Classici in prima lettura / Memorie dal sottosuolo

31 Luglio 2016

Abbiamo affidato ai nostri autori la lettura di un classico che non conoscevano, da leggere come se fosse fresco di stampa.

 

In un saggio molto bello di Maryanne Wolf, Proust e il calamaro (Vita e Pensiero, 2009), si parla di capacità cognitive, di come il nostro cervello sia mutato nei secoli adattandosi ai vari tipi di scrittura, passando dai caratteri cuneiformi (Sumeri) all’alfabeto (Greci e Fenici); di come siano cambiate, come conseguenza, le nostre capacità di apprendimento. Secondo Wolf leggere un classico a vent’anni non è come leggerlo a quaranta, cinquanta o sessanta, diversa è la capacità di apprendimento e diverso è il nostro bagaglio esperienziale, a cinquant’anni avremo letto molti più libri e vissuto più a lungo; avremo molto probabilmente letto già altri libri dell’autore di quel classico che stiamo per affrontare. Troveremo differenze (per gli stessi motivi) quando leggeremo un romanzo, una seconda volta, a distanza di dieci o vent’anni. Sarà meglio averli letti con la freschezza e la curiosità dei vent’anni o con l’esperienza e maggior conoscenza dei quarant’anni? Wolf è una scienziata ma qui non dà risposta certa, perché risposta non può esserci. Proust e il calamaro mi è tornato, inevitabilmente, in mente quando ho deciso di leggere Memorie dal sottosuolo, per la prima volta, a quarantacinque anni suonati. Ho cercato di cominciare la lettura sgombrando il più possibile la testa, fingendo di non aver letto nulla di Dostoevskij, di non conoscerlo. Ho finto di avere tra le mani una novità editoriale, immaginando che il romanzo fosse stato scritto nel 2016 invece che nel 1864. Ho fatto una fatica inutile perché Dostoevskij non può fare a meno di stupirti e Memorie dal sottosuolo è così lungimirante e attuale che potrebbe essere stato scritto, cambiando qualche dettaglio, in questi mesi.

 

“Io non solo non ho saputo diventare cattivo, ma non ho saputo diventare niente: né cattivo né buono, né furfante né onesto, né eroe né insetto. E ora vivo nella mia tana facendomi beffe di me stesso, con la maligna e vana consolazione che d’altronde un uomo intelligente non può diventare sul serio «qualcosa», solo uno stupido diventa qualcosa.”

Un uomo di quarant’anni, grazie all’aiuto di una piccola eredità, lascia il lavoro e si chiude in casa, deciso a rimanerci e a scrivere le sue memorie. Dostoevskij non ci presenta il personaggio, ce lo scaraventa addosso, fa sì che si mostri egli stesso da subito in tutta la sua rabbia, con ogni sua debolezza. L’uomo pare immediatamente molto intelligente ma allo stesso tempo mediocre, perché è così che si vede, non fa nulla per nascondere né l’intelligenza, né la mediocrità; ma perché decidere di raccontarla? E a chi?

“E del resto: di che cosa può parlare una persona per bene con il massimo piacere? Risposta: di se stessa. E allora parlerò di me.”

 

Ecco. L’edizione del romanzo che ho io (Rizzoli, 1994 e successive edizioni, trad. di Milli Martinelli) è introdotta da una bellissima prefazione di Alberto Moravia, che considera Memorie dal sottosuolo uno spartiacque dentro l’opera di Dostoevskij. Moravia scrive che a un certo punto lo scrittore russo ha abbandonato il primo piano, abitazione dalla quale ha scritto tutti i libri precedenti per scendere sottoterra, in cantina, nel sottosuolo – appunto – da dove ha cominciato a scavare più a fondo, sempre più a fondo, per scrivere tutti i suoi romanzi migliori. Quelli che sono considerati i capolavori di Dostoevskij sono, infatti, tutti successivi al 1864, anno di scrittura di Memorie dal sottosuolo. Moravia osserva che Dostoevskij non sia più risalito nell’appartamento, tutto è stato scritto dal sottosuolo. Moravia ha ragione, naturalmente, ma è anche vero che appartamento e cantina stanno insieme, e allora tutto quello che è stato scritto dal sottosuolo risente anche di quello che è venuto prima. L’idiota e I demoni, vengono anche da Il sosia o da Povera gente.

