Speciale

Leggere Le città invisibili

13 Novembre 2023

La città, come realtà e come simbolo, è da sempre uno dei cardini della narrativa calviniana. Spesso le storie che Calvino racconta hanno un’ambientazione urbana: si tratti della sua originaria Sanremo (Il sentiero, L’entrata in guerra, La speculazione edilizia), di una ben riconoscibile Torino (La giornata d’uno scrutatore, La nuvola di smog, il frammento I giovani del Po), di scenari di modernità urbana non meglio identificati, a volte chiaramente ispirati da New York (Ti con zero). Né mancano riferimenti a un’idea di città più serrata e pregnante: così il Cottolengo dello Scrutatore, una città nella città, la città della sofferenza e della degradazione che si rivela capace di diventare, in attimi privilegiati, un modello di convivenza lietamente operosa (“la Città”); ovvero la “città di cortecce e squame e grumi e nervature” che lo sguardo di Marcovaldo cerca sotto la città di vernice, catrame, vetro, intonaco (La città tutta per lui); o ancora, in un’altra novella marcovaldesca, la città dei gatti, celata come una filigrana negli interstizi della città degli uomini (Il giardino dei gatti ostinati). La città appare come una feconda sorgente di ispirazione: nell’Avventura di un poeta il protagonista, durante una vacanza marina, ammutolisce al cospetto di splendidi panorami naturali, mentre le immagini di un misero abitato di pescatori gli richiamano alla mente “parole e parole, fitte, intrecciate le une alle altre” (I racconti). L’ambiente dove sceglie di vivere il rampante barone Cosimo assume ben presto i caratteri di una città arborea; e d’altronde la foresta, scenario di tante avventure di sapore fiabesco, presenta la medesima struttura reticolare di un territorio urbano, un intreccio di percorsi, un ventaglio aperto di possibilità di incontri. A ciò si aggiunga che città immaginarie, designate con nomi simbolici come Marzialia, Panduria, Atrabilia, comparivano già in alcuni apologhi socio-politici pubblicati da Calvino sulla stampa comunista negli anni Cinquanta (“L’Unità”, “Il Contemporaneo”). Uno stimolo, se non un modello in senso stretto, è certo provenuto dall’incompiuto romanzo di Vittorini Le città del mondo, apparso postumo nel 1969. E un ruolo avrà poi giocato anche il fatto di abitare a Parigi: se è vero che a un certo punto Calvino dichiara di viverci come un eremita (Eremita a Parigi è il titolo di una plaquette autobiografica pubblicata a Lugano nel 1974), la capitale francese si presta tuttavia particolarmente bene a suggerire l’idea che ogni città sia l’intreccio o l’insieme di molte città diverse, e che ogni dimensione dell’esistenza possa acquisire figura di città. Nessuna sorpresa dunque che a un certo punto Calvino si concentri sull’idea di città e le dedichi un’intera opera, destinata a risultare fra le sue più significative, fra le più citate e celebrate anche fuori dal ristretto ambito letterario (ad esempio nella riflessione di architetti, urbanisti, semiologi).

Le città invisibili si presenta come una raccolta di racconti con cornice. La cornice consiste nei dialoghi fra Marco Polo e Kublai Kan, che chiede al viaggiatore veneziano di esporgli quanto ha potuto vedere durante le sue ambascerie; i racconti sono rappresentati dalle descrizioni delle città che Marco Polo ha visitato nell’immenso impero. Il libro è suddiviso in nove capitoli, ognuno introdotto e concluso da un dialogo tra Marco Polo e Kublai. Le città descritte sono 55, distribuite in undici rubriche (dunque, 11 serie di 5): Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, Le città sottili, Le città e gli scambi, Le città e gli occhi, Le città e il nome, Le città e i morti, Le città e il cielo, Le città continue, Le città nascoste. L’ordinamento dei brani prevede un avvicendamento delle rubriche secondo un criterio di introduzione graduale, così che i 7 capitoli centrali presentino la successione 5-4-3-2-1. Ad esempio, il cap. II è così composto: Le città e la memoria. 5, Le città e il desiderio. 4, Le città e i segni. 3, Le città sottili. 2, Le città e gli scambi. 1. Compito del primo e dell’ultimo capitolo, che contano 10 città ciascuno, è rispettivamente di portare le prime quattro rubriche al livello richiesto (4-3-2-1) e di esaurire le ultime quattro. La traduzione grafica di questo schema (che non compare nel libro, ma è stata reperita fra le carte dell’autore) è una sorta di scacchiera sghemba e digradante, di losanga o (come è stato suggerito) di diamante irregolare: quasi un equivalente visuale, squisitamente oulipien, di quella tensione fra ordine e disordine che contraddistingue l’immaginario calviniano (e si noti che aggiungendo alle 55 città le cornici dei 9 capitoli si ottiene 64, cioè il numero delle caselle di una scacchiera).

