L'istinto di narrare
Un po’ schematicamente, possiamo dire che gli studi sulla narrazione si sviluppano secondo tre principali direttrici. La prima si misura con la dimensione orizzontale della narratività diffusa. Ovunque volgiamo lo sguardo scopriamo comunicazioni narrativamente impostate, cioè messaggi che evocano storie: che insinuano, suggeriscono, presuppongono, configurano storie. La fortuna di un leader politico dipende dalla sua capacità di proporre una narrazione convincente; cronaca, sport, intrattenimento sono sempre più palesemente costruiti come macchine narrative; quanto alla pubblicità o al marketing, è quasi superfluo parlarne – perfino la tavoletta che occhieggia alla cassa del bar recita sulla confezione “C’era una volta il cioccolato”. La capillare, pervasiva presenza delle storie nella nostra vita ha fomentato una convergenza tra narratologia e scienze cognitive che sta producendo risultati di notevole interesse (vedi l’ultimo numero della rivista online “Enthymema”, 8, 2013). La seconda dimensione, verticale, riguarda le ricerche sulle origini più remote della propensione umana al racconto.
La nostra eccezionale sensibilità per le storie deve pur avere una spiegazione di tipo evolutivo: se homo sapiens ha dedicato tempo ed energie per produrre e ascoltare racconti, anziché impegnarsi in attività più immediatamente utili, è perché ne ricavava, per via indiretta, vantaggi concreti, forse perfino decisivi, rispetto alle specie concorrenti. Di qui la fioritura dei cosiddetti Darwinian literary studies, che nell’arco di qualche lustro d’anni hanno prodotto una bibliografia assai cospicua. Una terza dimensione, minore ma tutt’altro che irrilevante, riguarda il prossimo futuro della narrazione orientata in senso ludico-estetico, che si avvale delle formidabili risorse delle nuove tecnologie. Qui l’analisi s’intreccia con le congetture: oltre i videogiochi, oltre i role-playing games in rete c’è chi immagina, per un avvenire non lontano, realizzazioni degli “oloromanzi” previsti dall’ultima serie di Star Trek – in sostanza, vite parallele vissute nei panni di un personaggio d’invenzione. E quindi storie, sempre.
Di tutto questo fervore plurisciplinare sulla narrativa, in Italia finora si è recepita in prevalenza la linea “neuronarratologica”: Neuronarratologia è appunto il titolo di una raccolta di saggi curata qualche anno fa da Stefano Calabrese (Archetipolibri, Bologna 2009). Quanto mai meritoria, quindi, l’iniziativa di Bollati Boringhieri di tradurre l’ultimo libro di un esponente di spicco del darwinismo letterario, l’americano Jonathan Gottschall. L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani (pp. 250, € 22) è un libro vivace, spigliato, di taglio divulgativo, e molto narrativo a sua volta: ogni capitolo prende avvio con una storia, vera o inventata, a volte privatissima (ad esempio, un incubo dell’autore) a volte di dominio pubblico (come gli anni di apprendistato dell’ultimo figlio di Alois Schicklgruber). Sotto questa veste affabile e accattivante, il libro di Gottschall nutre l’ambizione di fornire qualcosa di molto simile a una teoria coerente e unitaria dello storytelling. Il punto di partenza è che gli esseri umani sono indissolubilmente legati alle storie. Inventare e consumare storie è un imperativo della nostra specie: “siamo inzuppati di storie fino alle ossa”. Siamo tutti aspiranti abitatori di quella che William Matthew Barrie, il creatore di Peter Pan, ha battezzato Neverland, l’Isola che non c’è. Per quale motivo? Da dove nasce il piacere di narrare? E a che cosa ci è servito?
Gottschall propone un’icastica analogia tra le storie e le mani. Le mani sono utensili estremamente versatili, e l’evoluzione tende a privilegiare la versatilità. Allo stesso modo, è verosimile che il narrare abbia preso forma adempiendo a molte funzioni diverse. In questa luce, le differenti teorie formulate dagli studiosi non sono affatto incompatibili tra loro. Raccontare può essere una forma di esibizione che incide nella scelta sessuale, una forma di gioco cognitivo, uno strumento agile per trasmettere informazioni, una maniera di rafforzare la coesione di gruppo corroborando l’adesione a valori comuni, ed altre cose ancora. Il punto, secondo Gottschall, è che al nocciolo di ogni storia avvincente c’è un ostacolo: una situazione difficile, un problema intricato, una condizione che genera inquietudine, sofferenza o paura. Lo dimostrano non soltanto le trame dei romanzi o dei film, ma anche forme primarie di narrazione, come i giochi infantili e i sogni. L’inferno insomma – così suona il titolo di un capitolo – è amico delle storie: hell is story-friendly. Di qui l’idea di fondo del libro: “La finzione, espressa con qualunque mezzo narrativo, è un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana”: ed è vantaggiosa perché la vita, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco sono alte. “La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie”.
