Maestro: scene da un matrimonio in musica

4 Gennaio 2024

Il 15 ottobre 1990, la mattina dopo la morte di Leonard Bernstein, il New York Times dava alla notizia l’apertura della prima pagina: il massimo dell’importanza e della visibilità. Il dettagliato e amplissimo “obituary”, firmato dal premio Pulitzer per la critica musicale Donal Henahan, era corredato da una fotografia di due anni prima, che lo ritraeva frontalmente sul podio – tipica l’espressione, appesantito il fisico – bacchetta in pugno e nella mano sinistra, un po’ incongruamente, un paio di occhiali.

Nel titolo, oltre il dato di cronaca, un giudizio lapidario. Con il direttore americano se ne andava il “Music’s Monarch”. Non un banale “King”, un re della musica fra i tanti che vengono incoronati dal pubblico e dagli addetti ai lavori, o magari si auto-incoronano. Ma colui che sulla musica aveva esercitato – per quasi mezzo secolo – un’autentica dominazione. Nell’ambito compositivo attraversando con sovrana (appunto) disinvoltura i generi più diversi, non sempre con eguale successo ma sempre con brillante profondità. In quello esecutivo riaprendo strade che l’indifferenza e l’oblio avevano reso difficili (e basterebbe il “recupero” delle Sinfonie di Mahler per consegnarlo alla storia). In quello comunicativo stabilendo uno standard nella divulgazione scritta e multimediale che per decenni non sarebbe stato superato e rimane ancora oggi un punto di arrivo a prescindere.

Allora, peraltro, questa universalità era un concetto controverso, com’è nel destino delle monarchie, specialmente se sono assolute, per quanto temperate da un tratto umano come pochi caratterizzato da amichevole semplicità. Oggi, non troppo paradossalmente, lo è assai meno, per l’effetto prospettico sui casi della musica che ci consente una visione storica più motivata, meno legata agli eventi contingenti e agli incidenti che inevitabilmente costellano una carriera.

Oltre le discussioni (alle quali offre supporto una discografia imponente e una mediateca formidabile), resta evidente che Leonard Bernstein è da considerare uno dei più significativi protagonisti culturali e musicali del secondo Novecento: un fenomeno complesso, a volte sfuggente, spesso a rischio di incompiutezza, ma di forza indubitabile ed efficacia sorprendente, alla luce e al calore di un’energia creativa febbrile e stordente. Ed è sintomatico che la sua vicenda artistica abbia incrociato significativamente in Italia quella di un’altra icona musicale del Novecento dal destino ancora più difficile e drammatico, Maria Callas, di cinque anni più giovane, che sotto la sua bacchetta negli anni Cinquanta diede vita alla Scala a La Sonnambula di Bellini e alla Medea di Cherubini.

 

Difficile che un film, nella lunghezza di un paio d’ore o poco più, possa rendere ragione in maniera compiuta ed esaustiva della personalità di un artista così complesso e così capace di superare i suoi tormenti esistenziali nella scintillante energia delle sue creazioni. Non lo fa Maestro, il biopic scritto, diretto e interpretato da Bradley Cooper, presentato in anteprima alla più recente Mostra del Cinema di Venezia e ora in streaming su Netflix, nonché accreditato di una significativa messe di candidature agli Oscar 2024. E del resto, si tratta di un lavoro che dichiaratamente non ambisce a fornire un ritratto completo di Bernstein, né biograficamente né artisticamente.

La vicenda narrata non è infatti specificamente né quella del direttore né quella del compositore (e tanto meno quella del divulgatore televisivo, popolarissimo per le sue trasmissioni in cui spiegava la musica ai ragazzi) ma quella personale di un uomo che era un artista di enorme e multiforme talento: al centro del discorso c’è il suo matrimonio, dalla nascita dell’amore alla crisi, fino all’amara conclusione, con la presa di coscienza dei valori rimasti.