Ogni città è contraddistinta da un nome femminile insolito e prezioso, desunto dalle più varie fonti: Dorotea, Isaura, Melania, Despina, Ipazia, Zenobia, Raissa. In apertura prevalgono atmosfere esotiche e medievaleggianti, secondo il modello del Milione o delle Mille e una notte (“Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre”). Ma l’oriente delle meraviglie cede presto terreno a evocazioni di segno diverso; passato e presente s’intrecciano, la successione dei resoconti sciorina immagini ambigue, sfuggenti, inquietanti; man mano che ci si avvicina alla conclusione si fanno sempre più frequenti gli squarci della moderna realtà metropolitana (“Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito”). Nella sorprendente varietà delle descrizioni si distingue la rarefatta levità delle città sottili, come Armilla, che non è composta di edifici ma solo di impianti idraulici, o Ottavia, città-ragnatela, sospesa con funi e passerelle sopra un precipizio. Ma non meno cospicua è la presenza di immagini gravi, tetre, opprimenti: come Leonia, che per rifarsi nuova tutti i giorni accumula attorno a sé uno sterminato immondezzaio, o Perinzia, progettata per riprodurre l’armonia del firmamento e popolata invece da storpi, nani, obesi, donne con la barba. Numerose le città speculari, doppie o anche triple: Valdrada che si confronta con la propria immagine riflessa in un lago, Eusapia e la gemella necropoli, Laudomia che alle città dei vivi e dei morti affianca quella dei non nati. Non sempre tuttavia i resoconti di Marco Polo consegnano istantanee icastiche e atte ad imprimersi nella memoria; al contrario, molte descrizioni consistono di dettagli vividi ma ostentatamente incongrui o eterogenei, sì che la somma dei frammenti stenta a comporsi in un insieme afferrabile. Inoltre, spesso oggetto del racconto non è la città, quanto la difficoltà di parlarne in maniera appropriata: la divergenza dei discorsi o dei ricordi che la riguardano, l’inadeguatezza del linguaggio a rappresentare l’esperienza, la menzogna che s’annida nei discorsi e nelle cose. 

Sui problemi della comunicazione indugiano spesso i dialoghi della cornice. Fra le possibilità contemplate spiccano le forme di racconto non verbale (come i crudeli rebus del Gramo nel Visconte o i tarocchi del Castello). Ancora ignaro delle lingue dell’Oriente, Marco Polo si esprime esibendo oggetti (“tamburi, pesci salati, collane di denti di facocero”), gesticolando, emettendo versi di orrore e meraviglia; l’interpretazione è incerta (“un turcasso pieno di frecce indicava ora l’approssimarsi d’una guerra, ora abbondanza di cacciagione, ora la bottega d’un armaiolo”), ma la comunicazione ha un’efficacia che viene meno quando Polo impara a esprimersi con le parole; allora dovrà di nuovo integrarle con gesti, smorfie, silenzi. Un’immagine importante (che richiama alla mente una celebre metafora di Saussure sulla natura del linguaggio) è quella degli scacchi. Persuaso che i dati materiali contino meno dei loro reciproci rapporti, Kublai a un certo punto chiede al veneziano di descrivergli le città del suo impero ricorrendo solo ai pezzi di una scacchiera: “Se ogni città è come una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscerne le regole possiederò veramente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene”. Ma a forza di astrarre, i tesori dell’impero paiono ridursi a mera illusione, a un tassello di legno piallato. Allora Marco rilancia la posta mettendosi a descrivere minuziosamente il legno della scacchiera, e risalendo dalle fibre e dai nodi del legno all’andamento delle stagioni, alla scelta degli alberi da abbattere, ai fiumi che trasportano i tronchi, agli approdi, e così via. Due sono le maniere per cercare di comprendere e rappresentare il reale: risalire dai fenomeni alle leggi che li regolano e tenersi stretti ai dati concreti dell’esperienza. Impossibile sia prescindere da una di queste due vie, sia seguirle contemporaneamente entrambe. La sintesi più efficace di tale dilemma è contenuta nel brevissimo dialogo che conclude il cap. V: “Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. // – Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. // – Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano. // Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa. // Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.” 