 

Memorie dal sottosuolo è un romanzo incredibile, la prosa ha un passo irresistibile e attualissimo. È talmente in anticipo sui tempi che ti costringe a farti delle serie domande su ciò che scriviamo e leggiamo adesso. Una delle grosse novità è di tipo strutturale. Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima troviamo l’uomo che ci sproloquia addosso, pare di vederlo mentre fa su e giù in una piccola stanza e ci spiega i motivi che lo hanno spinto alla decisione di scrivere le proprie memorie, e anche quelli che dovrebbero trattenerlo dal farlo. È prepotente quando rivendica il bisogno di essere libero e fuori da ogni convenzione, e poi fa tenerezza, quasi, quando si riconosce inconcludente (l’inconcludenza è il motivo per il quale si considera intelligente). Quasi ci punta il dito addosso mentre ci mostra tutti i difetti dell’uomo, che abbondano e si manifestano sia nell’accettazione delle cose, sia nei tentativi di cambiarne il corso. Quest’uomo che non ha amici, che si vanta di non averne, che allo stesso tempo non si perdona il bisogno di tanto in tanto di cercarne, di rivendicarne la compagnia e poi di detestarla, quest’uomo ci mette davanti a un specchio e quello che vediamo siamo noi.

 

 

Vediamo i nostri pensieri più nascosti, quelli che a nessuno mancano mai, quelli che – dal sottosuolo – ci guardano e ci domandano il permesso di uscire. Se fossimo tutti sinceri (soprattutto con noi stessi) saremmo più malvagi o più buoni? La vita che conduciamo è reale o è soltanto convenzionale?

“Quando mai la civiltà ci ha reso più umani? La civiltà genera solo una solo una contradditoria molteplicità di sensazioni nell’uomo e… proprio nient’altro. E con lo sviluppo di questa contraddittorietà l’uomo forse arriverà al punto di trovare ebbrezza nel sangue. Del resto ci è già arrivato.”

L’ebbrezza che è la stessa che prova il personaggio nel mostrarsi e nel raccontare, parlando al lettore parla a se stesso. Quello che Dostoevskij vuole raccontarci è l’uomo, in tutte le sue contraddizioni, lo fa con una lucidità e lungimiranza impressionanti, le tre righe citate qui sopra, sono più che applicabili ai nostri giorni. Prima che cominci la seconda parte del romanzo, Dostoevskij entra personalmente nel testo, con una nota in cui spiega che nell’opera di fantasia: “Sia l’autore delle memorie che le stesse «memorie» sono ovviamente inventati”. Se nella prima parte il personaggio tenta di spiegare le ragioni per le quali ha fatto la sua comparsa, nella seconda parte arriveranno le vere e proprie memorie, il personaggio racconterà alcuni fatti della sua vita. 

 

Lo scrittore entra nel testo, a metà romanzo, e siamo nel 1864. Entra in maniera molto semplice, con una linearissima pagina di spiegazioni, ma è dirompente perché lo fa, perché decide di richiamare il lettore all’ordine, dicendo che le memorie arrivano dal sottosuolo, e fino a questo punto il sottosuolo ti è stato mostrato, ora leggi e guarda ciò che il sottosuolo ha prodotto. Dostoevskij anticipa il postmoderno. Se Carver è venuto da Babel e da Čechov, Foster Wallace e Lerner (per fare solo due esempi) vengono da Dostoevskij. Cominciano le memorie, dunque, ed è una parte di libro meravigliosa, commovente e struggente. Il nostro protagonista ci mostrerà attraverso le azioni che ha compiuto (e non compiuto) la propria inadeguatezza. Le umiliazioni che subirà quando vorrà umiliare. Si mostrerà comprensivo e tenero nei confronti di una prostituta, ma subito dopo diventerà duro per compensare la debolezza. Si renderà ridicolo ogni volta che si ostinerà nel perseguire uno scopo di cui in realtà non gli importa. Sarà arrogante e volgare. Racconterà la propria solitudine come una scelta, ma noi ogni tanto penseremo al destino. 

 

La prosa di Dostoevskij è meravigliosa, scopro ancora di più uno scrittore che non ha eguali. La condizione umana è mostrata con l’occhio di un singolo che ha il coraggio di guardarsi dentro, fino al sottosuolo, trovandoci ogni cosa. L’uomo vorrebbe essere libero, ma non lo sarà mai veramente, per convenzione e per estrema indecisione. Memorie dal sottosuolo è un classico proprio perché è custode di ogni tempo, quelle memorie diventano in automatico quelle di chi legge, perché ciò che tormenta l’uomo, da sempre e per sempre, è se stesso. Dostoevskij lo sapeva e poi sapeva scriverlo. Quanto tempo è passato dal 1864? Sembrerebbero un paio di settimane, o poco più.

 

“In effetti, ora pongo a me stesso una domanda oziosa: che cos’è meglio? Una felicità a buon mercato, oppure un’estrema sofferenza? Allora, cosa è meglio?”

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