Domani al Circolo dei lettori di Torino alle 18 / Pinocchio: il bambino ipercinetico e i panini imburrati

18 Gennaio 2019

Sabato 19 gennaio al Circolo dei Lettori di Torino Carissimo Pinocchio, una giornata nel paese dei Balocchi. Pubblichiamo, come anticipazione ai tanti incontri di questa giornata dedicata al burattino, un testo di Marco Belpoliti, che domani sarà al Circolo dei Lettori alle ore 18 per l'incontro "Quando l'arte incontra un classico", con Ugo Nespolo.

 

È stato solo a metà degli Anni Settanta che ho capito perché Pinocchio era il libro della mia vita, quello in cui mi specchiavo e da cui traevo, sin dall’infanzia, gran piacere a ogni rilettura. Il burattino era un personaggio con cui identificarsi, ma mai fino in fondo; si poteva gioire e soffrire con lui, ma appena la storia me lo consentiva, mi distaccavo da lui; prendevo a osservarlo da lontano, lo giudicavo, lo biasimavo, subito pronto a ricominciare da lì a poco il gioco della prossimità. E questo movimento l’ho ripetuto per anni, ogni volta che leggevo dell’impiccagione al ramo della quercia grande; dell’arresto di Pinocchio, dopo la rissa sulla spiaggia con i compagni di scuola; di Lucignolo magnifico imbroglione; dell’Omino che stacca con un morso l’orecchio all’asino; delle infinite promesse alla Fata; della Lumaca che impiega nove ore per scendere dal quarto piano e tre ore e mezzo per servire un falso pranzo al burattino affamato. Nello scaffale di una libreria di Reggio Emilia, gestita da un corpulento e simpaticissimo signore che in gioventù era stato amico dello scrittore Silvio D’Arzo, avevo trovato l’edizione Einaudi, un volume della Nue, con la prefazione di Giovanni Jervis.

 

Il copyright indicava come data di pubblicazione il 1968. Di Jervis sapevo che era il capo degli psichiatri del Centro d’Igiene Mentale della mia città e in quello stesso anno, il 1975, aveva pubblicato presso Feltrinelli il Manuale critico di psichiatria, un testo molto letto e discusso. Il tema della malattia mentale era all’ordine del giorno e, sebbene da lì a poco lo stesso Jervis ne avrebbe tracciato un bilancio non troppo positivo in Il buon rieducatore, l’impressione che ne ricevevo era quella di grande cambiamento in corso. Un modo diverso di pensare non solo la «follia», ma anche la «normalità». Ecco, Pinocchio. Verso la fine della sua introduzione Jervis spiegava che Pinocchio è un ribelle mancato e insieme un bambino mancato. Qualcosa d’incompleto. Gli aspetti evidenti della sua personalità sono la debolezza di carattere, la miopia di previsione, l’incapacità a elaborare i dati dell’esperienza. E tuttavia ciò che lo riscatta è la sua follia, una qualità che lo condanna a partecipare a un mondo che è al di qua del bene e del male. Lo psichiatra lo paragonava a un monacello, un folletto, un essere «vagamente subumano», proprio come uno di quei personaggi che diversi anni dopo avrei ritrovato nelle pagine di Anna Maria Ortese.

 

In quelle righe che negli anni seguenti ho riletto più volte, Jervis usava un termine per me sconosciuto: ipercinetico. Pinocchio assomiglia «a uno di quei bambini ipercinetici e simpaticissimi che vengono chiamati anormali del carattere, a un tipico, terribile problema educativo caratterizzato da difficoltà insormontabili nella introiezione della moralità, da un carattere infantile, impulsivo, cordialmente irresponsabile, attaccabrighe, generosissimo ma incostante, credulone, dispettoso fino alla crudeltà, ingenuo, insensibile ai sentimenti più profondi eppure fondamentalmente leale». Dieci anni dopo quando ho incominciato a insegnare, ho capito che in ogni classe c’era almeno un Pinocchio, un ragazzino che non sta mai fermo, disubbidisce, disturba i compagni, semina lo scompiglio, eppure riesce sempre a strappare la simpatia dell’insegnante, sovente contro il resto della classe. Quello che mi colpiva nello scritto di Jervis era l’idea che Pinocchio è insieme libertà e conformismo, che è fuori posto non solo nel nostro mondo, fondato sulla moralità degli scambi, da quelli commerciali a quelli affettivi, ma anche nel mondo magico del suo stesso libro, dove l’ideale dell’età adulta gli è proposto di continuo «senza che egli riesca mai a comprenderlo».

 

Opera di Emanuele Luzzati.


