In mostra a Milano il multiverso belliniano / Mario Bellini, o della Bellezza
In Giappone vige il divieto di proiettare l’ombra di un edificio sul terreno del vicino. Pare che il problema si possa ovviare in due modi: o acquistando dal proprietario del terreno il diritto di proiettarvi l’ombra, oppure con un colpo di genio. A raccontare di questa peculiarità giapponese è Mario Bellini (1935), mentre illustra il modellino del Tokyo Design Center, edificio da lui progettato nel 1991, esposto nella bella mostra che Milano, la sua città natale, finalmente gli dedica.
La retrospettiva, intitolata Mario Bellini. Italian Beauty e curata da Deyan Sudjic, Ermanno Ranzani e Marco Sammicheli, cade a trent'anni di distanza dalla mostra che gli dedicò il MoMA di New York, incentrata sulla sua attività di designer (con 25 suoi pezzi già inclusi nella collezione permanente di quel museo). La rassegna milanese, allestita in Triennale, e visitabile fino al 19 marzo, accanto agli oggetti di design, presenta invece l’intero “multiverso belliniano”, che si compone della sua architettura – alla quale egli ha atteso a partire dal 1989 –, dei suoi interventi urbanistici, della sua virtù di mostrare, della declinazione delle sue preferenze musicali, di quella dei suoi interessi artistici e letterari e della miriade di suggestioni che egli ha saputo trarre dall’osservazione del mondo naturale e dallo studio della Storia dell’Arte e della cultura dei vari popoli dell’umanità.
Il progetto dell’allestimento è a firma dello stesso Mario Bellini, vero genio del “mettere in scena”, e si articola in un Portale, una Galleria, una Piazza, una wunderkammer e in quattro Stanze a tema, il tutto su un’estensione di oltre mille metri quadrati al piano terreno del Palazzo dell’Arte, offrendo all’osservatore una vera e propria kermesse della bellezza.
Nomen omen. Nel nome è racchiuso il destino, così in quello di Mario Bellini è contenuta la cifra della bellezza che lui persegue in ogni suo progetto, in ogni sua realizzazione.
Chissà se Jacopo Bellini, suo omonimo, era un suo antenato? Suo antesignano lo è di certo. Al di là del “gusto” del tempo storico di ciascuno, infatti, ad accomunarli è l’amore per la forma in quanto tale. Entrambi artisti a tutto tondo, nelle loro architetture mistilinee (quelle di Jacopo contenute nei due strepitosi album di disegni del Louvre), dove l’ortogonalità del sistema trilitico si coniuga alle sinuosità di quello archivoltato, perseguono l’eleganza, il cromatismo e la leggerezza. Tutti e due, poi, vivono in epoche di transizione, Jacopo a cavallo tra Gotico e Rinascimento, Mario fra Tarda Modernità e il linguaggio architettonico del domani a cui ancora non è stato attribuito un nome, ma che lui previene, preannunciandolo ai posteri con magistrale sapienza.
È il caso, ad esempio, di quella spettacolare onda di luce che costituisce la copertura del Dipartimento di Arti Islamiche del Museo del Louvre. Pare che l’idea sia nata da una lamiera piegata e modellata fino a farle assumere le sembianze di un velo trasparente e leggero, quasi una citazione del velo che copre il capo delle donne dell’Islam.
Iniziato nel 2005 e inaugurato nel settembre 2012, il Dipartimento è stato realizzato scavando sotto la superficie della Corte Visconti. Sopra lo spazio così ottenuto è stato poi adagiato un tetto translucido, sostenuto da otto pilastri e da travi reticolari spaziali realizzate con 8.000 tubi in acciaio, in modo che la luce possa filtrare e non si abbia la sensazione di stare sotto terra.
Grazie a questo intervento, il Louvre ha acquistato 6.800 mq in più, di cui 3.800 a destino espositivo, riservati alla prestigiosa collezione di arti islamiche che ospita, costituita da diciottomila pezzi.
