Tratta Udine - Treviso / L’uomo nero

4 Marzo 2017

Tratta Udine - Treviso, ore 10.07 (andata)

 

Oltre un metro e novanta di altezza, con un peso stimabile intorno ai 130 chili. Un armadio a tre ante. Si potrebbe definire una montagna d’uomo. E in più, nero. È entrato con tanta irruenza, che la vecchia porta a spinta continua a sbattere e cigolare, finché è arrivato oltre la metà del vagone.

Il marito della signora con i capelli bianchi parla in dialetto stretto e commenta ad alta voce: “Guarda che razza di gente che gira qui, he moglie? Hai visto quanta Africa? Noi vecchi non possiamo più stare tranquilli...”.

La donna della coppia giovane che ha preso posto di fronte a me si rivolge in tono affettato al suo sbiadito compagno, consigliandogli di tenersi vicino la borsa del computer. Le due “anziane ragazze” che vedo sedute tre posti più in là commentano all’unisono con una smorfia gemella, la più robusta aggiunge senza voce, ma con un labiale esplicito: “Che paura!”.

 

Nel frattempo l’omone è arrivato alla porta in fondo, che replica la stessa musica della prima.

Sono seduta vicino al finestrino, un posto che mi è sempre piaciuto, fin da piccola, e che scelgo anche quando fa freddo e gli spifferi sono garantiti. Nel sedile a fianco, verso il corridoio, stanno le mie borse. Non c’è tanta gente e sono certa di non togliere il posto a nessuno.

Il riscaldamento troppo alto, unito al dondolio della vecchia carrozza, mi stanno facendo effetto e mi assopisco. Ma la voce nasale della “noiosa” di fronte intona una nenia, che è generalmente

la specialità delle mogli consumate da diversi lustri: “Che cosa ti avevo detto? Tieni vicino il computeeer... sveeegliati! Non hai visto che gente gira?!”. Oltre a svegliarmi malamente, le sue parole mi suscitano un’inquietudine che cerco di allontanare. Un po’ di tempo e di pensieri dopo mi riaddormento. Ma l’oblio dura poco, perché il gigante nero irrompe nuovamente nel vagone, nel senso opposto al precedente, con le stesse modalità, scatenando nei viaggiatori gli stessi commenti, con minime sfumature e qualche rara variante. Il pensiero nato poco prima del sonno cresce, prende forma, s’ingigantisce.

 

Decido di abbandonare l’adorato sedile vicino al finestrino per cederlo alle mie borse, che non hanno occhi per apprezzare il paesaggio, ma così sono al sicuro, meno esposte e a portata di mano che verso il corridoio. Prendo il loro posto, certa con questo gesto di allontanare ogni residuo di ansia, così da predispormi al meglio per un sereno riposo. Chiudo gli occhi. Il brusio rumoroso dei passeggeri sul mondo che cambia, gli immigrati e la delinquenza che aumenta non mi fa dormire, ma resisto. Li tengo vigliaccamente chiusi. Li spalanco solo al rumore ormai noto della porta a spinta. E riappare lui. L’omone nero, con un sorriso radioso e una bimba di circa quattro anni in braccio, che ride, lo bacia a intermittenza come fosse un giocattolo a ventosa, e quasi lo soffoca con le braccine intorno al collo. Due passi dopo c’è una bella donna con la pelle tesa e le forme generose, anche lei ride. Il trio prende posto nello scompartimento alle mie spalle.

 

Poco dopo sento “l’uomo nero” conversare con un vicino. Colgo un frammento: “... Incredibile, con il freddo che fa, in tutto il treno ci sono solo due carrozze riscaldate! Con la bambina che ha il raffreddore... sono diventato matto per cercare posto! Due carrozze in tutto il treno. Si rende conto?! È una vergogna!”.

Ora, in questo momento, vorrei alzarmi, andare da lui e dirgli “La vergogna è tutta mia!”.

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