Vintage al quadrato / L’immaginazione di Esselunga
Il vintage ormai ci sovrasta. Da quando l’immaginario si fa arma del marketing (o forse il contrario, ma che cambia?), le operazioni-nostalgia si moltiplicano a tutta forza per ogni brand che si rispetti e in ogni settore merceologico possibile: dalla musica all’abbigliamento, dal design alla ristorazione, dalle motociclette alle cucine componibili, giù giù fino al turismo, all’educazione e – perché no? – anche alla politica. Past is beautiful, ci si inculca senza sosta. A patto che questo passato sia sufficientemente prossimo da essere euforicamente indicato e nominato dal consumatore, sia esso la piccola cosa di pessimo gusto che stava nel tinello della nonna, la copertina di un long playing venerato in adolescenza, un giocattolo di latta spartito col fratellino, la bilancia rossa del salumiere sotto casa, il fotoromanzo su cui sospirava la domestica, il mangiadischi o il Geloso a nastri, il cestino per i picnic domenicali al parco, l’abat-jour di plastica arancione a forma di fungo, la polaroid, il borsello, le scarpe da paninaro…
E, in fondo, ammettiamolo, a chi non piace lasciarsi coinvolgere nel gioco del ricordo del bel tempo andato (bello forse proprio perché andato), nel meccanismo ingenuo del riconoscimento di oggetti e oggettini, video e musichette, fumetti e dischi, pantaloni a zampa e racchette da tennis rigorosamente in legno?
Non resta perciò che andare a visitare la mostra-spettacolo che Esselunga ha aperto a Milano, a fine novembre negli spazi di The Mall (aperta fino al 6 gennaio) per festeggiare i suoi primi sei decenni di attività. S’intitola “Supermostra: 60 anni di spesa italiana” e garantisce allo spettatore d’ogni età, sesso, ideologia e religione un sicuro momento di svago (poco altro). Si tratta di una perfetta operazione vintage, e per giunta al quadrato: è tale difatti il contenitore e il contenuto, il soggetto festeggiato e gli oggetti per farlo, le cose narrate e i modi di raccontare, i consumatori e i consumatari (neologismo inventato sul momento, ma ci sta); e nel gioco di queste sovrapposizioni si finisce per disorientarsi, come in quella sala centrale assai scenografica dove megaimmagini di generici prodotti alimentari (dai limoni ai parmigiani, dalle mozzarelle alle fragole) vengono proiettate a ritmo incalzante nelle quattro pareti interamente a specchio: un vero luna park, ma ben ammantato da un’intenzione storicizzante parecchio di facciata.
La storia di Esselunga, per proseguire nel gioco dell’elevamento a potenza, ha fatto storia: il primo punto vendita apre a Milano, in viale Regina Giovanna, nel 1957 (si chiama Supermarkets italiani SpA), nel ’61 è anche a Firenze, nel ’69 ce ne sono ben venticinque in varie città d’Italia. Emerge un nuovo modello per fare la spesa, nuovo – si badi – perché importato dagli Stati Uniti, ed è subito festa: una festa che da allora non è mai venuta meno, riadattandosi ogni volta ai gusti e ai desideri del pubblico, all’immaginario collettivo in continuo fermento, ma soprattutto alle potenti innovazioni dell’industria alimentare, capaci di modificare nel profondo le abitudini quotidiane dell’italiano medio, e non solo nella sfera dell’alimentazione. Dall’Italia della ricostruzione a quella del boom economico, dalle domeniche a piedi all’edonismo reaganiano, dai noiosissimi Novanta all’esplodere di Internet succede di tutto: ma la gente, ostinata, fa la spesa praticamente sempre allo stesso modo, sempre nello stesso posto, nel supermercato con la esse lunga, dove si trova di tutto e di più, cose necessariamente superflue che alimentano i sogni piccolo-borghesi di una grandeur sempre di là da venire. Ed è così che il supermercato cambia nome, decidendo di chiamarsi proprio come la gente lo soprannomina, Esselunga appunto, di modo che quel geniale pubblicitario che era Armando Testa provvede a ridisegnarne, negli anni Settanta, logo e marchio. “Dottor Caprotti – chiedono un giorno al mitico patron –, che cos’è per lei il talento?” E lui senza esitazione: “E’ quello che gli americani chiamano imagination. Bisogna saper evolvere, bisogna saper immaginare, bisogna guardare più in là”. C’è più efficace filosofia di marca?