La sinuosità di questo tetto-velario (che ricorda i velari che riparavano dal sole gli spettatori riuniti negli anfiteatri romani, primo fra tutti il Colosseo) e la sua permeabilità alla luce sono stati resi possibili dal materiale costruttivo: doppi pannelli triangolari isosceli, con dimensioni che variano a seconda delle pendenza, in maglia di alluminio brillantato e doppi vetri isolanti e filtranti. Ampie vetrate connettono poi verticalmente la copertura al pavimento, enfatizzando la leggerezza e la trasparenza dell’intera composizione.
Come nella Home-Page tridimensionale di un sito web sui generis, apre la mostra un Portale, ovvero una gigantesca libreria (lunga più di 25 metri e alta 6) su cui sono appoggiati, a mo’ di icone su cui cliccare, gli oggetti di design che si incontreranno lungo il percorso, insieme a schermi che proiettano video, a gigantografie e a modellini di architetture.
Un lunga Galleria, corredata di specchi, si snoda poi a ferro di cavallo per più di 100 metri. Vicina ai labirinti dei Luna Park, ospita in serie cronologica gli oggetti di design creati dal maestro (vincitore di ben otto Compassi d’Oro). Appesi all’alto soffitto, galleggiano sopra ciascun oggetto grandi pannelli fotografici (più di cento) riproducenti le immagini di riferimento a cui Bellini si è ispirato nel progettarlo: il profilo con branchie del muso di uno squalo per Programma 101 (Olivetti, 1965); una conchiglia spiraliforme per il prototipo della sedia Teneride (Cassina, 1970); il leggio dell’Annunciata di Antonello da Messina per il calcolatore Logos 50-60 (Olivetti, 1973); un grande cappello da suora per la lampada Area (Artemide, 1974); il tavolo de l’Ultima cena di Andrea del Castagno per il tavolo Basilica (Cassina, 1977); le colonne di un tempio dorico per il tavolo Colonnato (Cassina, 1977); il trono di Tutankamon per la sedia Cab (Cassina, 1979); il profilo di un airone che decolla per la sedia Persona (Vitra, 1984) e ancora molte altre, in un caleidoscopio rutilante di forme e di colori che ammalia e che inebria.
Fiancheggiano la Galleria quattro Stanze tematiche dedicate all’architettura. Qui, insieme ai modellini e ai disegni di progetto, su mega schermi sono proiettati dei filmati corredati di sonoro dedicati a ciascun intervento architettonico. Così, mentre si guarda il Tokyo Design Center, si possono udire i rumori del traffico che sfreccia lungo la Sakurada Dori; o lo stormire delle fronde nello splendido giardino retrostante, o ancora il rumore del vento sul velario del Louvre o quello dell’acqua della piscina della Headquarters for Arsoa Co. Cosmetics, a Kobuchizawa, ancora in Giappone, Paese dove il nostro è stato chiamato a realizzare moltissimi interventi.
Nella Piazza è di scena il tema del mostrare, così caro al maestro che ha saputo realizzare anche in questo campo autentici capolavori. Come non ricordare la profonda emozione che si provava nel visitare la mostra dedicata a Giotto, da lui allestita nel 2015 a Palazzo Reale a Milano? L’aspetto quasi glaciale dell’allestimento (total black) esaltava al massimo la profonda umanità giottesca (ah, quando sarà ancora possibile vedere da vicino il Polittico Stefaneschi, per commuoversi davanti al velo di Plautilla che galleggia nell’aria?).
Si consiglia la lettura qui del bel commento di Luigi Grazioli alla mostra su Giotto.
Su una parete sono poi riprodotte, come in una sorta di wunderkammer, le mani del maestro che reggono oggetti fondamentali per la sua poetica, dal quadro “L’architetto” di Mario Sironi a una giacca di Issey Miyake; da alcuni oggetti di Ettore Sottsass alla raccolta completa delle lettere di Mozart; da un piatto di Lucio Fontana al portaghiaccio di Gio Ponti; dal Compasso d’Oro a una matita con un foglio di carta, bianco, e molto altro ancora.
