L’umanesimo punk dei CCCP
La prima volta fa sempre male
La prima volta ti fa tremare
La prima volta che ho sentito i CCCP era l’estate del 1991. Con il mio amico Roberto eravamo partiti per un campo di volontariato internazionale vicino a Savona. Sapevamo poco o niente di quello che saremmo andati a fare laggiù, ma eravamo armati dell'incoscienza dei nostri quindici anni, e ci bastava. Alla sede di Milano ci avevano parlato di un castello in rovina, da recuperare grazie al sudore delle nostre braccia. Arrivati in quel borgo sperduto dell’entroterra ligure, ci mettemmo poco a scoprire che del castello non c’era traccia. Forse le rovine erano rovinate definitivamente, o forse avevamo capito male noi, tant’è che fu in quelle giornate di ozio forzato che un ragazzo emiliano ci parlò dei CCCP Fedeli alla linea. “Ma come, non li conoscete?”, e già allungava, a beneficio di walkman, una TDK C60.
Per me, cresciuto a pane e cantautori, l’ascolto di quella audiocassetta fu come una fucilata: non si poteva tornare indietro. La forma canzone con la sua tradizionale struttura narrativa, l’italiano cantautoriale alla fine inevitabilmente (e spesso verbosamente) letterario, ma anche i pochi stilemi musicali che conoscevo (il rock, il folk, il blues…), tutto questo, e molto altro, andava rovinosamente in pezzi. Un’erezione triste, fragili desideri, stimolante paralisi, sconfitte corrose, percorsi laterali, fluide divinità, voglie sconfinate, boomerang primitivi, il sapore celeste del ferro, codici cifrati, cataste di maiali, allarmi lampi e ancora allarmi. E poi Mosca, Budapest, Varsavia, Sofia, Praga e Pankow, OST BERLIN WEST BERLIN, Sovieti Punki Leningrada, Togliatti, Berlinguer, Piani quinquennali, Juri che spara e spera, i turchi di Kreuzberg, la Pravda e Radio Kabul, pankislamundislampunk, bombardieri su Beirut. Cosa stava passando nelle nostre orecchie? Era impossibile raccontare uno di quei brani a chi non li avesse già ascoltati. E da dove veniva quell’energia barbarica, quegli accordi secchi e tesi che arrivavano dritti al cuore, trafiggendoci?
Non eravamo emiliani, noi, non avevamo respirato l’umidità padana e il rassicurante comunismo della rossa Emilia – fatto di buona amministrazione, circoli polivalenti e feste dell’Unità, ma anche di piccolo capitalismo diffuso e pervasivo, piastrelle, coop e maiali – né avevamo fatto in tempo a conoscere l’austerità decadente e l’estetica squadrata dell’impero sovietico. Eppure, quel disagio era nostro e la voce tagliente e salmodiante di Giovanni Lindo Ferretti e la chitarra grattugiata e cuspide di Massimo Zamboni parlavano proprio a noi, ultimi cuccioli spersi del Novecento, cresciuti sulla linea di faglia tra un passato afflosciato e in rapida dissoluzione – la polvere, che si era alzata dal muro di Berlino in frantumi, vorticava ancora nell’aria – e un presente incerto e suadente, che odorava di televisione, plastica e pubblicità, ma che da lì a poco avrebbe avuto anche il sapore rimosso della guerra, del sangue e dei massacri dietro casa: Vukovar Srebrenica Mostar Sarajevo.
Come potevo solo immaginare, in quello scorcio di fine secolo, che quella scoria sonora giunta per caso fino a noi da una storia ormai conclusa – ma che stava già rinascendo, in forma completamente nuova e con perfetto tempismo onomastico, col nome di CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) – come potevo immaginare, dicevo, che quella musicassetta malamente copiata fosse solo la punta di un iceberg, la superficie visibile di un progetto artistico più ampio e multiforme? Come potevo sapere allora di trovarmi di fronte all’ultima avanguardia del ‘900, collettivo punkettone da Reggio Emilia che impastava con urgenza e pensiero lungo, e nessuna prudenza tecnica, teatro performance danza grafica moda travestimento kabaret?
La musica grezza e potente che stavo scoprendo era solo uno degli elementi della formula alchemica che univa sul palco, in una sorta di liturgia collettiva della quale loro stessi erano officianti, Zamboni e Ferretti con la benemerita soubrette Annarella Giudici e l’indemoniato artista del popolo Danilo Fatur. Il dionisiaco e l’apollineo, il pagano e il divino, il rozzo e l’inclito, la cronaca e il mito, il corpo e la mente. Ah, se solo avessi potuto assistere a uno di quei concerti, partecipare anch’io al rito filosovietico melodico-emiliano… ma quell’esperienza era ormai definitivamente conclusa, la cellula dispersa, la fede nella linea smarrita per sempre.
E invece, a distanza di quarant’anni dalla pubblicazione del primo folgorante singolo (Ortodossia, uscito nel 1984 per l’Attack Punk Records di Bologna), i CCCP Fedeli alla linea sono improvvisamente tornati a casa: a Reggio Emilia e a Berlino, dove tutto ha avuto inizio, ma anche nell’URSS del presidente Gorbaciov, dove toccarono un climax oltre il quale non si poteva andare. La cellula non era dispersa, era solo dormiente.