Ma questa immaginazione, in Supermostra, sembra a un certo punto prendere il sopravvento, e dalla storia dei consumi degli italiani per il tramite dei prodotti proposti per sessant’anni da Esselunga (che si vedono assai poco) si passa surrettiziamente, e definitivamente, a quella dell’immaginario collettivo inscritto in oggetti e depositato in cose che nei banconi del supermercato in questione non si sono quasi mai visti. Ogni sala dà spazio a un decennio, in una superfetazione, imbarazzante e commovente insieme, di oggetti tanto iconici quanto eterocliti il cui accostamento genera una Wunderkammern senza limiti e confini (solo per i Sixities ci sono 249 cianfrusaglie, più o meno quelle elencate sopra). La cosa esalta, senza dubbio, e fa grande piacere lasciarsi coinvolgere nel gioco immersivo degli amarcord a buon mercato. La sala più emozionante (vale il viaggio) è senza dubbio quella che raccoglie la celeberrima campagna pubblicitaria dello stesso Testa con personaggi come Mago Melino, Al Cacone, Bufala Bill, Banana Butterfly o Fico della Mirandola.
Ma, alla fine, di Esselunga c’è ben poco: qualche fotografia e qualche plastico degli edifici, i logo, appunto le pubblicità, la mappa italiana dei punti vendita, quella dei prodotti organic attuali. E che ne è delle scatolette, dei surgelati, delle bibite frizzanti e non, degli imbustati, dei tetrapack per il latte, dei pacchi di pasta, delle acque minerali, dei formaggini, dei fustini di detersivo, dei barattoli di caffè, dei dadi da brodo, delle merendine, delle caramelle, dei fortunelli e dei ghiaccioli, delle bottigliette di aperitivo, ossia di tutto ciò che l’industria alimentare – giusto per il tramite dei supermercati – ci ha per decenni propinato, e che oggi, non meno ideologicamente, sembra essere diventato il nemico pubblico numero uno della attuale gastromania tutta chiacchiere biologiche e distintivo di provenienza? Se una operazione di orgoglio aziendale andava fatta, poteva essere anche quella di non nascondere, ma semai di sfoggiare, tutto quello che per anni dagli espositori di Esselunga è finito negli stomaci di tutti noi. Se l’uomo è ciò che mangia, siamo fatti di Esselunga, in tutti i sensi. Malefatte da nascondere? Peccati da farsi perdonare? Viviamo in un Paese cattolico, si sa, ma questi imbarazzanti omissis sembrano cozzare con l’imagination tanto decantata da Bernardo Caprotti.
Come al solito ci aveva visto bene, sicuramente dopo aver visitato quell’allora mitico negozio di viale Regina Giovanna, il grande Italo Calvino. Ricordate Marcovaldo al supermarket? Il poveraccio, un sabato pomeriggio, va con la famiglia a visitare un supermercato. Il portafoglio è vuoto, come le pance, dunque lui, la moglie e i due bambini possono solo ammirare i prodotti esposti: a poco a poco però, senza neanche capire il perché, riempiono ciascuno un carrello, lo fanno stracolmo, finché l’imponente schiera di casse e cassiere li blocca. Tornano indietro, si arrabattano per il labirinto dei corridoi cercando di riposare il maltolto. Ma non ce la fanno. Per ogni prodotto depositato, altri due vanno nel grosso gabbione. Disperati, si trovano, tutti e quattro in fila, con i carrelli pieni, in una zona del negozio ancora in costruzione: e gettano il tutto nelle fauci di una gigantesca, metallica gru. Che altro avrebbero potuto fare? Noi invece…