Antidoti e salvezza / ll focolare ai tempi della modernità
La sera in cui l’Italia prende coscienza che il virus è davvero arrivato, sulla Riviera di ponente, fino a poco prima ancora malinconica e distratta, il cielo è viola: nell’aria l’umidità più che il freddo.
Durante il pomeriggio il numero dei contagiati in poche ore era passato da decine a centinaia mentre l’idea che il virus questa volta era vicino non era più strisciante ma pian piano è diventata quasi invadente... è stato solo questione di tempo.
È domenica sera eppure in giro la presenza delle auto è drasticamente ridotta; sulla passeggiata a marequasi nessuno. Forse è il tentativo – irrazionale in Liguria, almeno mentre scrivo – di evitare le persone e le possibili fonti di contagio; è probabilmente anche l’istinto primordiale della “tana”, quello che induce a non uscire, a cercare l’unico riparo considerato sicuro, l’unico dove gli ormoni dello stress e dell’attenzione possono finalmente smettere di fare il loro lavoro.
Quella sera, al telefono, mia figlia, quindicenne, con voce squillante mi invita a cena, o meglio richiede la mia presenza a cena. Una richiesta che mi giunge inattesa – abbiamo pranzato assieme solo poche ore prima – ma è una richiesta che sento pressante come può esserlo un sentimento appena mascherato dai pudore di un’età in cui si sta affacciando all’indipendenza.
Avevo sul tavolo due libri – tra di loro in qualche modo commessi – l’Evoluzione della cultura di Luigi Cavalli Sforza, Codice Edizioni, e Iper-Luoghi di Michele Lassault, FrancoAngeli Editore. Il primo, un ottimo compendio divulgativo sui principali temi legati all’evoluzione della cultura, il secondo un’analisi e una riflessione sulla realtà delle moderne megalopoli e del nostro modello di sviluppo. Qui, gli iper-luoghi sarebbero per l’autore sostanzialmente la quintessenza delle modernità e della mondializzazione. Luoghi (da qui il prefisso “iper”) in cui capacità di attrazione, il concentrato di tecnologia e di modernità, di densità umana e di informazione, e insieme la mobilizzazione di gente, mercie idee raggiungono, tutto o in parte, il loro punto più elevato.
Lassault nel suo libro muove dal tentativo di superare Marc Augé e il suo concetto di Nonluoghi, (Nonluoghi introduzione a una antropologia della surmodernità, ed. Elèuthera). Per Lassault non sono tanto i nonluoghi – cioè gli spazi privi di un’identità, di una storia e di una reale possibilità di relazione tra gli uomini – la caratteristica della modernità, ma lo sono gli iper-luoghi.
In questo senso un moderno ipermercato, un grande aeroporto, Piazza San Marco ricolma di turisti selfie occupati, o la stessa Times Square che Lassault cita come esempio massimo di iper-luogo della mondializzazione, possono essere sia nonluoghi che iper-luoghi. Ma su questi in particolare – l’autore sembra non accorgersene – il presente diventa sfuggente e deformato perché in realtà già rivolto a un futuro prossimo di là da venire. In un iper-luogo il presente non è qui e ora, quanto è qui e domani e domani sarà probabilmente migliore...
Un iper-luogo dunque è anche un’illusione, almeno fino a quando il re improvvisamente può rivelarsi nudo...
Nonluoghi o iper-luoghi che siano, è tutto azzerato mentre l’illusione si dissolve e il contributo alla chiarezza arriva dall’esterno, da ciò che sta accadendo fuori nelle strade e nelle piazze diventate improvvisamente semi-deserte e sfuggenti. Tutto azzerato pur nella consapevolezza che la realtà appaia ai nostri occhi sempre diversamente se si è sani oppure nel timore di non esserlo più. Ma il sostanziale entusiasmo di Lassault per gran parte della nostra modernità ora appare più lontano... difficile parlare come fa lui di Homo Urbanus, alludendo ai migliori destini della attuale modernità,secondo una sua definizione, seppur smorzata.
Difficile sentirsi a proprio agio nelle certezze e nelle illusioni delle nostre città se appunto, improvvisamente il re è nudo.
Quella sera, la richiesta di mia figlia esprimeva certo un sentimento ma era anche la richiesta del minimo comune denominatore dei luoghi veri... quelli che, evoluzione culturale o meno, quelli che –indipendentemente da ogni teoria – abbiamo tatuati sulla pelle, che sono parte invisibile delle nostre cellule: un focolare, reale o immaginario poco importa, ma che sia un focolare.
Che sia cioè le spazio minimo comune in cui si entra in relazione, un focolare come sicurezza intorno al fuoco, davanti al calore delle fiamme o delle parole, delle storie che lacerano il buio.
Perché c’è del buio nel modo in cui questa epidemia è stata raccontata, c’è del buio nella freddezza e invadenza dei numeri, negli aspetti non ancora chiariti, c’è del buio nelle immagini della Diamond Princess – iperluogo di tecnologia e divertimento – che diventa un bianco lebbrosario.
E poco importa se l’idea del focolare che tutti ci portiamo appresso sia un meme – le idee e i comportamenti che trasmettiamo ed ereditiamo culturalmente, per certi versi affini ai geni dell’eredità biologica – o qualcosa vicino a un sentimento. In entrambi i casi questa epidemia ci sta insegnando che c’è bisogno di mille e mille focolari nella nostra società, che l’organizzazione e la modernità con cui disegniamo i luoghi del vivere odierno non ci proteggono dalla paura ma possono esserne parte.