Certo, in questo libro non mancano, almeno per un lettore europeo non più giovane, affermazioni collaterali che possono suscitare perplessità. Difficile condividere la liquidazione quasi irridente dell’interpretazione dei sogni di Freud, all’interno di una trattazione largamente debitrice dell’idea di inconscio (si vedano i riferimenti a “quello che il nostro cervello sa ma ‘noi’ no”). Lo stesso vale per l’accostamento, sia pur formulato en passant, tra un romanzo che sussiste davvero solo come oggetto di studio quale Finnegans Wake e un capolavoro della narrativa di ogni tempo come la Recherche. Ma non è su questi particolari che Gottschall dev’essere giudicato: tanto più che oggetto del discorso non è la letteratura, quanto il narrare, inteso nell’accezione più vasta possibile (il titolo originale suona The storytelling animal. How stories make us human). Semmai, mi pare che la sua affascinante e affascinata sinossi psico-evolutiva sottovaluti i differenti gradi di articolazione culturale dei contesti dove si narra. Ogni cultura è caratterizzata, fra l’altro, dal complesso delle storie che produce e che consuma (che inventa, ripete, rielabora). Dal suo paesaggio di narrazioni: dal suo storyscape, per dir così. In qualche caso se ne può prescindere; in altri, meno. Un esempio si ha quando viene toccato il problema della moralità della narrativa di finzione. Lo psicologo Jerome Bruner ha sostenuto che “la grande narrativa letteraria è, in spirito, sovversiva”; Gottschall dissente, e ribatte che, come hanno affermato (grazioso abbinamento) i romanzieri Tolstoj e John Gardner, “la narrativa di finzione è, nella sua essenza, profondamente morale”. Così posta, la questione mi pare non abbia molto senso. Un romanzo può divenire uno strumento di conferma o di critica di paradigmi morali invalsi, così come, sul piano politico, di consenso o dissenso. Dipende dall’uso che se ne fa: il quale a sua volta dipende dal rapporto di autori e fruitori di storie con un contesto socio-culturale specifico. Del resto, non si era convenuto che il narrare assomiglia a un coltellino multiuso? Insomma, detto un po’ all’ingrosso, l’orizzonte di Gottschall mi pare condizionato da una prospettiva in cui gli apporti biologici, neurologici, psicologici, pedagogici (molteplici, e felici, i riferimenti dell’autore alla propria esperienza di padre) prevalgono su quelli antropologici in senso proprio.
Ciò detto, l’assunto generale a me pare non solo del tutto condivisibile, ma assolutamente cruciale per gli sviluppi futuri della teoria letteraria. “Le storie sono il collante della vita sociale umana, definiscono i gruppi e li tengono saldamente uniti. Viviamo nell’Isola che non c’è perché non possiamo farne a meno. L’Isola che non c’è è la nostra natura. Siamo l’animale che racconta storie”. O, come si legge all’inizio: “le storie sono per l’uomo ciò che è l’acqua per i pesci”. Forse era proprio necessario che Darwin spiegasse il funzionamento dell’evoluzione, e che alcuni sagaci narratologi applicassero il darwinismo alla filogenesi del narrare, perché comprendessimo finalmente quanto profonde erano state le intuizioni di Giambattista Vico. Ma tant’è: le dinamiche del sapere sono anche queste, e non possiamo che essere grati a Gottschall per un’opera che unisce sostanza concettuale e gradevolezza di lettura, e ci introduce a linee di ricerche ancora poco praticate in Italia. E un riconoscimento va anche a Giuliana Olivero, che l’ha tradotta in buon italiano, evitando la scorciatoia di lasciare in inglese termini ed espressioni per i quali costa un po’ di fatica trovare un adeguato corrispondente. Una vera lezione di metodo, in un’epoca di narrazioni che pullulano di finger food e problem solving, di customer care e spending review.