Speciale

Sciascia Trenta / Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte

3 Giugno 2019

Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

Le trame che si intrecciano nel penultimo libro di Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, pubblicato nel 1988, presentano il libro come un’allegoria sul potere. A prima vista siamo in un ambito familiare ai lettori dei suoi libri: un investigatore che in qualche modo è atipico: per Bellodi era un’estraneità culturale alla Sicilia, per il protagonista di questo libro, il Vice, è qualcosa di più profondo. La prima chiave per interrogarci sul personaggio è la stampa di Dürer a cui si rifà il titolo, che il Vice ha acquistato anni prima e che si è portato dietro di ufficio in ufficio e che ha acquistato valore. Non è un simbolo, è proprio una domanda. Già qui siamo in un territorio insolito per un autore che è stato per tutta la vita, con i libri e l’impegno civile, un denunciatore di malefatte politiche, di un sistema che premiava il corrivo, il peggio di quello che esprimeva la società italiana. Il cavaliere di fronte alla morte sono l’arco e la freccia che vengono scoccati nelle prime pagine e innervano tutta la narrazione. Un basso continuo che ci richiama ad ogni snodo dai superficiali snodi dell’intreccio al vero progetto, la necessità di questo libro.

Abbiamo naturalmente anche l’intreccio poliziesco: un gruppo di terroristi, i figli dell’89, è ritenuto responsabile dell’omicidio di Sandoz, che però secondo l’investigatore principale, il capo del Vice, sarebbe stato ucciso probabilmente da Aurispa, un ricco industriale con le mani immerse in molte vicende oscure. A indagare, e quindi capire, è il Vice, e le sue intuizioni si scontrano con l’indagine più comoda e schematica condotta dal suo capo, che chiedendogli di seguire la pista terroristica mette sostanzialmente al sicuro i poteri che si sono scontrati nella vicenda.

 

Anche qui è la relazione tra maggiore e minore a innestare una riflessione allegorica: il capo è autorevole ma ottuso, il Vice donchisciottesco e poetico, si innamora, sa di dover morire di cancro e quindi la sua indagine è quasi un testamento. Del resto questa indagine non è per Sciascia un’indagine qualunque. L’autore di l’affaire Moro racconta questa storia: i figli dell’89, che si chiamano così per una discendenza dal 1789 ma anche del 1899 che si metamorfizza nel 1889 (per la chiamata in guerra) sono accusati di aver ucciso Sandoz. La domanda cruciale è: Sandoz è stato ucciso dai figli dell’89 o per creare i figli dell’89? Cruciale è a questo punto la data di pubblicazione del libro: 1988, ancora un anno e l’89 avrebbe preso ulteriori connotazioni storiche utili alla tessitura metaforica su cui lavora Sciascia. Per noi ovviamente queste connotazioni funzionano comunque. ‘89 ha già come numero qualcosa di messianico, è quasi ‘90, e il vero problema dei figli dell’89 è proprio di non capire come, in nome della giustizia e della verità, di un mondo di là da venire, il loro progetto divenga foriero di morte e si lasci facilmente sfruttare da conflitti all’interno del potere opachi e criminali. I figli dell’89 sono fessi, vuoti, al servizio di intenzioni che non solo loro non comprendono, ma non le comprende nessuno, neppure il Vice o l’ex agente segreto Rieti.

 

 

La prosa e i colloqui, che non sono degli interrogatori ma delle domande che il Vice fa al proprio tempo, illuminano progressivamente un quadro che non era possibile provare su Aldo Moro né su nessun altro, ma che era già allora il più convincente e che anche oggi parla molto chiaramente. Il rischio è che parli troppo chiaramente e per questa ragione è bene ricordare in ogni momento che Sciascia sceglie il romanzo e non l’indagine, perché il romanzo può permettersi di dire cose che invece squalificherebbero l’indagine. Può permettersi di dire che i terroristi che sequestrano e ammazzano, che siano o no manovrati da forze più grandi di loro, sono solo l’episodio, l’incidente che permette di sbarazzarsi di quel che è difficile e compromettente. Non abbiamo di fronte Robespierre che guida la rivoluzione e condanna a morte da un ruolo istituzionale, ma terroristi braccati e clandestini, che tentano di negoziare ma sono talmente inconsapevoli di come funzioni uno stato o il potere che non si accorgono neppure di come la loro strategia inevitabilmente faccia il gioco di poteri che li superano in ogni senso. Che ci sono equilibri geopolitici planetari, scontri tra gruppi sociali e aree diverse nella Democrazia Cristiana di quegli anni, che c’è la mafia e l’esercito, che insomma al di là delle BR c’è un universo di interessi che conta infinitamente più di loro, nel bene e nel male. Per riprendere la domanda del Vice, sempre più probabile è la risposta suggerita da Sciascia: che Sandoz sia stato ucciso per creare i figli dell’89. 

