Speciale

Occhio rotondo 42. Inabitanti

10 Novembre 2024

Un arco vegetale e a terra, sul suolo, dei rettangoli di difficile decifrazione, forse cartone pressato, forse legno o più probabilmente metallo ondulato. Si tratta dei resti di una costruzione, un ricovero creato in una zona boschiva del quartiere Bovisa a Milano. Nel fitto di questa vegetazione spontanea tra il 2003 e il 2006 un artista, Tancredi Mangano, ha fotografato le abitazioni provvisorie di un gruppo di nomadi rumeni. Nascosti agli occhi degli abitanti della zona, essi hanno creato per qualche tempo delle casupole utilizzando materiali di scarto provenienti dalle più diverse situazioni: porte di legno, manufatti edilizi, teloni impermeabili, cartelli pubblicitari. 

Questi rifiuti della civiltà sono stati assemblati in modo da creare delle capanne, dei bungalow, stanze per difendersi dal freddo e trovare riparo la notte per dormire. In questo scatto c’è solo la boscaglia, con piccoli alberi, forse pioppi, betulle o robinie, giovani piante che diventano le strutture portanti nel collage abitativo degli abitanti clandestini. Una condizione estrema. La serie di fotografie scattate da Tancredi Mangano ha un titolo esplicativo: Inabitanti; gioca con la parola “abitare” e con l’aggettivo contrario “inabitabile”. Nelle 11 fotografie di quel lavoro, esposto presso la Bottega di Cecé Cassile (via Solari 23, Milano fino al 21 dicembre) non vi sono raffigurate persone, esseri umani, compaiono invece i loro manufatti. Sono dei rifugi, uno spazio separato, che desidera mantenersi segreto per sottrarsi agli occhi di chi vive attorno, una forma di vicinanza che è anche distanza. 

Osservando le grandi fotografie appese ai muri della Bottega ci si rende presto conto dell’ingegnosità dei romeni, perlopiù muratori o pittori, gente che vive di lavori manuali e con la medesima perizia monta insieme quello che trova per dare forma alla propria abitazione. La parola “abitare” viene dal latino e deriva dal verbo habere, “avere”, precisamente da habitare, che si traduce con “tenere”. Chi ha casa abita e quindi tiene qualcosa per sé, e forse anche di sé. Guardando questa bellissima immagine in cui della casa resta solo quell’arco realizzato piegando un alberello e stringendolo con pezzi di stoffa, viene da pensare cosa sia davvero l’abitare in una condizione simile. Gaston Bachelard nel suo libro La poetica dello spazio parla della “topofilia”, dell’amore del luogo, dello spazio posseduto e difeso contro le forze avverse: lo spazio amato. E questo è sicuramente uno spazio desiderato, protetto e alla fine in qualche misura amato. 

Uno spazio inabitabile che il desiderio di dimora dei nomadi romeni ha trasformato in casa. Mangano è molto bravo a fotografare le piante, il mondo vegetale, come dimostrano le fotografie esibite nella bottega-galleria di Cecé. In questa immagine è la luce la protagonista dello scatto insieme agli alberelli e ai cespugli che si trovano attorno, una luce sfumata e polverosa, che disegna un luogo a suo modo felice, come quelli in cui si giocava da bambini, a nascondersi e a cercarsi. Sono immagini che nascono da questa fotografia che preferisco tra quelle esposte; la maggior parte raffigura gli abitacoli assemblati dai romeni. Sono attratto da questa capanna invisibile e dal suo arco e non so bene perché. A guardare bene si scorge sullo sfondo una struttura di metallo che fa corpo con la vegetazione, così da essere quasi indistinguibile; sulla sinistra i resti di un sedile metallico, una poltroncina o qualcosa di simile. I due oggetti sono assorbiti dall’intrico vegetale, mentre in alto si può intravedere un tetto, la parte terminale d’un edificio. 

Guardando queste case precarie viene in mente un verso di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case”. Qui nel Villaggio dell’Inabitare non c’è nessuna sicurezza, bensì indigenza, non c’è tepore, ma solo l’umido e il freddo dei mesi autunnali e invernali. Quello che vedo tra il verde è il resto d’una casa disfatta dal tempo o dai suoi stessi abitanti, i resti d’una costruzione e d’un alloggio. Nel foglio di sala che presenta questa esposizione c’è scritto che con queste costruzioni gli abitanti del piccolo villaggio si sono assicurati la “basilare sussistenza”, diventando altrimenti gli abitanti invisibili e inesistenti della città di Milano. Quello che si coglie nelle fotografie di Tancredi Mangano è la tenacia e la costanza dei romeni a voler avere un’abitazione tutta per sé, una costruzione per quanto minima ed essenziale: quattro mura di plastica, metallo, cartone e legno. Nel piccolo boschetto, spazio vegetale sopravvissuto tra le abitazioni di cemento e mattoni, gli inabitanti hanno creato un loro enclave per poter dormire dopo il lavoro insieme, in una condizione di piccola comunità. Il villaggio è stato spazzato via da anni e ora al suo posto vi sta sorgendo una nuova costruzione progettata da un famoso architetto italiano, Renzo Piano. La città che avanza divora tutto: il boschetto, le baracche, i desideri e i sogni di chi le ha costruite. Per quanto temporanee erano case. Chissà dove sono gli inabitanti adesso?

In copertina, Inabitanti #26, ©Tancredi Mangano

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