Tutto si svolge dentro all’alta società americana dagli Anni Cinquanta agli Anni Settanta, ricca e sempre in cerca di leggerezza, attenta alla cultura e all’arte ma inevitabilmente snob e inesorabilmente di ristrette vedute. I luoghi sono quasi esclusivamente l’East Coast, da Harvard a Tanglewood, dal Connecticut a Boston e al centro focale di tutto, New York. Dunque il titolo del film è per certi aspetti fuorviante: Maestro fa pensare al ritratto di un musicista, secondo la denominazione un po’ pomposa che dall’Italia è dilagata ovunque; ma la storia è un’altra, è quella di Lenny & Felicia. E il fatto che lui fosse un direttore d’orchestra e un compositore è paradossalmente secondario, anche se non mancano i punti in cui è proprio la musica alla maniera di Bernstein (quella forgiata dal podio e quella creata in assoluto – magnifica per scelta narrativa e drammaticità la presenza di brani della Messa commissionata da Jacqueline Kennedy e risalente al 1971) a fare da sutura e da elemento propulsivo per lo sviluppo della narrazione. 

Questa ambivalenza è tuttavia anche il fascino sottotraccia di un lavoro che Cooper conduce in maniera virtuosistica sia per quanto riguarda il linguaggio filmico sia per la minuziosa aderenza dell’ambientazione all’epoca e ai personaggi che vi si muovono. Così, mentre lo spettatore assiste alle schermaglie sentimentali fra il musicista laureato ad Harvard e la sofisticata attrice di origine costaricana Felicia Montealegre Cohn, e le vede calate in ricostruzioni magistrali di com’era Broadway dopo la guerra o nello splendore naturalistico della vera casa di campagna di Bernstein, il musicista in quanto tale viene delineato in maniera ellittica, obliqua. Perché la musica è altro dalla vita, sembra dire Cooper, anche se alla vita appartiene. Ma se si racconta una storia nella quale il mondo dei suoni rappresenta il tessuto connettivo, la cornice e lo sfondo, il pensiero dominante, la causa e l’effetto di tutto ciò che avviene, forse qualche tassello in più – oltre i tic del personaggio, a partire dalla perenne sigaretta da tabagista ossessivo – sarebbe stato utile.

 

 

L’amore fra Lenny e Felicia – egregiamente impersonata da Carey Mulligan – sboccia all’epoca in cui lui tentava la strada dei musical o del balletto a Broadway, ma aveva già indossato l’aura del predestinato del podio la mattina del 14 novembre 1943, quando il manager della New York Philharmonic, Artur Rodziński lo aveva convocato per fargli sostituire di lì a poche ore il venerabile transfuga dal nazismo Bruno Walter, che si era ammalato. E la narrazione ha il ritmo e il bianconero caratteristico di un musical d’epoca, fino a quando – non casualmente – è l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler, sentimentale e struggente, infausto nel profondo, a segnare l’inizio dell’amore. Lui è sul podio, lei dietro le quinte. E quando lui esce da proscenio, fra le ovazioni del pubblico, sono gli abbracci e i baci con lei a dare il senso della lancinante interpretazione che si è appena ascoltata.

Al capo opposto di questo itinerario, dopo che il deflagrare della crisi coniugale ha segnato il passaggio al colore con virtuosistica continuità, il colossale Finale con coro della Seconda mahleriana, vedi caso intitolata “Resurrezione”, segna una sorta di approdo definitivo. È la conclusione di una lunga traversata nell’ incomprensione e anche nel rancore dentro a una coppia messa in crisi dalla bisessualità di Bernstein, incline a trasgressive amicizie omosessuali, “stranezze” (il termine “queer” allora non era entrato nell’uso) che mettono a repentaglio anche la grande complicità affettuosa che pure il direttore aveva saputo creare con i suoi tre figli. Da lì in avanti, Lenny accompagnerà Felicia nel doloroso viaggio lungo la sua malattia mortale e compirà il viaggio interiore necessario per comprendere il ruolo imprescindibile avuto dalla moglie nella sua vita. Sempre fra contraddizioni e conflitti interiori. Una volta scomparsa lei nel 1978, il film rapidamente si chiude, anche se la vita e la carriera di Bernstein dureranno altri 12 anni. 