 

La vera domanda nel romanzo è però legata all’allegoria. Il Vice è il cavaliere di fronte alla morte: alla propria (ha un cancro), ma anche a quella della società in cui indaga, in cui la divisione dei poteri di Montesquieu è collassata e qualcosa di oscuro e violento tende a depredare la società di ricchezze e libertà. Un potere che assomiglia alla mafia, o a quello che nei primi libri Sciascia chiamava la Mafia, ma che è in realtà la natura stessa dei partiti politici, delle istituzioni tutte, dell’incapacità di difendersi da questa tendenza al crollo della cosa pubblica, dalla disfatta, che caratterizza purtroppo tutto il lunghissimo dopoguerra italiano e che forse trova un qualche riparo nell’Europa di oggi, ma che per quanto riguarda l’Italia resta un problema feroce. Forse lo è in qualche misura di tutte le società, forse la divisione dei poteri, la speranza che ci sia un giudice a Berlino! come dice Brecht, che una legislazione ben strutturata possa difendere dagli abusi, fa parte di un sogno dell’89, quello che sognano i figli dell’89 ma in fondo tutti noi, che un mondo di là da venire sia migliore di quello che conosciamo e che si affida quindi ai giovani facinorosi sia per trovare una voce che per sopprimerla. Su questo Sciascia, e non solo in questo libro, ha le idee chiare: troppo facile immaginare che ciò che distrugge sia estraneo al potere. In altre parole che a far fuori Moro siano state solo le BR. In piena guerra fredda, con uno scontro Est/Ovest che faceva rivoluzioni e colpi di stato in mezzo pianeta, era troppo semplice. Sarebbe come immaginare oggi che nel tentativo di golpe venezuelano di qualche mese fa o nella guerra in Iraq, gli interessi petroliferi fossero marginali a genuini movimenti popolari, ammesso e non concesso che genuini movimenti popolari sia un trinomio che abbia senso.

 

Le posizioni di Sciascia su questo sono chiare e aveva certamente ragione: finché non si ricostruisce un quadro in cui DC, PCI, Russia, America eccetera eccetera siano effettivamente al centro di quanto accadde negli anni di piombo, è inevitabile che i quesiti evasi in quegli anni e in quelli successivi si ripropongano a chi cerca di capire. Battisti ha ammazzato e se ne stia in galera, ma le perplessità di fronte a Salvini che lo persegue restano quelle di chi in quegli anni si domandava se fosse mai possibile che un gruppo di ex studenti e operai che aveva fino a quel punto solo fatto agguati a persone isolate e indifese, possa far fuori due macchine di scorta con poliziotti addestrati. 

Comunque non è di questo ovviamente che il libro parla, questo diciamo è il sottotesto. L’inquieto, misterioso, mortifero agire del potere politico in Italia. Il Vice però è soprattutto la letteratura. Il cavaliere è la letteratura. Non solo per le citazioni che continuamente riaffiorano nel suo modo di pensare e parlare, ma perché il letterario non è un qualcosa di più, un alibi, ma la tessitura di un essere nel mondo più a fondo della politica. Se il potere è la morte e il cavaliere è il Vice, il cavaliere è in realtà il letterario, ciò che in ogni società obietta, si interroga e interroga, comprende, si sottrae alla distruzione che è il perseguire interesse e potere. Ovviamente anche destinato a soccombere, come nella magnifica “A se stesso” di Leopardi.

 

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.

 

Diceva Elsa Morante che finché si scrive una poesia, la bomba atomica farà più fatica a esplodere. Finche un bambino sorride, finché c’è vita, senso del bello e dell’onesto, Salvini farà fatica a vincere.  Sciascia lancia ancora una freccia contro il cielo che ci cade in testa.

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