All’origine dei resoconti di Marco Polo sta il senso di vuoto che affligge l’arrovellato, atrabiliare Kublai: l’impressione che il grande impero dei tartari, che era parso la “somma di tutte le meraviglie”, non è altro che “uno sfacelo senza fine né forma” (sfacelo è un termine chiave in questa fase dell’opera di Calvino). Ciò che l’imperatore cerca nei racconti del veneziano – viaggiatore attento e curioso, narratore ingegnoso e versatile – è “la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire ai morsi delle termiti”. L’atlante che Marco viene componendo con le sue descrizioni ha l’aspetto di un catalogo di emblemi, che “una volta visti non si possono dimenticare né confondere”. D’altro canto Le città invisibili possono essere considerate per certi versi il libro meno “visivo” di Calvino. Certo, non mancano descrizioni di città che s’impongono per una qualità strettamente visuale: Ersilia, ad esempio, dove per stabilire i rapporti fra gli abitanti (parentela, scambio, autorità) vengono tesi fili di colore diverso tra gli spigoli delle case, finché la ragnatela diviene così fitta che occorre trasferire la città altrove; o Sofronia, composta di due mezze città, una provvisoria e periodicamente dislocata, fatta di pietre marmo e cemento, e una stabile, fatta di giostre e ottovolanti. Tuttavia in molti casi le città descritte da Marco Polo assomigliano piuttosto a ideogrammi mentali. Storie condensate, diagrammi di destini: percezioni annodate a ricordi, sogni, assilli, presagi. 

La “invisibilità” predicata dal titolo si può intendere in modi diversi. Le città che Marco Polo descrive possono essere invisibili perché immaginarie; perché appunto descritte, e non viste direttamente; perché letteralmente invisibili, almeno in un caso (Bauci, terza delle città sottili e centro geometrico del libro, sospesa su trampoli sopra le nubi). O ancora, “invisibili” perché sono l’opposto di quello che sembrano. Ciò che conta non sono le apparenze superficiali e spesso ingannevoli, bensì le qualità o le potenzialità nascoste: una città non è solo quello che si vede, ma anche ciò che essa si accinge a divenire. Il motivo è svolto in particolare nell’ultima rubrica, le città nascoste. Contrapponendosi alla serie delle città continue – che declinano immagini di metropoli sterminate, indifferenziate, invivibili, senza più forma – le città nascoste propongono frammenti di utopia, che resistono alla marea montante del negativo. Così Marozia, in cui una Sibilla ha ravvisato due città, uno del topo e una della rondine (“entrambe cambiano nel tempo; ma non cambia il loro rapporto: la seconda è quella che sta per sprigionarsi dalla prima”). O Berenice, città ingiusta, che contiene i germi di una città giusta, insidiata a sua volta dall’ingiustizia che però non è che l’involucro di un’ulteriore città giusta a venire: “Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un’altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili”. 

Le Cosmicomiche e il Castello rappresentano un’originale interpretazione delle spinte sperimentali che caratterizzano la cultura letteraria italiana degli anni Sessanta, e che trovano la sua espressione più intransigente nella neo-avanguardia (il Gruppo 63). La differenza principale è che Calvino non mette mai in discussione il principio della leggibilità, non sovverte l’assetto del linguaggio: che anzi, nella sua sempre più studiata elaborazione, costituisce la principale linea di resistenza della razionalità di fronte al disordine e al caos. Le Città invisibili possono essere considerate invece, fra le altre cose, come una risposta ai fermenti sociali, culturali e politici della fine del decennio, inaugurati dal cosiddetto “maggio francese” (1968). Calvino non condivide più di tanto le istanze dei movimenti giovanili e studenteschi, né torna alla militanza politica. Il suo contributo prende la forma di un discorso sull’utopia, che si alimenta anche degli studi su Charles Fourier (poi raccolti in Una pietra sopra). Ogni ideale utopico che pretenda di porsi come un modello perfetto è destinato a ribaltarsi in oppressione e disumanità. L’unico genere di utopia oggi perseguibile, si legge nel saggio del 1973 L’utopia pulviscolare, è “un’utopia polverizzata, corpuscolare, sospesa”: l’utopia “come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità d’immaginarla” (idea che forse allude a un brano della Repubblica di Platone, 592b). D’altro canto, sarebbe davvero riduttivo legare troppo strettamente un libro come le Città invisibili a una stagione o a una contingenza storica. Quest’opera costituisce una sorta di summa dell’immaginario calviniano, a partire dal simbolo stesso della città: l’esistenza del singolo può acquistare senso solo nel contesto della vita di relazione. Benché lontano dalla politica attiva, Calvino séguita a coltivare un’idea “politica” della cultura e della letteratura. Così si spiega anche il finale, esortativo e sentenzioso, dell’ultimo dialogo fra Marco Polo e Kublai: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e divenirne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. 

(da Mario Barenghi, Calvino, Il Mulino, Bologna, 2009).

martedì 14 novembre ore 11 
Biblioteca Valle Aurelia 

Le città invisibili
con Mario Barenghi

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