Se vado all’indietro con la memoria, al periodo dell’infanzia, quello che mi impressionava nel libro non era tanto il dissidio con gli adulti, i continui fallimenti scolastici e neppure l’avventura nel Paese dei Balocchi, ma l’eterna fame che prova Pinocchio, una fame atavica, ma anche molto bambinesca, in cui riconoscevo il mio medesimo desiderio di crescere, ingoiando, attraverso il cibo, il mondo stesso. Pinocchio è smanioso di diventare adulto, per questo pensa sempre a mangiare. L’episodio a me più caro era quello delle bucce di pera, proprio all’inizio del libro, quando la storia non ha ancora preso la forma di un inseguimento continuo, di una slapstick ambientata in un paese incantato che assomiglia molto alla Toscana dell’Ottocento. Subito dopo essersi bruciato i piedi sul caldano, Pinocchio si mette a piangere così forte che lo sentono a distanza di cinque chilometri. Geppetto, ritornato a casa, capisce che il suo burattino muore di fame e tira fuori della tasca tre pere che aveva destinato alla sua colazione. Pinocchio è schizzinoso e vuole assolutamente che il falegname gliele sbucci. E questo gli dà il destro per la prima tirata moralistica: «In questo mondo fin da bambini bisogna avvezzarsi abboccati e saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti! ...». Quante volte frasi simili escono dalla bocca dei genitori! La battaglia tra adulti e bambini intorno al cibo è senza fine. 

 

Pinocchio divora le pere sbucciate, ma ha ancora fame. Il povero falegname non ha altro da dargli. Restano le bucce e i torsoli. Piegato dai crampi, Pinocchio li spazzola via in un baleno. La conclusione di Geppetto è perentoria: «I casi son tanti!...». Di lì a poco Pinocchio è all’Osteria del Gambero Rosso in compagnia del Gatto e della Volpe i quali, sebbene la Volpe sia gravemente indisposta di stomaco, divorano una cena pantagruelica, a base di triglie, trippe, lepre, pollastri, pernici, starne conigli, ranocchi e lucertole. Solo il burattino non ha fame. Chiede all’oste uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lascia tutto nel piatto. Il malanimo o forse il presentimento per quello che accadrà di lì a poco – l’inseguimento notturno – gli impediscono di dar corso alla fame. Collodi commenta: è l’indigestione anticipata delle monete d’oro nel Campo dei Miracoli che gli ha spento l’appetito. L’appetito si basta con i resti delle pere o con i sogni ingordi della ricchezza. Pani e monete si scambiano sempre di posto e l’inseguimento della maturità – diventar finalmente un ragazzino – passa attraverso il lavoro, la ricompensa in denaro e il bicchiere di latte per il povero Geppetto o l’offerta dei quaranta soldi alla povera Fatina malata alla fine del libro. Non c’era bisogno di attendere l’invenzione freudiana della psicoanalisi per sapere che cibo e denaro sono legati, e che la cupidigia è connessa ai bisogni primari e il denaro allo sterco. Da piccolo mi chiedevo sempre perché i personaggi delle fiabe non si fermassero mai da qualche parte per fare pipì, mentre adesso lo schermo cinematografico è pieno di personaggi che ne fanno di tutti i colori; come Shrek, per esempio, che procede a idrogenare la palude dove vive con potenti emissioni di gas intestinali che fanno venire a galla, dentro bolle puzzolenti, i pesci e le creature dello stagno. Pinocchio ruba l’uva nel campo e per questo viene catturato dal contadino e messo a far la guardia, ma per quanto affamato non accetta lo scambio con le faine: una gallina bella pelata per colazione. È uno degli atti di moralità che colpiscono e che da piccolo mi venivano citati come esempio.

 

Dì lì a poco è invece costretto, negli alti e bassi dell’avventura, a sfamarsi con un cestino ricolmo di vecce, cibo per piccioni: «La fame non ha capricci né ghiottonerie», commenta Collodi, ben soddisfatto di aver ammaestrato coi semplici fatti della vita il suo personaggio. Nel capitolo ventiquattresimo – uno dei più noiosi, ma che da adulto ho scandito soddisfatto ad alta voce – si arriva nel paese delle api industriose che assomiglia tanto a uno di quei paesotti della Brianza dove ho vissuto per oltre un decennio. «Mangia due belle fette della tua superbia, e bada a non prenderne una indigestione», risponde il carbonaio al burattino che non se la sente di tirare il carretto in cambio di quattro generosi soldi. E alla fine compare la Fatina che sotto mentite spoglie gli promette un bel confetto ripieno di rosolio, seduzione dolce che fa capitolare Pinocchio. Lo zucchero, ossessione d’interi popoli privi di calorie, è il nettare dell’infanzia, ma anche della vecchiaia, quando si torna a dolcificare ogni cosa per eccesso. Il culmine del libro, citazione che ha deliziato tutta la mia infanzia, è quella dei panini imburrati sopra e sotto con cui si apparecchia la colazione in casa della Fata e cui sono invitati i compagni di scuola di Pinocchio: «duecento tazze di caffè e latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra». Alle feste in casa di amici per anni mi sono aspettato di trovare questi favolosi panini, dove immaginavo di veder spalmata la marmellata sopra il burro – ma come avrei fatto a tenerli in mano?, mi chiedevo preoccupato. Ma panini così non li ho mai mangiati da nessuna parte. E anche mi chiedevo perché proprio alla soglia di quella grande merenda Pinocchio preferisse perdersi con Lucignolo nel Paese dei Balocchi.