La scintilla del risveglio è stata la realizzazione del film Kissing Gorbaciov (regia di Andrea Paco Mariani e Luigi d’Alife, attualmente nelle sale) che ricostruisce quell’incredibile tournée in Russia – nata dalla follia di un gruppo di giovani sognatori di Melpignano, piccola enclave comunista nella provincia di Lecce – che nel 1988 portò i CCCP ad esibirsi tra Mosca e Leningrado, persino di fronte a degli esterrefatti soldati dell’Armata Rossa. E così, dopo essersi reincontrati sul set del film, Ferretti e compagni hanno scoperto con stupore che l’acciaio corroso della macchina era ancora caldo: poteva essere rimessa in moto.
Nasce così la mostra “Felicitazioni! CCCP Fedeli alla linea 1984-2024” ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia fino all’11 febbraio. Chiariamo subito una cosa: non si tratta di una mostra sui CCCP, ma di una mostra dei CCCP. La preposizione qui fa la differenza. Chi entra nel bellissimo complesso monastico ed ex-militare sulla via Emilia, si ritrova non solo a viaggiare nel tempo – la pace e l’equilibrio rinascimentale del chiostro piccolo sono trapuntati di bandiere rosse di stati socialisti ormai dissolti – ma si ritrova letteralmente in un altro tempo. Come descrivere la dissonanza tra l’enorme cratere del chiostro grande e i cavalli di frisia al centro dello spazio vuoto, a protezione di un solitario blocco originale del Muro di Berlino? Una Trabant marron a far da guardia, come il cane al padrone, e un fusto cilindrico di ferro da cui si erge un palo con altoparlanti. Rimbombano tra le volte manieriste e le pareti a bugnato le note inconfondibili di Morire: “Esiste una sconfitta pari al venire corroso/ Che non ho scelto io ma è dell'epoca in cui vivo”.
Come tutte le parole scritte e cantate dai CCCP – e questa è una delle contraddizioni costitutive del gruppo, lontana dall'impermanenza punk – anche questa mostra è attentamente soppesata, pensata, valutata da tutti i componenti del gruppo, rimanendo al contempo fortemente comunicativa. Nulla di più lontano da una furbetta operazione retorica e nostalgica: qui non si vuole musealizzare e inchiodare con uno spillo al muro l’energia primordiale dei CCCP, semmai si vuole provare a riattivarla con uno sguardo in prospettiva. L’aderenza dell’impianto espositivo al luogo unico dei chiostri è certamente il punto di maggiore forza e coerenza del ricco allestimento immersivo, fatto di teche, installazioni, video e proiezioni.
Le sette sale intorno al chiostro grande sono dedicate agli album pubblicati tra il 1984 e 1990, a cui si aggiunge una stanza sulla collaborazione con l’icona dell’ambiguità Amanda Lear. Il visitatore si fa strada tra collage, proclami battuti a macchina, volantini colorati, note stampa, tavoli di Palmiro Togliatti, pile di Rinascita, foto sgranate, timbri vermigli, abiti di scena, strumenti di tortura, una serie di foto di Luigi Ghirri e due sorprendenti lettere post-mortem a Mauro Rostagno ed Enrico Berlinguer. Da Ortodossia, appunto, a Epica Etica Etnica Pathos (1990), ultimo canto, bellissimo e struggente, che sancisce il cambio della guardia non solo nella band ma di un’epoca intera, e che profetizza, da aruspici che leggono il futuro nelle rovine del presente (tra riflusso, droga e proto-berlusconismo), la “pingue immane frana” della globalizzazione e del vuoto progressismo che stava avanzando inesorabile.
Lasciato il chiostro si prende la scalinata e si entra nell’ultima parte della mostra, intitolata “Vertigine”. Le scale sono una soglia, oltre la quale si ricomincia il viaggio lungo nuove prospettive, laterali e intersecanti. Qui il percorso è tematico e ossimorico rispetto al freddo spesso pungente delle grandi stanze superiori in cui si svolge: stiamo entrando dentro alla fornace dei CCCP. Vengono qui esposti alla curiosità e all’intelligenza del visitatore i principali processi combustivi che alimentavano la barbara energia del collettivo: il calore familiare della vita in comune nella casa di Fellegara, la divertita incomprensione con la stampa, la terra marginale e feconda della psichiatria post-manicomiale, la fascinazione per il mondo arabo e islamico, la componente teatrale e scandalosa dello spettacolo Allerghia, la sperimentazione grafica…
Tutti elementi esplorati anche nel catalogo della mostra (pubblicato da Edizioni Interno4) che – insieme al libro Io e i CCCP (Shake Edizioni) di Umberto Negri, bassista e cofondatore del gruppo – offre un contributo essenziale per capire la temperie da cui nacque quell’esperienza magmatica. In fondo, i CCCP sono stati un grande e liberatorio momento di parresia: prendevano sul serio, parodiandolo, un immaginario ormai logoro e in fondo rinnegato, quello sovietico e del socialismo reale, ma ipocritamente tenuto in vita nel comunismo nostrano. Prendere sul serio, sposandone l’ambigua estetica e l’iconografia, quello che per altri era ormai solo un artificio retorico. E denunciare così la perdita di sensibilità di fronte a crolli, catastrofi, guerre, mercati, consumazioni di senso e umanità che stavano allora, e stanno oggi ancor di più, distruggendo il nostro mondo.
Si esce storditi e insieme rinfrancati dalla visita alla mostra reggiana. Storditi da tanta magnificenza di idee e intuizioni; rinfrancati da un sentimento di comunità e appartenenza che si è riacceso più forte di prima. Siamo in tanti qui ai Chiostri di San Pietro e ci sentiamo tutti a casa: famiglie con bambini, giovani, vecchi. Un popolo in festa che ha risposto a quel grido di umanesimo punk di cui abbiamo ancora bisogno.