardare dagli “eccessi di democrazia”, dal ritenere che con essa tutto sia concesso e spendibile in una sorta d’inebriata rincorsa verso la totale “autenticità”. È la questione esaminata da Popper, secondo cui l’eccesso di tolleranza potrebbe far prevalere gli intolleranti sui tolleranti in quanto la democrazia troppo tollerante non ha gli strumenti per difendersi contro l’intolleranza (La società aperta e i suoi nemici, Armando 1945 e nello stesso senso Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990). La tolleranza si propone di bilanciare i vari diritti e valori tra cui soprattutto il rispetto, cioè il riconoscimento delle libertà altrui, talora minoritarie, divergenti ma pur sempre da tutelare (Mordaci, Rispetto, Raffaello Cortina, 2012). A questi si affiancano anche i limiti derivanti dalle funzioni, profilo questo spesso dimenticato. Esistono categorie di cittadini che, spontaneamente e senza costrizioni, hanno scelto di assumere ruoli che impongono loro un’attenzione particolare anche nei confronti delle istituzioni, quasi sempre attraverso un giuramento. Si tratta, ad esempio, degli alti funzionari statali, delle gerarchie militari, dei magistrati, soggetti che per la funzione assunta non possono esternare sempre e comunque il loro pensiero su ogni argomento, e questo a prescindere dal linguaggio. Si pensi a un prefetto, a un questore, a un alto grado militare, a un giudice ordinario o costituzionale cui è inibito istituzionalmente esporre le valutazioni personali a differenza del privato cittadino, ad esempio nelle campagne elettorali (V. Zagrebelsky, Libertà di parola tra le istituzioni, La stampa, 23.8.2023). Altrettando dicasi per l’avvocato il quale, legato professionalmente e disciplinarmente alle ragioni del cliente, non può pubblicamente esternare opinioni che lo danneggino come ad esempio auspicare pene più severe per gli stupratori quando se ne difende uno, oppure opporsi all’introduzione del condono quando il cliente se ne gioverebbe. È la categoria atipica, forse letteraria ma riconosciuta dalla legge e dalle regole disciplinari, del “cittadino dimezzato”.
La nostra comunità è una comitiva allargata in cammino verso il futuro, composta da persone diverse per infinite sfumature, che possono coesistere tra loro soltanto limitando e limitandosi. Del resto l’apertura alle più diverse culture, alle storie comuni e individuali impone di ripensare alla vita di relazione, alle sfere di liceità, a quanto permesso e a quanto vietato. Un impegno che coinvolge noi cittadini tutti, anche a partire dai nostri ruoli, senza comode vie di uscita.