 

Non mi bastava la spiegazione che là non si fa scuola il giovedì e la settimana è composta di sei giovedì e una domenica, o che le vacanze cominciano il primo di gennaio e finiscono l’ultimo di dicembre. Perché perdersi quella grande scorpacciata? Da grande, dopo aver letto René Girard, ho capito quello che da ragazzo solo intuivo: il desiderio mimetico. L’imitazione degli altri è uno dei grandi motori che fanno avanzare il mondo, che producono cose positive e cose negative, a seconda di chi si imita. La gran morale del libro, di questa parte finale, la più ricordata da tutti, è che le cattive compagnie possono perderti. È l’insegnamento che mi veniva impartito quasi ogni giorno. Eppure Pinocchio mi piaceva proprio per il suo gesto ribelle, per l’ingenuità con cui si perdeva, per la sua incoscienza. Solo da adulto, ho compreso che ogni volta che ci si perde è perché lo si vuole, oscuramente e nel profondo; e che il carattere è già un imperscrutabile destino. Tuttavia Pinocchio è anche colui che si sottrae al proprio destino di ribelle, di perdente. È capace d’improvvise e inattese metamorfosi, di cambi di forma: da bambino a ciuchino e viceversa, da burattino a ragazzo in carne e ossa. Questa è anche la nostra speranza: cambiar pelle si può, e non solo una volta nella vita, ma più e più volte. Pinocchio si reincarna, sebbene ogni cambio di stato necessiti tanta sofferenza. E il cibo? Aiuta a diventar grandi.

 

E anche a sopravvivere. Nel ventre del Pescecane-Balena Geppetto si ciba dei resti del bastimento ingoiato dal Gran Pesce: carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrustolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, e per rischiararsi usa le candele steariche e le scatole di fiammiferi di cera. E quando anche le scorte finiscono, s’ingegna a mangiar pesce crudo catturato dal suo gigantesco ospite: «Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!...». Di nuovo le bucce e i torsoli delle tre pere. Molti anni dopo aver letto queste righe mi sono trovato a parlare con Gianni Celati che aveva scelto proprio questo passo di Pinocchio per spiegare le scelte della sua antologia di scrittori, Narratori delle riserve. Sosteneva che vivevamo in tempi di ristrettezze e che anche le bucce potevano andar bene se si aveva fame. Anzi, questo era proprio un gesto di serena saggezza di fronte al mondo così com’è. Nel libro, uscito all’inizio degli Anni Novanta, la citazione dal libro di Collodi non c’è, ma il ragionamento è ugualmente presente: «Il visibile è sempre il già visto, il dicibile è sempre il già detto. La scrittura ci riavvicina alle riserve delle cose che erano già là nel nostro orizzonte, prima di noi. E d’ora in poi noi possiamo anche vivere senza nuove visioni del mondo». È una dichiarazione di poetica, ma è anche una lettura di Pinocchio: se si ha fame, si possono ben mangiare anche le bucce.

 

Non sempre gli avanzi, i residui sono destinati al pattume. Viviamo di briciole, ritagli, minutaglie, scarti, sopravanzi. Anzi, a ben pensarci, la nostra vita è fatta solo di resti, e noi, come Pinocchio, burattino ipercinetico e simpaticissimo e bambino incompleto, possiamo vivere senza ricorrere a nuove visioni del mondo. In quella prefazione uscita nel 1968 Jervis concludeva: «I ragazzi di oggi, proprio perché più smaliziati, riescono a distanziarsi da Pinocchio, a non perdersi in lui senza per altro dover rifiutarlo; essi colgono facilmente la dialettica fra il rischio antisociale e la sua promessa di libertà, fra il richiamo di moralità degli adulti e l’accettazione di un universo di compromessi [...] Pinocchio è riuscito a trasmettere la sua contraddittorietà al lettore, lasciandogli un unico margine non risolto, lo stimolo alla libertà». Carissimo Pinocchio.

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