Sulla parete di fronte, completamente nera, campeggiano invece alcune parole chiave del ‘multiverso belliniano’. Si tratta degli “Appunti per un progetto di abbecedario”:
Architettura (Provate a definirla o a spiegarla a un bambino); Bellezza (Ci salverà); Città (Le città italiane sono un capolavoro: il libro della nostra storia. Suggerisco di leggere Marco Romano e la sua teoria sulla bellezza della città); Design (Significa solo disegno. E basta. Spiegatemi sennò la differenza tra una caffettiera ‘normale’ e una di ‘design’); Espressione (Cos’altro possiamo chiedere a città, arredi e oggetti se non quello di esprimere la nostra cultura dell’abitare); Finestre (Sono gli occhi degli edifici, attraverso i quali gli abitanti guardano la città e i cittadini guardano chi vi abita); Grado zero (Talvolta è necessario farvi ricorso per fare un reset e tornare ai fondamenti dell’esistere e dell’abitare); Hall (Il capoverso di ogni composizione architettonica, una delle mie ossessioni); Ipogeo (Sogno da anni di progettare una cantina e di esserne ricompensato con vini pregiati); Jobs (Dopo avermi accolto all’Aspen Design Conference, è venuto a trovarmi a Milano a propormi di disegnare per lui); Kar-a-sutra (Nel 1972, su invito del MoMA ho realizzato un’auto-spazio-mobile, considerata oggi la madre di tutte le vetture monovolume MPV); Kurzweil Raymond (Non perdetevi due suoi libri: The Age of intelligent machine e The singularity is near); Leggerezza (Quella che insegna Italo Calvino prima delle sue Lezioni Americane); Mostrare (Giotto. Pale d’altare. Disegni, modelli di architettura – del Rinascimento italiano – disegni, quadri, modelli d’architettura – quelli del Barocco europeo –, tesori – quelli di San Marco –, antiquariato preziosi arredi italiani … sono alcune delle mostre per le quali ho progettato l’allestimento); Navigare (Amo molto andare per mare, perché così posso vedere il mondo da un’altra sponda); Ombra (La prova dell’esistenza della luce. In Giappone, Paese che conosco e dove ho molto viaggiato e costruito, ho imparato che proiettare l’ombra sulle proprietà altrui ha un costo); Prospettiva (È il sottotitolo della mia retrospettiva); Quaderno (il mio ultimo PC disegnato per Olivetti nel 1995, progenitore degli attuali lap top); Responsabilità (Progettare è sempre un atto di responsabilità); Specchio (L’artificio che amo di più. Un’assenza che raddoppia la presenza); Teatro (Per me sono la casa e la città, entrambe teatro della vita privata e della vita sociale); Urbino (Lo splendido capolavoro delle Marche che custodisce La città ideale, tempera su tavola della fine del Quattrocento di autore ignoto, che non finisce mai di emozionarmi); Visione (Senza visione non c’è progetto); Wolfgang Amedeus Mozart (Credo di essere tra i pochi ad aver letto i tre corposi volumi che raccolgono tutta la corrispondenza epistolare sua e dei suoi famigliari. Curioso che non accenni mai ai luoghi che ha attraversato, quand’anche fossero stati unici, come Venezia); Ziggurat (Una delle più straorinarie invenzioni architettoniche della Mesopotamia, che dimostra come l’architettura non ha età. E non ha progresso).
Chiude la rassegna la sezione NEXT, dove, mutuando ancora il linguaggio del web, si annunciano i “Lavori in corso”, ovvero i progetti che lo studio sta portando avanti in questi giorni, dall’Antiquarium forense, il museo che racconterà le origini di Roma antica e che sorgerà accanto al Colosseo, ad una sedia avveniristica in plastica.
Immagini, parole, suoni, materiali, Arte, Musica: questi gli assunti del percorso belliniano attraverso la bellezza che la mostra di Milano documenta e propone al pubblico in modo suadente, teatrale ma anche didattico.
In conferenza stampa Mario Bellini ha parlato molto poco augurandosi che fosse la sua mostra a parlare per lui.
E ha avuto ragione.