 

L’esecuzione mahleriana nella cattedrale di Ely, Inghilterra (nella carriera del direttore americano uno storico concerto alla testa della London Symphony Orchestra), è anche il culmine della prodigiosa mimesi fisica e intellettuale che Bradley Cooper mette in campo come attore nel delineare la figura di Bernstein. Non solo la somiglianza fisica è impressionante (e rende pretestuose e superflue le polemiche molto americane sulla protesi nasale adottata dall’attore-regista, polemiche del resto respinte totalmente dai figli); non solo la sua voce è la memoria verace e coinvolgente dell’originale (per apprezzarla, è consigliabile la visione in lingua originale – i sottotitoli in italiano sono disponibili – magari preceduta dalla visione dall’ascolto di qualcuna delle lezioni in cui Bernstein parla in prima persona, o risponde alle domande di un intervistatore). Ma specialmente colpisce l’interiorizzazione del gesto direttoriale, delineato da Cooper con la consulenza del direttore della Philadelphia Orchestra, Yannick Nézet-Séguin. Perché Leonard Bernstein si muoveva sul podio realizzando plasticamente nel gesto il suo pensiero interpretativo. Una prassi sicuramente irrituale, eppure fondamentale nella costruzione del suo mito, per l’adesione ai contenuti musicali profondi senza inutili schermi causati dalle buone maniere tecniche. E Cooper che dirige il finale della Seconda (un momento terribile per la sua difficoltà, ha raccontato in seguito il regista-attore) è una scena di grande cinema.

Poi, certo, mancano allo spettatore appassionato di musica vari passaggi decisivi per avere del musicista americano un ritratto completo. E segnatamente tutti quelli che riguardano il suo cosmopolitismo e soprattutto la sua fortuna in Europa, con le straordinarie prove (fortunatamente conservate in registrazioni e video) alla testa dei Berliner e dei Wiener Philharmoniker e in Italia alla guida dell’orchestra di Santa Cecilia, diretta 22 volte, dal 1948 all’anno prima della morte. Mancano le testimonianze sul suo genio comunicativo nelle trasmissioni TV, se non come riferimento in qualche intervista che serve a fornire spunti metanarrativi al film.

E ancora, l’Io sessualmente diviso di Bernstein, pure causa evidente di tutti i problemi coniugali e familiari, resta sostanzialmente sullo sfondo, trattato con un ritegno puritano che appare antitetico rispetto alla sua visione libertaria. E forse per questo, anche, viene del tutto evitato il discorso sul Bernstein politico, sostenitore delle Black Panthers, suo malgrado primo titolare dell’espressione “radical chic”, coniata da Tom Wolfe nel geniale racconto-reportage pubblicato sul New York Magazine nel giugno del 1970. In quel vero e proprio monumento del “New Journalism” americano si raccontava il party per Vip che si era tenuto all’inizio di quell’anno nel lussuoso attico del direttore a Park Avenue, con lo scopo di raccogliere fondi a favore degli attivisti afroamericani. Sul piano dell’impegno politico, però, Lenny e Felicia erano perfettamente in sintonia e quindi questo pur celebre e importante episodio risulta lontano dalla materia narrativa principale del film. Che si accontenta di fare di un affollato e chiassoso party, ricostruito perfettamente, il momento in cui esplode la crisi coniugale.

Ma quello di Bradley Cooper non è un documentario e non aspira ad essere una voce enciclopedica. E anche queste forme di ritegno, che in qualche momento sconfinano nella poco spiegabile omissione, contribuiscono a delineare la natura di questo film. Si tratta di un “musical non musical” che parla di vita vissuta. Di un “mélo” del XXI secolo, tipicamente ed esclusivamente americano, il cui soggetto è la complessa, contradittoria, drammatica vicenda sentimentale di un grande protagonista della musica nel secondo Novecento. Il primo che sia riuscito a far diventare la classica, almeno in parte e almeno per un po’ di tempo, un fenomeno autenticamente pop. L’unico fra questi pochi eletti del quale si continua a sentire la mancanza.

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